Vorrei morire
ai piedi di una chiesa
alta e grigia.
Trafitto da dieci spade,
io spadaccino di ventura
al servizio di congiure.
Sulla stessa pietra
la bianca lama
compagna
di tutti gli agguati,
e precisa
per tagliare il fiore
alla finestra delle belle.
La vecchia lama
contro dieci
nella ventura piú bella.
Un vescovo in pastorale
benedirebbe le scale
contro il sangue.
Se fossi un romano
sarei contento,
con l’augurio di dodici uccelli
che specchiano
il volo nella corazza.
A me dispiace
perché essi vanno
in terre,
dove ci sono spini
che non mi hanno punto
dove c’è polvere
che non ha sanato
le mie ferite.
Hai riso,
ed io avrei sputato
dentro la tua gola
aperta.
Hai riso
di fronte al mio amore,
piú grande
delle pupille.
C’è dentro
il mondo
piú il tempo e le pupille.
Che la terra ti rida,
squarciando gole
di terremoto.
Il cielo
non ti dia
ombra, né luce.
Ti salti una vipera
dentro la bocca aperta.
Con gli occhi chiusi,
tiene le mani
fra le olive
nei cesti di una bottega.
È un greco
che non ha Grecia.
Nell’osso spolpato
cerca
il profilo degli Dei.
Mia madre
mi vede solo
come mi ha fatto.
Non cerca di piú.
Ho messo ieri
una cappa incappucciata,
fra gli altri
non mi trovava.
Prese una smorfia
fissa
come un pupazzo di terracotta.
Il cesto largo
dei tuoi capelli smanati,
gli occhi affogati
da sposa di un anno.
La forza dei miei denti
sulle venine verdi
del tuo collo.
Avrei mangiato
con rabbia tagliente
fra sabbia e mare
come un gitante.
Ma tu hai riso
per le mie gambe secche
da sanfrancesco
e il mio camminare
come un pinguino
dalla grossa ernia.
Rallegrati, amico mio,
troverai sempre qualcosa
che raffermi il tuo cammino.
Hai troppa paura
e t’afferrerai a tele di ragno,
a pallidissima erba.
Non cercherai mai in te stesso
ma avrai sempre un feticcio
che ti scappa dagli occhi.
Riassorbirai tutta
la bava del tuo dolore,
tu, che dovresti metterti a gambe larghe
e guardarla cadere
rabbiosa
a spaccare la roccia.
Quella tua carne
con un rigo di sangue.
Nel taglio della ferita
garza gengivosa.
L’acutissimo vetro
t’ha aperta
con una naturalezza spaventosa.
Come se il sangue
annoiato
godesse d’uscire.
Quel peso di piombo
nel ventre
ti salda alla terra.
Il corpo ti cola tutto
e le gambe gonfie
sono incredibilmente aperte.
Ti slarghi come un frutto maturo,
ed io sento lo schifo
di vederti dentro.
Mi sono perduto.
Per ritrovar me stesso
ho scontrato con nuove facce
con durissime anime
che non vollero adattarsi.
Cercai di piangere
per dolori che mi appartenessero
ma non mi riusciva
di ridere per gioie
che in bocca non sentivo.
Ho dovuto pensare
alla mia fanciullezza,
ripercorrere il mio corpo
indovinarmi un’anima,
per ritrovarmi cosí vago
da essere fuori della mia carne
con un cervello pullulante
in questa attesa
sulla rovente curva
del mondo degli estranei.
Nel colore della notte
un apparire bluastro
con salti gialli di luce.
Odore di gomma bruciata
di caffè,
di strada consunta.
Gli angoli ti sbattono nella faccia
il vuoto del cielo ti succhia
perdi l’anima
nei portoni delle case.
Diventi misurato squadrato,
da non trovare appoggio
nelle anche rotonde
dei corpi delle donne.
Mi sono tinto la faccia
di rosso.
Nudo
con una tenda fiorata sulle spalle
per piangere
di te.
Per avvilirmi
sul pavimento muto.
Aspettavo i tuoi occhi
comparire dal mattone.
Tu
non hai voluto vedermi,
perché t’ho conosciuta.
Sei la croce dei campanili,
il tetto delle case,
la cupola dell’ombrello.
Vuoi stare
sempre sopra.
Ci butti la ruggine,
le penne, senza piú volo,
le gocce sporche.
Vorrei rovesciare la terra,
per tenerti sotto,
cosí avrei i pensieri liberi,
e gli occhi al posto dei capelli.
Ho rotto
cinque chitarre
per guardare
fra le tue persiane.
La sesta notte ho cantato.
Ma son riuscito,
perché m’hai baciato.
Eccoti ora
i 30 denari
della mia vita.
Sto per morire,
sento la terra
che mi morde la schiena.
Ma come si può
con tanto sole,
e con la gallina
che becca
vicino alle mani.
Non posso morire
perché voglio vedere le mani
schiacciare quel becco,
e voglio che il sole
mi bruci sulla faccia
l’ultimo litro di sangue.
Raccogli le tue membra
nel greve lenzuolo sudato,
vorresti tuffare la lingua
nel caldo saporoso.
Cerchi ogni confidenza
dal ruvido telo.
Aspetti che le tue braccia
sgorghino dure
che il tuo corpo s’irrigidisca
per possedere te stessa.
Hai una carne sostenuta.
Le spalle, le anche,
controllate immobili.
Troppo composta
sei salita sul letto.
Quasi con ironia.
Prima di abbandonarti
hai lasciato il cervello sul comodino.
C’è sempre qualcosa
in te, fisso, che non partecipa.
Non ti possiedo mai, tutta.
Sotto il grandissimo sole
in uno spiazzo d’afa.
Gli alberi avari si coprono le radici.
Cadremo chiusi,
senza curiosità,
paghi della nostra stanchezza
della nostra noia.
Lontani
i nostri corpi piccolissimi.
Non avremo una stilla
dell’eterno amore.
Solo un pesantissimo fiato.
Non ci sei,
nella stanchezza del mio corpo.
Ho corso tanto
per le strade molli di primavera.
Mi sono riposato,
lontano da te
tutte le strade del mondo.
Ho capito il vuoto
del nostro amore.
Ho pensato che i tuoi seni si allungheranno.
Sarebbe meglio
che tu raschiassi
il viso.
Per rimanere
sulla grande spiaggia
del tempo.
Unica mia felicità
è avere una liquida tristezza
dai motivi piagnucolosi.
Perdere gli innumerabili sassi di piombo
e trovare il sacchetto tiepido
delle lacrime.
Come camminare nell’aria
lavata e trasparente
dopo le piogge d...