L'affittacamere del mondo
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L'affittacamere del mondo

Airbnb è la nostra salvezza o la rovina delle città?

  1. 184 pagine
  2. Italian
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L'affittacamere del mondo

Airbnb è la nostra salvezza o la rovina delle città?

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L'Italia è sempre stata meta prediletta del turismo internazionale. Poi è arrivata Airbnb. E ha cambiato tutto. La nazione dove 8 cittadini su 10 vivono in una casa di proprietà e dove 4 giovani su 10 non hanno lavoro, ha fiutato l'affare. Cosí chi ha ereditato l'appartamento ma non il posto fisso ha cominciato a ricavare dalle quattro mura il proprio sostentamento. Oppure ha trovato spazio nel vasto indotto dell'ospitalità. Quest'attivismo si scontra con una militanza di segno opposto. I comitati anti-movida, gli urbanisti preoccupati dallo snaturamento delle città d'arte e la disneyficazione dei nostri borghi. A cui si aggiungono le accuse ad Airbnb (come ad altre potenti piattaforme) di elusione fiscale e di concorrenza sleale agli albergatori; e la guerra è servita. Entrambe le fazioni hanno le loro ragioni. L'unica maniera sensata di uscire dal conflitto è governare il fenomeno. Come hanno fatto in varie città europee. E non solo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433843
Capitolo settimo

Barcellona

18 302 annunci (su 1 593 075 abitanti) di cui 49,2% appartamenti il 65,2% degli annunci appartengono a persone che offrono almeno due case 124€ prezzo medio per pernottamento 749€ guadagno mensile stimato
(fonte: Inside Airbnb, luglio 2019)

La mia celletta al Barri Gotic.

Ho preso una stanza molto spartana nel centralissimo Barri Gotic. Eccezionalmente rispetto alle loro indicazioni sono riuscito a fare anticipare il check-in dalle 16 alle 13.30. Ci siamo visti vicini all’indirizzo con un omino gentile che mi ha ripetuto almeno tre volte due cose: che dovevo sempre sincerarmi di aver chiuso la porta principale, leggermente difettosa, e che non dovevo per nessun motivo aprire la tenda arancione che dava sul vicolo. Non ha confessato che era una cautela per non denunciare ai vicini che lí si trovava un affittacamere, ma non è stato difficile arrivarci. Il cuscino sapeva di cane bagnato, il cagnusso degli emiliani. Non ho avuto il coraggio di togliere la federa per verificare che fosse davvero un problema di asciugatura (superficiale), o uno di cuscino intriso di precedenti sudori (strutturale). Ognuna delle cinque stanze aveva una serratura con un bagno e mezzo in condivisione per tutti. Le regole della casa erano tutte all’insegna della dissimulazione nel quartiere («Sentire la musica solo con gli auricolari», «Non parlare ai residenti e rispettali», «Non rispondere mai se qualcuno suona il campanello: è severamente proibito»). All’indomani della mia partenza ho ricevuto un messaggio standard in cui l’host si augurava che avessi avuto un soggiorno piacevole e si raccomandava di dar loro il massimo di 5 stelle «per continuare a lavorare e ospitare viaggiatori, è molto importante per noi». È la prima volta che mi capita una cosí accorata mozione degli affetti, altrettanto sganciata dalla realtà. La location è ottima, il prezzo minimo (30 euro, piú 10 di pulizia, piú il quindici per cento di commissioni) ma la sistemazione rivaleggia al ribasso con i peggiori ostelli. Cinque stelle sarebbe come dare trenta in un esame sulla cooperazione internazionale al candidato Salvini. Non me la sento. Per non fare danni non recensirò.

Il black-out dei campanelli.

E un bel giorno i campanelli, tanti campanelli, smisero di suonare. Non fu un guasto, ma un autosabotaggio di massa. Chi affittava con Airbnb a Barcellona di colpo si sentiva terrorizzato all’idea dei controlli e voleva evitare che gli ispettori, suonando, beccassero qualche ingenuo che si confessasse turista. Sí, perché il Comune aveva dichiarato guerra ai pisos turísticos illegali. Solo chi viveva nell’appartamento poteva affittare per un minimo di 30 giorni, a patto che avesse una licenza rilasciata dal Comune stesso. Ma le licenze rilasciate erano poco piú di 9000 contro circa 20 000 annunci sulla piattaforma. Quindi, a spanne, piú di metà dei locatori non era in regola e aveva di che preoccuparsi. Tantopiú che la sindaca Ada Colau era l’ex portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca ed è stata eletta sul forte mandato popolare di affrontare il boom degli affitti turistici che toglievano case ai residenti. E lei aveva dato pieni poteri a una squadra di visualizzatori e ispettori, una squadra di 80 persone per metà hacker e per metà impiegati amministrativi, che prima scaricavano i dati degli annunci cittadini dalla piattaforma e poi cercavano di risalire a chi si riferissero, dal momento che la piattaforma dà solo un’indicazione volutamente generica di dove si trovi l’immobile. C’è un cerchio con una circonferenza di un chilometro che indica la zona, ma mai l’indirizzo preciso. La privacy invocata dall’azienda assumeva ora un senso decisamente piú concreto. Quindi, a partire dalle foto pubblicate online per pubblicizzare l’appartamento, i segugi cercavano di risalire alla posizione esatta. Un errore madornale, a questo riguardo, era includere foto che facessero capire cosa si vedeva dalle finestre. Perché a quel punto la triangolazione veniva grandemente facilitata. La disabilitazione dei campanelli fu cosí generalizzata a Barceloneta, Raval e Barri Gotic, ovvero i quartieri a piú alta densità di alloggi su Airbnb, che anche i servizi di consegna dei supermercati chiedevano di prammatica rassicurazioni: «Siamo sicuri che il vostro campanello funzioni?»

Contratto, doppio contratto e altri trucchetti.

La banale trincea elettronica era solo una delle tante misure di un creativo arsenale di resistenza. Un gran classico, mi racconta Lucia (nome di fantasia) nel bel salotto della sua casa nel Raval, era far firmare agli ospiti un contratto in cui dichiaravano di restare ospiti per 30 giorni e, subito dopo, un altro che diceva che il contratto precedente poteva essere annullato in qualsiasi momento. Come certe dimissioni in bianco che datori di lavoro senza scrupoli fanno firmare da noi come condizione per assumere qualche malcapitato. Ovviamente il falso impegno sarebbe stato mostrato solo in caso di controlli, altrimenti sarebbe stato stracciato, come anche il suo antidoto. Lucia ha studiato architettura a Bologna, vive qui da quattordici anni e da quasi altrettanti ha affittato prima la stanza che condivideva e poi questa casa che ha comprato. Quindi ben prima di Airbnb, che pure ha allargato di molto la platea di potenziali clienti. Conosce questa aneddotica di resistenza perché, a un certo punto, ha ricevuto una lettera. Che diceva: «Sappiamo che stai affittando e che non hai una licenza. Quindi ti intimiamo di smettere subito e pagare una multa di 30 000 euro che, se versata entro 15 giorni, ti sarà dimezzata». Peggio, molto peggio delle peggiori sanzioni per aver invaso una corsia preferenziale o essere stati immortalati dall’Autovelox. Anche nella versione dimidiata si trattava comunque di circa sei mesi di stipendio. Metà anno dissolto nel nulla. Che fare?

«Better Call Dylan», paladino degli oppressi di Airbnb.

È esterrefatta. Lo racconta ai suoi amici che, nel 90 per cento dei casi, affittano o hanno affittato su Airbnb. È un’epidemia: scopre che, come effetto della pesca a strascico del team informatico reclutato dal Comune, sono partite in automatico migliaia di ingiunzioni. Qualcuno le consiglia di rivolgersi a Dylan Tarín, avvocato quarantenne come lei che ha esperienza di diritto alla casa e altre faccende immobiliari. Con lui ricostruiscono un dossier molto fitto per smentire la premessa del suo reato amministrativo: lei è sempre stata in casa quando ospitava le persone. Quindi si trattava della famosa condivisione che battezza l’omonima economia. Una stanza invece di un appartamento intero. Tutta un’altra cosa per cui non è prevista la licenza e di cui, quindi, si può discutere. Rintraccia gli ospiti con cui aveva fatto piú amicizia e se lo fa mettere per iscritto. Chiede al ristoratore sotto casa e anche lui testimonia di averla vista nei giorni contestati. Dylan mette il tutto in bella copia giuridichese e, dopo un certo numero di mesi, la municipalità ritira l’accusa e cancella ogni pretesa. Lei ha perso del tempo, del denaro (nonostante l’avvocato sia stato molto comprensivo e per niente esoso), ma alla fine è stata fortunata. Ma c’è gente, pensa a un suo amico che si era fatto prendere la mano e da un appartamento aveva cominciato a gestirne due, poi tre, poi dieci, che dopo aver fatto i conti aveva deciso che comunque gli conveniva pagare la multa piuttosto che impegnarsi in una battaglia che difficilmente avrebbe potuto vincere. «Per lui è diverso: era diventato il suo mestiere e credo l’avesse messo in conto come rischio d’impresa, tant’è che continua a farlo dopo quella brutta botta. Io affittavo sí e no un mese all’anno, quando ero in ferie d’estate o durante alcuni weekend lunghi durante l’anno. Non avevo strettamente bisogno dei soldi per sopravvivere, ma a chi fa schifo qualche euro extra?»

«Forse è sbagliato, ma non sono comunque meglio i turisti dei narcopisos?»

Dopo il pericolo scampato non ha mai piú affittato né intende farlo. Ora ha un compagno e anche un gatto la cui adozione ha vissuto come una rinuncia formale a mettere l’appartamento sul mercato. Però, emendata dal conflitto di interessi, ci tiene a dire un paio di cose. «La moltiplicazione e l’imbarbarimento del turismo in città sono reali, ma solo marginalmente mi sembrano da mettere in relazione ad Airbnb. Il culto del botellón, le gran bevute collettive e notturne, c’era nel 2001 quando sono venuta qui con l’Erasmus. Lí si è cementata una reputazione di turismo sguaiato, con la birra a un euro, che non ci siamo mai scrollati di dosso». Le cose che la preoccupano, come cittadina e residente del Raval, hanno piuttosto a che fare con la sicurezza: «Adesso, quando vado via per qualche giorno, il mio vero terrore e di trovarmi al ritorno la casa occupata da qualche squatter ben organizzato: la municipalità è molto garantista con loro, e tornarne in possesso sarebbe un’epopea. L’altra cosa sono i narcopisos, quegli appartamenti che vengono affittati per lo spaccio e per il consumo che ogni tanto, con raid altamente scenografici, la polizia intercetta e smantella. Ai comitati, pur animati dalle migliori intenzioni, direi: preferiamo i turisti o la droga? Perché se nelle case ci sono i primi perlomeno la seconda sta alla larga».

«Il turismo non è un diritto. E per di piú distrugge il pianeta». Il vangelo secondo i comitati.

Quella del male minore è sempre sembrata una logica miserabile da una prospettiva rivoluzionaria. Di certo non attacca con Daniel Pardo, Reme Gómez e Martí Cusó dell’Assemblea de barris per un turisme sostenible (Abts) che incontro nei locali di La Negreta, uno «spazio condiviso» concesso dal Comune nel bel mezzo del Barri Gotic turistificato. Entrando spicca un manifesto No alle Grandi Navi! dono di un collettivo veneziano, tra un altro che inneggia a un «grande sciopero femminista» e altri ancora genericamente anti-globalizzazione. Daniel è un basco cinquantenne, pelato con i capelli lunghi dietro e una maglietta gialla. Reme è una bibliotecaria universitaria, con i capelli corti bianchi e un k-way per fronteggiare la rarissima pioggia che ha preso tanto di sorpresa la città da mandarla quasi in tilt. Martí è un ragazzo, studente credo. A dispetto della loro ragione sociale, mi sembra che vivano la loro denominazione come un ossimoro: «Non esiste un diritto al turismo, – chiarisce Daniel, – e comunque il turismo come lo conosciamo, in aereo, fermandosi magari tre giorni in un posto e tre in un altro, il pianeta non se lo può piú permettere». Al piú è concepibile «spostandosi in treno, per dieci-quindici giorni alla volta, per riposarsi a poca distanza da dove si vive». Insomma, il viaggio a chilometro zero che, al netto degli eccessi di esterofilia, è un po’ la negazione del viaggio. O anche no, ma uno dovrebbe essere libero di sceglierlo per conto suo. O cosí avevamo creduto.

E come si fa senza il 14 per cento del Pil?

Gli faccio notare che sarebbe un problema anche economico non trascurabile dal momento che la voce turismo vale il 14 per cento del Pil della città e addirittura – calcolano loro stessi – un quarto di quello del centro storico. E da quella ricchezza derivano un indotto e delle tasse che, tra le altre cose, garantiscono di poter godere gratuitamente di quella sede senza pagare niente. Non è un argomento che li convince, perché è vero che il turismo da una parte alimenta la città, ma quello stesso cibo «la avvelena» con la serie di esternalità negative che abbiamo imparato a conoscere. Serve a poco anche il mio argomento fine-di-mondo, ovvero l’esempio di Paola che senza Airbnb starebbe molto stretta nel suo salario di insegnante cum mutuo: «Noi ce l’abbiamo con gli appartamenti turistici, con i singoli individui che vi fanno ricorso. Ma anche lí bisogna distinguere: una cosa è affittare una stanza per sopravvivere, altra è farlo per permettersi le vacanze o un’auto nuova», spiega Reme. Speravo in un paragone piú estremo e non riesco a seguirli: che c’è di male in questi desideri? Reme fa una mini-retromarcia rispetto al balzo avanti verso lo stato etico, ma non mi sembra crederci fino in fondo: «Niente di male, ma da quel discrimine spesso passa un cambiamento di modo di vita, l’ingresso a tempo pieno nella catena professionale dell’ospitalità privata, con tutte le conseguenze che sappiamo». Che è un determinismo simile a quelli che giurano che se ti fai una canna finirai in overdose. Semplicemente non è detto. E assumerlo è pericoloso. Da una parte ce l’hanno col trionfalismo del Comune («Abbiamo abolito gli affitti legali: boom! Uno studio indipendente dimostra che non è cosí»), dall’altra auspicano, tra le possibili contromisure da mettere in campo, un potenziamento del corpo ispettivo che sgami i senza licenza. In ogni caso, se non ci penserà il Comune ci penserà il Pianeta a risolvere il problema, sentenzia Daniel: «Il petrolio piú caro ridurrà i voli e un clima sempre piú caldo renderà la nostra città meno ospitale. Tanto vale pensarci prima e governare il cambiamento, invece di subirlo quando ormai sarà troppo tardi». Anche Greta, potendo, si toccherebbe.

Il geografo: «Quello delle case problema antico, ma di certo Airbnb lo acutizza».

Oriol Nel·lo i Colom è stato ed è ancora tante cose. Deputato a sinistra dei socialisti nel Parlamento catalano. Segretario generale della pianificazione della regione. Nonché per quasi dieci anni direttore dell’Istituto degli studi metropolitani di questa città dove oggi insegna geografia. E da cui è contento di partire nel giorno piú parossistico dell’anno, quello della Diada che commemora la sconfitta contro gli spagnoli nel 1714 e costituisce una specie di cenere mai spenta da cui l’autonomismo catalano è sicuro che presto le fiamme ricominceranno ad ardere. Stavolta è un invito a un convegno a Buenos Aires a portarlo lontano ma, nel suo italiano impeccabile messo a punto nei primi anni Settanta durante un biennio di dottorato nella filiale bolognese della Johns Hopkins University, relatore Gianfranco Pasquino, mi garantisce comunque una generosa chiacchiera a pranzo poco prima del volo. È un uomo di scenari e di spiegazioni ampie. Dice che qui la proprietà, proprio come da noi, è sempre stata largamente prevalente sull’affitto, 80 contro 20 per cento. Dai tempi in cui un ministro di Franco diceva di volere «non un popolo di proletari ma di proprietari». Una tendenza che impazzí a partire dal 1996 quando si cominciarono a dare mutui facilissimi, anche sull’80-90 per cento del valore dell’abitazione. Fu in quel periodo che i prezzi aumentarono del 300 per cento e 700 000 nuove case, praticamente un’altra Barcellona, si aggiunse al patrimonio immobiliare catalano. Poi arriva il 2007, la giostra si ferma a mezz’aria e la gente comincia a cadere e farsi male. Quelli col mutuo prima erano uno su sette, ora uno su tre. Ma le loro case valgono meno, perché i prezzi crollano. Tra disoccupazione, decurtazione di stipendi e altre sfighe recessive chi non lotta per pagare le rate e ha bisogno di un tetto sulla testa può permettersi solo case in affitto. I canoni quindi si impennano e la loro disponibilità diminuisce. «I giovani che magari non arrivano a mille euro come primo stipendio non possono certo permettersi un appartamento che di colpo ne costa altrettanti. E lo condividono anche in quattro» dice.

Lo tsunami turistico e le licenze facili (poi ridistribuite).

Aggiungete quindi l’onda umana dei turisti che, dal ’90 (pre-Olimpiadi del ’92 e annesso profondo restyling della città) a oggi sono decuplicati, da 3 a 30 milioni l’anno. E l’arrivo su piazza di Airbnb grazie al quale i proprietari si accorgono che «affittare a breve contro il lungo termine consente loro guadagni da due a quattro volte maggiori». Nel 2011, per rilanciare l’economia vulnerata dalla crisi, la città accelera sul turismo e con una legge omnibus favorisce il rilascio delle licenze per l’affitto turistico. Non è un caso: c’è un pensiero. Che sia giusto o sbagliato, dipende a chi chiedi, è una strategia per provare a uscire dalle peste della Grande Recessione. Bastano quattro anni di trolley selvaggio perché si corra ai ripari. Prova a farlo la giunta Colau (con Nel·lo consulente) con il Piano speciale per gli appartamenti turistici (Peaut) che prevede di ridurre l’impatto in maniera diversa a seconda dei quartieri. In quelli piú centrali non saranno piú rilasciate licenze nuove. In quelli intorno si concederà una nuova licenza per ogni licenza che lí cessi l’attività. In quelli ancora piú periferici si consentirà una nuova licenza per ogni licenza chiusa in centro storico. È un tentativo articolato di ridistribuzione dei flussi: dove ce ne sono già troppi, a scalare, dove ce ne sono pochi o punti a crescere. C’è almeno un’idea, quella che scelte amministrative possano governare un fenomeno che tende alla metastatizzazione. Forse non basta, ma è un tentativo razionale, di cui alle nostre latitudini sinora non c’è traccia. Ha funzionato, gli chiedo: «È ancora troppo presto per vedere gli effetti, ma mi sembra un approccio serio». Fosse il commissario straordinario a mitigare l’impatto delle piattaforme farebbe tre cose: «Affittare le stanze, invece di appartamenti interi, avrebbe un impatto decisamente minore sulla città. Far pagare le tasse, sia alla piattaforma che a chi affitta, dovrebbe essere una priorità. E infine anche l’Europa potrebbe fare una cosa semplice e decisiva: obbligare Airbnb a non pubblicare annunci illegali. Interviene contro la pubblicità ingannevole, perché non qui?» Già, perché. Invece di ribadire sorprendentemente, come ha fatto ad aprile dell’anno scorso la Corte di giustizia europea rispondendo a un ricorso francese, che la piattaforma si occupa di servizi e non di immobiliare e quindi non è responsabile dei contenuti che ospita.

Il ricercatore: «Al Raval i piú bisognosi sono proprio quelli che non affittano».

Alan Quaglieri ha trentanove anni, è nato in Svizzera, ha studiato alla Bocconi e ora è ricercatore all’Università Rovira i Virgili di Tarragona. La sua specialità sono gli studi territoriali e un paper di cui è autore, assieme al suo prof di dottorato Antonio Paolo Russo (tra i 30 000 italiani di Barcellona una quantità spropositata insegna all’università), cerca di disegnare un identikit sociologico di chi affitta su Airbnb nel Raval, il centralissimo quartiere che fu operaio e oggi è prevalentemente turistico grazie anche a sapienti interventi urbanistici come accasare qui il museo di arte contemporanea (Macba) e il magnifico centro di cultura contemporanea (Cccb) nel caffè del quale ci incontriamo. Ce l’ha, comprensibilmente, con la giulebbosa retorica dell’azienda di presentarsi come la tutrice degli interessi dei piú deboli e si è incaricato di dimostrarne l’infondatezza nel quartiere dove vive e che sembra aver cartografato palmo a palmo: «Qui oltre la metà della popolazione è nata altrove: Pakistan, Filippine, Bangladesh, Italia, Marocco, India, ma una attenta analisi degli annunci in zona dimostra che le comunità piú numerose, e in teoria piú bisognose di integrare le loro entrate, sono totalmente assenti: niente tatalog né urdu negli annunci mentre si trova lo svedese e il tedesco, che pure sono minoranze numericamente irrilevanti. Questo dice qualcosa del capitale culturale che serve per attrezzarsi sulla piattaforma. Ma lo studio delle autopresentazioni degli host fa capire che anche le famiglie saranno sí e no il 3 per cento di chi offre una casa o una stanza mentre il grosso è formato da single o coppie tra i 20 e i 40 anni, spesso gente occupata precariamente nella fuffosa definizione di “classe creativa” che è valsa la fama di qualche sociologo alla moda», dice alludendo a quel Richard Florida che, per un’estate, era diventato il cocco delle riviste. Quindi il famoso Live like a local. With a Local suona bene ma è finto da capo a piedi. Pochi turisti vorrebbero vivere come un pachistano del Raval, me...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’affittacamere del mondo
  4. Prologo
  5. I. Airbnb: chi è, chi non è, chi si crede di essere
  6. II. Venezia
  7. III. L’indotto
  8. IV. Firenze
  9. V. I latifondisti
  10. VI. Napoli
  11. Intermezzo. Povertà, alla radice del problema
  12. VII. Barcellona
  13. VIII. I lobbisti
  14. IX. Amsterdam
  15. X. Ci sono alternative?
  16. XI. In guerra con gli alberghi
  17. XII. San Francisco
  18. Epilogo
  19. Ringraziamenti
  20. Nota bibliografica
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Dello stesso autore
  24. Copyright