Onori
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Onori

  1. 192 pagine
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Informazioni sul libro

«Onori raggiunge la perfezione formale. Cusk ha concluso la sua magistrale trilogia in modo trionfale».
Sally Rooney Una donna in viaggio ascolta un estraneo seduto di fianco a lei mentre parla del suo lavoro, della famiglia e dell'angosciosa notte precedente, trascorsa a seppellire il cane. Faye, scrittrice e io narrante, sta raggiungendo il continente europeo per partecipare a un convegno. Nel caldo afoso, tra pause caffè ed eterne attese di navette che fanno la spola dal ristorante alla sede dei meeting, incontrerà colleghi, giornalisti, organizzatori culturali. Da quelle sue conversazioni emergerà un quadro meraviglioso e terribile di un'umanità confusa, scissa tra ciò che teme di essere e ciò che sceglie di mostrare.

Tra i migliori libri dell'anno per «The New York Times», «The New Yorker», «Financial Times», «The Guardian», «The Times», «The Times Literary Supplement».

«Cusk ha prodotto qualcosa di radicale e bellissimo… Onori è un libro sul fallimento che in sé non è un fallimento. In effetti, è un successo che lascia senza fiato».
The New Yorker «Preciso e inquietante. Indimenticabile».
The New York Times « Resoconto, Transiti e Onori si stagliano come capisaldi della letteratura inglese del XXI secolo».
The Guardian «Tre romanzi che saranno considerati uno dei capolavori letterari della nostra epoca».
The Washington Post

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858432945

Onori

Si è alzata e se n’è andata
non avrebbe dovuto? Dovuto cosa?
Alzarsi e andarsene.
Sí, penso che avrebbe dovuto
perché si stava facendo buio.
Facendo cosa? Buio. Be’,
restava ancora un po’ di
luce quando se n’è andata, be’,
abbastanza per vedere la strada.
Ed era l’ultima volta che sarebbe
stata capace...
Capace?... di alzarsi e andarsene.
Era l’ultima occasione davvero l’ultima perché
dopo non avrebbe potuto
alzarsi e andarsene mai piú.
STEVIE SMITH, Si è alzata e se n’è andata.
Il tizio seduto accanto a me sull’aereo era cosí alto che il sedile letteralmente non lo conteneva. I gomiti sporgevano dai braccioli e le ginocchia premevano contro il sedile davanti, cosí che il passeggero che vi era seduto si guardava intorno irritato ogni volta che lui si muoveva. Dopo contorsioni varie, mentre cercava di accavallare le gambe e poi distenderle, ha dato involontariamente un calcio alla persona alla sua destra.
– Mi scusi, – ha detto.
È rimasto immobile per alcuni minuti, respirando a fondo col naso e serrando le mani in grembo, ma non è durata molto, poco dopo ha di nuovo cercato di muovere le gambe, facendo sussultare tutta la fila di sedili davanti. Ho deciso di chiedergli se voleva cambiare posto, dal momento che il mio era di corridoio, e ha prontamente accettato, come se gli avessi proposto un affare.
– Di solito viaggio in business, – ha detto mentre ci scambiavamo di posto. – C’è molto piú spazio per le gambe.
Si è allungato nel corridoio poggiando con sollievo la nuca contro lo schienale.
– Le sono molto grato, – ha detto.
L’aereo ha cominciato a rollare adagio sulla pista. Il mio vicino, con un sospiro soddisfatto, si è addormentato quasi all’istante. Una hostess che percorreva il corridoio si è bloccata davanti alle sue gambe.
– Signore? – ha detto. – Signore?
Lui si è svegliato di colpo e si è goffamente raggomitolato nel suo poco spazio per lasciarla passare. L’aereo si è fermato per qualche minuto poi ha fatto uno scatto in avanti poi si è fermato di nuovo. Dal finestrino si vedevano gli aerei in coda, in attesa del proprio turno. La testa del mio vicino ha cominciato a ciondolare e poco dopo le sue gambe erano di nuovo allungate nel corridoio. La hostess è tornata.
– Signore? – ha detto. – Il corridoio deve restare libero durante il decollo.
Lui si è raddrizzato.
– Mi scusi, – ha detto.
La hostess si è allontanata e la testa del mio vicino ha ripreso a poco a poco a ciondolare. Fuori, una bruma copriva il piatto paesaggio grigio che pareva fondersi col cielo in strisce orizzontali dalle variazioni cosí sottili che quasi somigliava al mare. Nella fila davanti una donna e un uomo stavano parlando. È cosí triste, ha detto lei, e l’uomo per tutta risposta ha grugnito. È davvero triste, ha ripetuto lei. Si è udito uno scalpiccio di passi lungo il corridoio moquettato ed è ricomparsa la hostess. Con una mano ha scosso la spalla del mio vicino.
– Temo di doverle di nuovo chiedere di spostare le gambe, – ha detto.
– Mi scusi, – ha detto lui. – A quanto pare non riesco a restare sveglio.
– Devo chiederle di riuscirci, – ha detto lei.
– Ieri notte non ho dormito.
– Temo che non sia un mio problema. Ostruendo il corridoio lei mette a rischio l’incolumità degli altri passeggeri.
Lui si è sfregato la faccia e si è risistemato nella poltrona. Ha tirato fuori il cellulare, l’ha controllato e se l’è rimesso in tasca. Lei aspettava, tenendolo d’occhio. Infine, apparentemente soddisfatta della sua genuina obbedienza, se n’è andata. Lui ha scosso il capo allargando le braccia in un gesto stupito, come se si rivolgesse a un pubblico invisibile. Doveva avere fra i quaranta e i cinquant’anni, con una faccia allo stesso tempo bella e qualunque, e il suo fisico slanciato era rivestito dalla nitida, ben stirata neutralità dell’abito da weekend dell’uomo d’affari. Aveva al polso un pesante orologio d’argento, e ai piedi costose scarpe senza marchio; trasudava un’aria di anonima e un po’ provvisoria virilità, come un soldato in uniforme. Intanto l’aereo era arrivato sussultando in testa alla coda e stava lentamente virando in un’ampia curva verso la pista di decollo. La bruma si era trasformata in pioggia e rivoli d’acqua scorrevano sul finestrino. L’uomo fissava con sguardo esausto l’asfalto lucente. Intorno a noi il rombo dei motori aumentava, poi l’aereo ha preso slancio e, inclinandosi e cigolando, si è sollevato attraverso spessi strati di nubi. Per un po’ la verde monotonia dei campi sottostanti, con le case a schiera e i ciuffi d’alberi, è rimasta visibile in sporadici varchi nel grigio, che si è infine richiuso sopra di loro. L’uomo ha tirato un altro profondo sospiro e pochi minuti dopo dormiva, con la testa ciondoloni sul petto. Le luci della cabina si sono accese e sono iniziate le attività a bordo. Poco dopo la hostess ha raggiunto la nostra fila, dove l’uomo addormentato aveva di nuovo disteso le gambe nel corridoio.
– Signore? – ha detto. – Scusi, signore?
Lui ha sollevato la testa guardandosi intorno disorientato. Quando ha visto la hostess bloccata lí con il carrello, ha lentamente e con grande sforzo spostato le gambe in modo che potesse passare. Lei l’ha squadrato con una smorfia delle labbra, inarcando le sopracciglia.
– La ringrazio, – ha detto con malcelato sarcasmo.
– Non è colpa mia, – ha detto lui.
Gli occhi bistrati della hostess si sono posati su di lui per un attimo. Con un’espressione gelida.
– Sto solo cercando di fare il mio lavoro, – ha replicato.
– Me ne rendo conto, – ha detto lui. – Ma non è colpa mia se tra i sedili non c’è abbastanza spazio.
È seguita una pausa durante la quale i due si sono fissati.
– Questo dovrà farlo presente alla compagnia, – ha detto la hostess.
– Lo faccio presente a lei.
La hostess ha incrociato le braccia alzando il mento.
– Il piú delle volte viaggio in business, – ha detto lui, – perciò di solito non è un problema.
– Su questo volo non offriamo business class, ma ci sono molte altre compagnie che lo fanno.
– Perciò lei mi suggerisce di volare con qualcun altro.
– Esatto.
– Magnifico! – ha detto lui. – La ringrazio molto.
Ha rivolto un’aspra risata rabbiosa alla schiena della hostess che si allontanava. Per un po’ ha continuato a sorridere, il sorriso impacciato di chi è salito per errore su un palcoscenico, poi, come per distogliere l’attenzione da sé, si è girato e mi ha chiesto per quale ragione andavo in Europa.
Ho detto che ero una scrittrice e stavo andando a un festival letterario.
Il suo viso ha immediatamente assunto un’espressione di educato interesse.
– Mia moglie è una grande lettrice, – ha detto. – Fa anche parte di un gruppo di lettura.
Poi silenzio.
– Che cosa scrive? – mi ha chiesto dopo un po’.
Gli ho detto che era difficile da spiegare e lui ha annuito. Tamburellava con le dita sulle cosce e con i piedi batteva un ritmo sconnesso sulla moquette. Scuoteva il capo da parte a parte e intanto si strofinava vigorosamente il cuoio capelluto.
– Se non parlo, – ha detto infine, – mi riaddormento.
L’ha detto col tono pragmatico di chi è abituato a risolvere i problemi a spese dei sentimenti personali, ma quando mi sono girata a guardarlo mi sono stupita vedendo la sua espressione supplichevole. Gli occhi con le sclere giallognole erano cerchiati di rosso e i capelli ben tagliati stavano dritti dove li aveva scompigliati.
– A quanto ne so, prima del decollo abbassano il livello di ossigeno nella cabina perché la gente si addormenti, perciò dovrebbero evitare di lamentarsi quando succede. Ho un amico che pilota uno di questi aggeggi, – ha detto. – È da lui che lo so.
La cosa strana con quell’amico, ha proseguito, era che malgrado la sua professione era un ambientalista fanatico. Guidava una minuscola auto elettrica e la sua casa funzionava esclusivamente con pannelli solari e turbine eoliche.
– Quando viene a cena da noi, – ha detto, – te lo ritrovi fuori accanto ai cassonetti che estrae gli imballaggi e i contenitori del cibo, mentre tutti gli altri sbevazzano allegramente. Il suo ideale di vacanza è andare su una montagna del Galles con tutti i suoi congegni e starsene per due settimane seduto in una tenda sotto la pioggia a parlare alle pecore.
Eppure quello stesso uomo indossava regolarmente un’uniforme, si arrampicava nell’abitacolo di un fumigante aeromobile da duecento tonnellate e trasportava frotte di vacanzieri sbronzi alle isole Canarie. Difficile immaginare una rotta peggiore, eppure il suo amico la faceva da anni. Lavorava per una compagnia low-cost che praticava risparmi brutali, e a quanto pareva i passeggeri si comportavano come animali dello zoo. Ce li portava bianchi e li riportava indietro arancioni, e sebbene guadagnasse meno di tutti gli altri nella loro cerchia di amici, dava in beneficenza metà dei suoi guadagni.
– Il fatto è, – ha detto, – che è un tipo veramente gentile. Lo conosco da anni, e si direbbe che peggio vanno le cose, piú lui diventa gentile. Una volta mi ha raccontato che nell’abitacolo di pilotaggio hanno una telecamera che gli permette di tener d’occhio quel che succede in cabina. Nei primi tempi non sopportava di guardare perché il modo in cui si comportava quella gente lo avviliva troppo. Ma dopo un po’ ha cominciato a esserne in qualche modo ossessionato. Ne ha guardate centinaia di ore. È un po’ come fare meditazione, secondo lui. Io comunque, – ha aggiunto, – non sopporterei di lavorare in quell’ambiente. La prima cosa che ho fatto quando sono andato in pensione è stato chiudere tutti i miei programmi frequent flyer. Ho giurato che non mi sarei mai piú ficcato in nessuno di quei cosi.
Ho detto che sembrava molto giovane per essere in pensione.
– Tenevo sul desktop un foglio di calcolo intitolato Libertà, – ha detto sogghignando. – Erano sostanzialmente colonne di cifre che dovevano raggiungere un certo numero, e quando ci fossero arrivate avrei potuto andarmene.
Era stato dirigente di una società finanziaria internazionale, ha detto, un lavoro che comportava di star sempre via da casa. Non era inconsueto per lui, ad esempio, doversi recare in Asia, Nordamerica e Australia nell’arco di due settimane. Una volta era volato in Sudafrica per una riunione e appena finita aveva preso un volo di ritorno. Capitava spesso che lui e la moglie individuassero un punto a metà strada fra le rispettive ubicazioni e s’incontrassero lí per una vacanza. Una volta, quando la filiale australasiatica della società aveva avuto un tracollo finanziario e lui aveva dovuto fermarsi là per risolverlo, non aveva visto i suoi figli per tre mesi. Aveva cominciato a lavorare a diciott’anni e adesso ne aveva quarantasei, e sperava di aver davanti un numero di anni almeno pari a quelli della sua vita lavorativa per vivere all’opposto. Possedeva una casa nei Cotswolds dove non aveva mai messo piede e un garage pieno di biciclette, sci e attrezzature sportive che non aveva mai avuto il tempo di usare. Aveva amici e una famiglia con cui negli ultimi due decenni aveva scambiato solo qualche ciao o arrivederci, perché lui di solito era in partenza e doveva fare la valigia e andare a letto presto, o stava tornando ed era esausto. Aveva letto da qualche parte di un metodo di punizione medievale che prevedeva d’incarcerare il prigioniero in uno spazio pensato per impedirgli di allungare completamente gli arti in qualunque direzione, e sebbene il solo pensiero gli togliesse il respiro, era comunque una buona descrizione della vita che aveva condotto finora.
Gli ho chiesto se il rilascio da tale prigione era stato all’altezza del titolo del suo foglio di calcolo.
– È buffo che me lo chieda, – ha detto. – Da quando ho lasciato il lavoro mi accorgo di essere sempre ai ferri corti con tutti. I miei famigliari si lamentano perché adesso che sono a casa cerco di controllarli. Non dicono, – ha aggiunto, – che gli piacerebbe che tutto tornasse come prima, ma so che lo pensano.
Non si capacitava, per esempio, che la mattina dormissero fino a cosí tardi. In tutti gli anni in cui usciva prima dell’alba, il pensiero delle loro sagome addormentate nell’oscurità lo faceva sentire efficiente e protettivo. Se avesse immaginato quanto erano pigri forse non l’avrebbe vista allo stesso modo. A volte gli toccava aspettare l’ora di pranzo perché si alzassero: aveva preso l’abitudine di entrare nelle loro stanze e tirare le tende, come faceva suo padre quando lui era ragazzo, e l’ostilità suscitata da tale azione lo meravigliava. Aveva cercato di mettere ordine nei loro pasti – mangiavano tutti, aveva scoperto, cibi diversi a ore diverse del giorno – e di stabilire una routine quotidiana, e si stava sforzando di credere che la generale rivolta a tali misure fosse la riprova della loro necessità.
– Passo un sacco di tempo a parlare con la donna delle pulizie, – ha detto. – Arriva alle otto. Dice che ha dovuto vedersela con queste cose per anni.
Raccontava tutto ciò con un riserbo impacciato e lieve dal quale s’intuiva che parlava piú per intrattenere che per suscitare sconcerto. Un sorriso di disapprovazione gli aleggiava intorno alla bocca, mettendo in mostra una fila di denti candidi e robusti. Parlando si era animato, e la disperata scompostezza di prima si era attenuata nella maschera brillante del narratore. Avevo l’impressione che fossero storie che aveva già raccontato e che amava raccontare, come se avesse scoperto il potere e il piacere di rivivere i fatti avendoli privati del loro pungiglione. L’abilità, lo vedevo, stava nel mantenerti accosto a quella che presumibilmente era la verità senza consentire ai tuoi reali sentimenti di riprendere il sopravvento.
Gli ho chiesto come mai, visto il suo giuramento, si ritrovasse a bordo di un aereo.
Ha di nuovo sorriso con un vago disagio passandosi una mano tra i sottili capelli castani.
– Mia figlia suona in un festival musicale laggiú, – ha detto. – Suona nell’orchestra della scuola. Il... ah sí... l’oboe.
Sarebbe dovuto andare insieme alla moglie e i figli il giorno prima, ma il cane si era ammalato e aveva dovuto lasciarli partire senza di lui. Poteva sembrare ridicolo, ma il cane era forse il membro piú importante della famiglia. L’aveva vegliato per tutta la notte, poi aveva preso la macchina ed era andato dritto in aeroporto.
– A essere sincero non avrei dovuto mettermi al volante di un’auto, – ha mormorato, posando il gomito sul bracciolo fra noi. – Stentavo a tenere gli occhi aperti. Continuavo a superare cartelli lungo la strada con sopra scritte sempre le stesse parole e stavo cominciando a pensare che ce li avessero messi per me. Sa quali intendo, ce ne sono dappertutto. Mi ci è voluto un secolo per capire cosa fossero. Mi domandavo, – ha detto col suo sorriso imbarazzato, – se non stessi impazzendo. Non riuscivo a capire chi li avesse scelti e perché. Sembrava che si rivolgessero a me personalmente. Certo, – ha aggiunto, – leggo le notizie, ma dacché ho smesso di lavorare sono rimasto un po’ indietro.
Io ho detto che in effetti di solito ce lo chiediamo in privato, se andarcene o restare, al punto che si potrebbe quasi sostenere che tale questione costituisce il nucleo piú intimo dell’autodeterminazione. Avendo scarsa familiarità con la situazione politica del nostro paese, si poteva pensare di assistere non alle macchinazioni di una democrazia ma alla resa definitiva della coscienza personale nella sfera pubblica.
– La cosa buffa, – ha detto, – è che avevo la sensazione di essermi posto quella domanda da tempo immemorabile, forse da sempre.
Gli ho chiesto cos’era successo al cane.
Per un attimo è rimasto interdetto, come se non riuscisse a ricordare di quale cane stavo parlando. Poi ha sospirato profondamente aggrottando la fronte.
– È una storia piuttosto lunga.
Il cane, di nome Pilot, era in realtà molto vecchio, ha detto, anche se a vederlo non sembrava. Lui e sua moglie l’avevano preso poco dopo essersi sposati. Avevano comprato la casa in campagna, ed era il posto ideale per tenere un cane. Pilot era solo un cucciolo, ma aveva delle zampe enormi: loro sapevano che era una razza di cani che potevano diventare molto grossi, ma nulla li aveva preparati alle dimensioni straordinarie che Pilot aveva raggiunto crescendo. Periodicamente pensavano che non potesse crescere di piú, e invece sí; a volte era quasi divertente vedere come la sua stazza rendesse ogni cosa assurdamente piccola, la casa, l’auto, e perfino loro.
– Io ho un’altezza fuori dal comune, – ha detto, – e ci si stufa ad essere sempre il piú alto, ma quando stavo vicino a Pilot mi sentivo normale.
Sua moglie era incinta del primo bambino e cosí di Pilot si era occupato lui: all’epoca non viaggiava ancora cosí tanto per lavoro, e per parecchi mesi aveva passato gran parte del suo tempo libero ad addestrare Pilot, camminando con lui fra le colline e forgiandone il carattere. Non lo viziava e non gliela dava mai vinta; lo allenava con costanza e lo premiava con parsimonia, e quando Pilot, essendo un cane giovane, inseguiva un gregge di pecore, lo picchiava con una severità e una fermezza di cui era lui il primo a stupirsi. Ma soprattutto badava al proprio comportamento davanti al cane, perché Pilot aveva tratti veramente umani, e in effetti crescendo aveva maturato un’intelligenza fuori del comune, insieme a un latrato feroce e un fisico gigantesco e muscoloso. Aveva per i membri della famiglia una sensibilità e una premura che gli altri giudicavano francamente perturbante, anche se col tempo ci si erano abituati. Per esempio, quando il figlio, l’anno prima, si era gravemente ammalato di polmonite, Pilot restava giorno e notte seduto fuori dalla sua stanza e veniva automaticamente a cercarli se il ragazzo chiedeva qualcosa. Era in sintonia e addirittura rispecchiava le periodiche crisi depressive della figlia, di cui talvolta loro si accorgevano solo perché Pilot diventava cupo e scontroso. Ma se un estraneo si avvicinava alla casa, Pilot si trasformava in un cane da guardia sospettoso e implacabile. Quelli che non lo conoscevano ne erano terrorizzati, giustamente, perché non avrebbe esitato a ucciderli se avessero in qualche modo minacciato i membri della famiglia.
Pilot aveva tre o quattro anni, ha proseguito, quando lui aveva avuto il maggior avanzamento di carriera e cominciato a star via di casa per lunghi periodi, ma se ne andava tranquillo perché sapeva che in sua assenza la famiglia sarebbe stata al sicuro. A volte, quando era lontano, gli capitava di pensare al cane sentendosi quasi piú vicino a lui che a qualunque altro essere vivente. Non avrebbe certo potuto abbandonarlo nel momento di maggior bisogno, anche se sua figlia era la principale solista e si era esercitata per settimane. Il concerto era nel programma di un festival internazionale e ci sarebbe stato un folto pubblico: un’occasione fantastica. Eppure Betsy non voleva staccarsi da Pilot. Gli era stato maledettamente difficile convincerla ad andare, neanche temesse che lui non fosse in grado di prendersi cura del proprio cane.
Gli ho chiesto che pezzo avrebbe suonato la figlia e di nuovo si è passato una mano tra i capelli.
– Non lo so di preciso, – ha detto. – Sua madre ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Onori
  4. Nota al testo.
  5. Il libro
  6. L’autrice
  7. Della stessa autrice
  8. Copyright