In ufficio siamo rimasti in cinque, ma dalla prossima settimana saremo in due. La mattina, quando arriva il vigilante per sbloccare il sistema d’allarme, nei corridoi si respira un’aria bollente. I miei colleghi e io passiamo gran parte della giornata rinchiusi nelle stanze con i condizionatori accesi, usciamo solo per andare in bagno o per la pausa caffè, pause che diventano sempre piú brevi via via che passano i giorni.
Sarà per me un altro agosto senza ferie. D’estate Roma diventa un lago accecante, fumoso, fetido, stordente, bianco, di quel bianco che fa deragliare il pensiero, e le giornate si fanno chilometriche come traversate nel deserto.
Il mese scorso, al Museo egizio di Torino, di fronte a un sarcofago vecchio di quattromila anni, ho sentito l’audioguida dire: «L’antica arte egizia non era descrittiva, le statue funerarie non svolgevano la funzione di rappresentare il defunto. Esse erano il defunto. È per questo che i manufatti non sono firmati. L’artista non esiste, esiste solo la sua opera». È stato allora che ho pensato che avrei dovuto tenere un diario del mio agosto lavorativo, per intagliare attraverso la scrittura la mia statua funeraria.
Al lavoro non c’è molto da fare, sbrighiamo ogni pratica a orari prestabiliti, suddividiamo gli argomenti di conversazione in base alle ore della giornata: calcio, politica, meteo.
Lunedí il vigilante non è arrivato alla solita ora, siamo rimasti in attesa davanti al portone. Ma alle otto del mattino di un giorno d’agosto non è possibile alcun tipo di conversazione, cosí abbiamo lasciato che tra noi s’imponesse il silenzio.
Tu non sai niente del mio lavoro, non mi hai mai chiesto come passo le giornate, è come se intuissi l’incredibile inutilità del mio lavoro, o meglio il suo aspetto fisiologico: il mio lavoro copre una necessità, come lo è farsi la doccia ogni giorno, lavarsi i denti, defecare, dormire. Non si chiede mai a nessuno, neppure a un figlio perduto e ritrovato di cui si vorrebbe conoscere tutto, «A che ora fai la doccia?», «Come passi il tempo quando sei in bagno?» A te basta sapere che ho uno stipendio con il quale riesco a provvedere ai miei bisogni, cosí come ti basta sapere che ho un aspetto ordinato e che mi prendo cura di Grazia e di mio figlio.
Per ingannare il tempo ho scoperto un’applicazione che facilita l’identificazione delle piante. Basta scattare una fotografia alla foglia o al fiore della pianta e il sistema si collega a un database botanico che ne individua il nome scientifico.
C’è un particolare tipo di pianta che amo molto, è un albero con le foglie di un rosso cupo, quasi viola, che in certe condizioni di luce sembrano virare al nero opaco. È molto diffusa nelle strade di Roma. Di recente l’ho fotografata lungo i marciapiedi di via degli Scipioni nel quartiere Prati, ma ignoro quale sia il suo nome.
L’applicazione è in realtà una scusa per telefonarti, è un nuovo potenziale argomento di conversazione. Ho scaricato l’applicazione per dirti: «Ho scoperto una cosa che potrebbe facilitarti nel lavoro».
Ma alla prova dei fatti l’applicazione non ha funzionato. Ho scattato alcune foto alle piante in giardino e le ho inviate al database. Le risposte sono state ignobilmente errate. Cosí, quando mi hai telefonato il giorno di ferragosto ho pensato che non fosse il caso di parlartene.
– Ti sento stanco, – mi hai detto.
– Sono solo un po’ giú di morale.
– Stai andando ancora al lavoro?
– Non ho mai smesso.
– Sarà per questo.
Ti ho raccontato come passo le giornate in ufficio. Hai cercato di consolarmi, usando parole e pensieri di circostanza. Poi ti ho detto: – Non è solo questo. A settembre dovrò sentire di nuovo lo psichiatra.
– Mi dispiace, – hai mormorato. Ho percepito nella tua voce l’imbarazzo e il desiderio di porre fine al piú presto alla conversazione.
Sono rimasto a letto con le tapparelle abbassate ad ascoltare il ticchettio della pioggia. Nell’ultima settimana l’aria è diventata fresca. Nonostante ciò la notte non chiudo occhio. Alle tre del pomeriggio nel cielo si è schiusa una ferita azzurra, allora ho chiesto a Mario se aveva voglia di uscire. Siamo andati a ponte Milvio a fare lezioni di bicicletta. Mario non sa ancora andare in bici, il suo è una specie di rifiuto psicologico, si ostina a scivolare sulla destra del sellino sbilanciandosi con tutto il corpo. Anche la pedalata non è fluida.
L’ho spinto lungo la pista ciclabile tenendolo per il piantone del sellino, ma rispetto all’ultima volta mi è sembrato perfino peggiorato. La mancanza di sonno, il cattivo umore generale che mi opprime, mi sottraggono la pazienza necessaria.
Ho ricordi vaghi di te che mi insegni ad andare in bici, è poco piú di un’immagine nebbiosa nella mente. Siamo nel cortile di S., mi hai appena comprato una bici da cross, mi corri dietro mentre avanzo zigzagando in equilibrio precario. Neppure io ho qualità innate da ciclista. Tutti i miei amici sanno già andare in bicicletta, io arranco, cado, sono una specie di capriolo tremante ancora incapace di stare ritto sulle zampe posteriori.
La lezione di ferragosto è durata una decina di minuti in tutto. Poi il cielo si è di nuovo oscurato, una coltre livida di nuvole temporalesche ha rabbuiato Roma. All’apparire dei primi fulmini siamo corsi via.
La mattina arrivo al lavoro alle sette e mezza, saluto il vigilante e mi rinchiudo nel mio ufficio. Apro le finestre per arieggiare la stanza e accendo il climatizzatore. Prendo un caffè al distributore automatico e una bottiglia di minerale da 0,50. A volte mi affaccio alla finestra a contemplare il piccolo giardino interno dimenticato in cui crescono un gran numero di piante selvatiche. Vorrei fotografarle una a una, inviare le foto al database e poi osservare i responsi sbagliati dell’applicazione. Sono come un uomo in cerca di risposte che interpella un veggente di cattiva fama per il solo bisogno di essere confortato.
Ultimamente Mario vuole dormire sempre con me, si sdraia nel lettone, aspetta che io finisca di guardare l’episodio della mia nuova serie tv preferita, si tiene sveglio leggendo un libro o un fumetto. Quando lo raggiungo, spegne la luce e si prende cura del mio sonno. Ha da poco inventato un sistema da lui ribattezzato metodo di addormentamento in 6 fasi:
Fase 1. | Mi invita a fare un lungo respiro. |
Fase 2. | Sfrega il suo corpo contro il mio in modo da cospargermi del suo profumo tranquillizzante. |
Fase 3. | Mi fa un massaggio sulle spalle. |
Fase 4. | Mi dice di fare un altro respiro. |
Fase 5. | Mi gratta la schiena. |
Fase 6. | Mi invita a cercare dentro di me la calma profonda. |
Ho sentito parlare di calma profonda al tempo in cui Mario era ancora nella pancia di Grazia. Frequentavamo un corso preparto. Durante le lezioni dedicate al training autogeno l’operatore ci diceva: «Immaginate di essere una montagna. Siete immobili, lo scorrere del tempo non vi sfiora. Gli animali si muovono su di voi, siete il loro territorio. Siete una montagna molto alta che tocca il cielo. Ora immaginate di essere immersi in una notte limpida. La luna è sopra di voi, il suo chiarore v’infonde la calma piú profonda».
In una poesia del poeta americano William Pitt Root, Waking to the Comet, c’è la rievocazione della figura paterna, un’immagine seminale, eterna e immutabile come un trauma infantile:
Tu eri al mio fianco.
Tu eri la montagna
che ostruiva la metà
d’un cielo colmo di stelle.
Io ero piccolo
nella profondità della tua ombra,
fissavo acqua nera
e barche sfavillanti.
Ho sempre immaginato la figura del padre cosí, come una montagna, un’ombra enorme che oscura l’orizzonte, che al contempo protegge e ostacola. Per cercare dentro di me la calma profonda devo pensarmi come una montagna, ossia come padre. Questo mi chiedeva l’operatore di training autogeno quando mi accingevo a diventare padre. Questo mi chiede ora mio figlio.
Una sera, al buio, Mario ha detto: – Papà, dove finiscono le stelle cadenti?
– Da nessuna parte. In realtà non sono neppure stelle, sono minuscoli pezzi di stelle che si consumano nell’atmosfera.
– Allora perché quando passa una stella cadente bisogna esprimere un desiderio?
– Non è mica obbligatorio.
– Sí, ma perché?
– È una credenza popolare.
– Quindi non è vero che se vedo una stella cadente ed esprimo un desiderio, quello poi si esaudisce?
– Non sempre.
– Io ho un desiderio che non si potrà mai esaudire.
– Quale?
– Che le persone della mia famiglia vivano per sempre. Come le montagne.
La mattina c’è il sole, il pomeriggio arrivano gli acquazzoni. Non sono piogge normali, sono veri e propri diluvi, le sirene degli allarmi risuonano in tutta la città, enormi fiumi d’acqua piovana scorrono lungo le strade.
È venerdí, è appena finita la mia settimana lavorativa, sono le cinque del pomeriggio e sto tornando a casa. Inizia a cadere la grandine. Pioggia e ghiaccio arrivano a folate, sospinti da improvvisi colpi di vento. In via del Foro Italico un albero si abbatte sulla strada proprio davanti a me, se fossi passato un attimo prima mi avrebbe centrato in pieno. Ci sono quattro macchine in tutto. Un uomo sotto la pensilina della fermata dell’autobus afferra il tronco e prova a trascinarlo per liberare il passaggio, riesce a smuoverlo di quel poco che consente alle auto di defluire.
Arrivo sotto casa e parcheggio, ma la grandine scroscia cosí forte che decido di restare in macchina. Ascolto Vic Chesnutt che canta Buckets of Rain. È tutto perfetto, tranne per il fatto che il rumore della grandine sulla carrozzeria copre la voce di Vic Chesnutt.
Mentre aspetto che spiova, ti mando un messaggio sul telefono. Ho scattato due foto dell’albero caduto. Te le invio e scrivo: «Per poco non mi cadeva in testa».
Mi chiami subito. La tua voce è sovrastata dal rumore della pioggia. Hai un tono preoccupato, mi chiedi dove mi trovo. Ti rassicuro, ti dico che ho parcheggiato proprio davanti a casa. Mi dici che da te non piove, solo lampi e tuoni. Ci salutiamo e riattacco, la pioggia non cala d’intensità.
Esco dalla macchina e mi rifugio sotto una tettoia, scendendo non mi accorgo di aver premuto l’interruttore dell’alzacristalli. Quando rientro in casa sono zuppo, ignoro di aver lasciato la macchina col finestrino abbassato sotto il diluvio.
L’indomani troverò gli interni allagati. L’odore acuto di muffa mi perseguiterà per settimane.
Secondo la leggenda, sant’Alessio era nato da genitori già vecchi. Era cresciuto in modo virtuoso e alla vigilia delle nozze con una ragazza nobile e ricca fuggí di casa e se ne andò per mare. Giunse a Edessa, in Asia Minore, dove si fece volontariamente povero. Il padre mandò i suoi servitori a cercarlo, alcuni di loro si spinsero fino a Edessa, lo incontrarono, ma non lo riconobbero. Dopo diciotto anni Alessio riprese il mare e tornò a Roma. Per percorrere fino in fondo la via dell’umiliazione, si presentò in casa del padre fingendosi un mendicante. Fu accolto e ospitato in un sottoscala del palazzo, dove rimase per altri diciassette anni facendo vita da derelitto senza che nessuno lo riconoscesse mai.
Quando al catechismo mi raccontarono la storia di sant’Alessio, per molto tempo ventilai l’idea di fuggire di casa e vivere in strada, a lungo, fino al punto in cui la completa rinuncia alla vita comoda, alla pulizia, al cibo, non mi avesse reso irriconoscibile, e poi presentarmi nella tua nuova casa come un mendicante, sporco e malandato, un moribondo distrutto dalla stanchezza e dalla degradazione, per farmi prestare cura da te, ed essere accudito e risanato, senza rivelarti mai la mia vera identità.
Il 18 agosto accompagno Grazia e Mario all’aeroporto. Staranno via per una settimana, in Sardegna, a casa della madre di Grazia. Al momento dei saluti faccio a mio figlio le consuete raccomandazioni. Lui quasi non mi vede, è eccitato per la partenza, gli sfioro la visiera del berretto e lo abbraccio. Mentre torno verso casa guidando lungo l’autostrada, mi sento come se mi avessero asportato gli organi e risucchiato ogni goccia di sangue nelle vene. Trascorrerò i prossimi giorni in solitudine, facendo la spola tra casa e lavoro, telefonando a mia madre ogni sera, guardando dalla finestra gli acquazzoni pomeridiani.
Ho deciso che in queste settimane la mia principale occupazione sarà tradurre le poesie di William Pitt Root. Non esiste un’edizione italiana delle sue opere, né tantomeno delle libere traduzioni.
William Pitt Root è nato nel 1941 a Austin nel Minnesota ed è cresciuto nella fattoria del padre in Florida. Ha studiato alla University of Washington, dove è stato allievo del poeta americano David Wagoner. I suoi riferimenti letterari spaziano da Langston Hughes alla poesia etica di Wendell Berry. Nel 1997 è stato nominato poeta laureato a Tucson. Vive a Durango in Colorado con la moglie Pamela Uschuk, un cane di nome Mojo Buffalo Buddy e la gatta Sadie. Naomi Shihab Nye dice di lui: «La sua voce è tendini, ossa e sangue. Un corpo pieno di muscoli ma leggero».
Nei suoi lavori è spesso descritta una situazione ambientale che il piú delle volte basta da sé a edificare il senso della poesia. Cosí il gioco di rifrazioni, le luci, i rumori, la natura che si mescola in un silenzio primitivo alle piú remote pulsioni umane.
Come in Night Poem in the Shawangunks:
Non ho udito il frantumarsi
delle ossa e del cranio
o il risucchio del cuore
appena estratto da un petto
che continua a palpitare nell’erba madida,
e sí il mio cuore rapidamente
ha concordato, prima contraendosi
spaurito come una preda
poi espandendosi
sfrenato come un astro che si espande,
vistoso come un sacerdote azteco.
Per un po’ ho spento la luce.
Ho posato gli occhi
sui boschi senza luna.
O in A Gift of Stone:
Chini sulla superficie dello stagno
scorgiamo noi stessi che guardiamo su
dal cielo alto dietro di noi
dove le nuvole si ammassano
come le facce degli avi
in un sommo ricordo di vento.
Le fotografie reperibili in rete mostrano un uomo corpulento, con una barba bianca da patriarca, lo sguardo profondo velato di consapevolezza e di una calma esemplare. In una foto di qualche anno fa Root sfoggia un paio di baffi a ferro di cavallo, i biker moustache, che non siamo soliti immaginare sul viso di un poeta. Un altro scatto ce lo mostra in una posa tenerissima col suo cane, lo stesso a cui ha dedicato la struggente From One Old Dog to Another:
Con un’occhiata casuale
ho visto brillare nei tuoi occhi una luce
profonda come le mie ossa, la tua lingua
una pura gioia rosa che penzola schiumosa;
il tuo cuore cosí potente da balzare come un coniglio atterrito tra le costole.
In un’altra ancora, in posa in primo piano con Pamela, sorridenti e felici, sullo sfondo la natura impervia e inaridita del Colorado. E poi una con Rita Dove scattata a Denver durante la conferenza annuale della Awp (Association of Writers & Writing Programs), Wi...