Nel bosco
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Nel bosco

  1. 520 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni sul libro

Un pomeriggio di agosto, tre ragazzini scendono dalle loro biciclette per andare a giocare nel bosco lí vicino, e la sera non fanno ritorno a casa. Soltanto uno di loro viene ritrovato, in stato catatonico, avvinghiato a una grossa quercia, le scarpe da ginnastica sporche di sangue. Non ricorda niente di quanto è accaduto e dei suoi compagni non c'è alcuna traccia. Vent'anni dopo, Rob Ryan, detective della Omicidi della polizia di Dublino, viene incaricato di indagare sull'uccisione di una ragazzina di dodici anni. Ma, quando raggiunge la scena del delitto, si rende conto che il suo passato traumatico è legato proprio a quello stesso bosco. Mentre le varie piste seguite portano alla luce una trama di intrighi e inquietanti segreti, Rob non potrà fare a meno di affrontare i fantasmi che popolano la sua mente.«Un'intelligenza cristallina e una trama geniale».
«The New York Times»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433614

1.

Quello che vi consiglio di ricordare è che sono un detective. Il nostro rapporto con la verità è fondamentale ma incrinato, sprigiona riflessi confusi come vetro in frantumi. La verità è l’essenza delle nostre carriere, il finale di partita di ogni nostra mossa e la perseguiamo con strategie diligentemente costruite attraverso bugie, dissimulazioni e ogni possibile declinazione dell’inganno. È la donna piú desiderabile al mondo e noi, come amanti gelosi, per reazione nascondiamo a chiunque altro ogni suo minimo barlume. La tradiamo abitualmente, trascorriamo ore e giorni in un torpore di menzogne e poi torniamo a lei brandendo l’ultimo nastro di Möbius dell’amante: l’ho fatto solo perché ti amo alla follia.
Me la cavo piuttosto bene con le immagini, soprattutto quelle spicce, un po’ banali. Non lasciatevi fregare da me, la nostra categoria non è una banda di cavalieri parfit gentil con tanto di farsetto, lanciati all’inseguimento della Signora Verità sul suo destriero bianco. Quello che facciamo è rozzo, grossolano e brutto. Una giovane fornisce l’alibi al suo ragazzo per la sera in cui lui è sospettato di avere rapinato uno dei negozi Centra, quelli sempre aperti che vendono un po’ di tutto, su a nord, e di avere accoltellato il commesso: all’inizio flirto con lei, le dico che capisco perché lui voglia restare a casa, con la fidanzata che si ritrova. La tipa in questione ha i capelli ossigenati e unti, i tratti poco marcati e un che di rachitico dovuto a generazioni di malnutrizione. Tra me e me penso che se fossi il suo fidanzato non esiterei a scambiarla persino con un compagno di cella peloso che chiamano Rasoio. Poi le dico che nei pantaloni della sua tuta bianca cosí di classe abbiamo trovato delle banconote segnate provenienti da quel negozio e che lui sostiene che è stata lei a uscire quella sera e a dargliele quando è rientrata.
Lo faccio in maniera cosí convincente, con una sottile ombra di disagio e compassione per il tradimento del suo uomo, che alla fine la certezza di quattro anni trascorsi insieme a lui si disintegra come un castello di carte, e tra lacrime e moccio, mentre lui nella stanza degli interrogatori se ne sta con il mio collega e non fa altro che dire: «Vaffanculo, io ero a casa con Jackie», lei mi racconta tutto, dall’ora in cui è uscito di casa ai dettagli delle sue défaillance sessuali. Allora le do una pacchetta gentile sulla spalla e le offro un fazzolettino di carta e una tazza di tè, senza dimenticare il modulo con la dichiarazione.
Questo è il mio lavoro e non lo cominci nemmeno, oppure, se lo fai, non duri, senza una specie di naturale affinità con le priorità e le richieste che impone. Quello che sto cercando di dirvi, prima che vi mettiate a leggere la mia storia, è che… be’, sono due cose: io desidero ardentemente la verità. E mento.
Ecco cosa lessi nel fascicolo, il giorno dopo essere stato promosso al grado di detective. Tornerò un sacco di volte su questa vicenda, in molti modi diversi. Forse è un evento minore, ma è il mio: è l’unica storia al mondo che solo io potrò raccontare.
Il pomeriggio del 14 agosto 1984, tre bambini, Germaine (Jamie) Elinor Rowan, Adam Robert Ryan e Peter Joseph Savage, tutti di dodici anni, stavano giocando nella strada dove abitavano, nella cittadina di Knocknaree, contea di Dublino. Era un giorno caldo e limpido e molti residenti erano in giardino, perciò furono innumerevoli i testimoni che videro i ragazzini in piú occasioni nel corso del pomeriggio, in equilibrio sul muro in fondo alla strada, in sella alle loro biciclette, o su un dondolo fatto con un copertone.
All’epoca, Knocknaree non era molto sviluppata e un bosco piuttosto esteso confinava con l’abitato, separato solo da un muro di un metro e mezzo. Intorno alle 15.00 i tre bambini lasciarono le bici nel giardino davanti alla casa dei Savage, dicendo alla signora Angela Savage, che stava stendendo il bucato, che sarebbero andati a giocare nel bosco. Lo facevano spessissimo e conoscevano molto bene quella zona, cosí la signora Savage non pensò neppure che potessero perdersi. Peter aveva al polso un orologio e la madre gli ricordò di tornare a casa per le 18.30, l’ora di cena. La conversazione venne confermata dalla vicina, la signora Mary Therese Corry, e molti testimoni videro i bambini scavalcare il muro in fondo alla strada e addentrarsi nel bosco.
Quando alle 18.45 Peter Savage non era ancora rientrato, sua madre chiese notizie alle madri degli altri due compagni, dando per scontato che fosse andato a casa di uno di loro. Ma neanche gli altri erano tornati. Di solito Peter Savage era un bambino affidabile, cosí i genitori non si allarmarono, convinti com’erano che i ragazzini, completamente assorbiti dal gioco, avessero dimenticato di controllare l’ora. Cinque minuti prima delle 19, la signora Savage si incamminò verso il bosco, in fondo alla strada, vi si addentrò per un breve tratto e li chiamò. Non ottenne alcuna risposta né vide o sentí qualcosa che indicasse la presenza di qualcuno nelle vicinanze.
Tornò a casa per servire la cena al marito, Joseph Savage, e ai loro quattro figli minori. Dopo cena, il signor Savage e il signor John Ryan, padre di Adam Ryan, si spinsero un po’ piú in là nel bosco, chiamarono e di nuovo non ricevettero risposta. Alle 20.25, quando già cominciava a fare buio, i genitori iniziarono seriamente a temere che i bambini si fossero persi e la signorina Alicia Rowan (madre single di Germaine), che disponeva di un telefono, chiamò la polizia.
Ebbero inizio le ricerche. A quel punto si ipotizzò che i bambini fossero scappati di casa. La signorina Rowan aveva deciso che Germaine avrebbe frequentato un collegio a Dublino per restarvi durante la settimana e tornare a Knocknaree solo il sabato e la domenica; sarebbe dovuta partire due settimane dopo e tutti e tre i bambini erano particolarmente turbati al pensiero dell’imminente separazione. Tuttavia, una prima perquisizione nelle stanze dei ragazzini rivelò che non mancavano né abiti, né denaro, né oggetti personali. Il salvadanaio di Germaine, a forma di matrioska, era intatto e conteneva 5 sterline e 85 centesimi.
Alle 22.20, un poliziotto con una torcia trovò Adam Ryan in una zona particolarmente fitta di alberi e vegetazione, al centro del bosco, in piedi con la schiena e le palme delle mani contro una grossa quercia. Le unghie erano conficcate cosí in profondità nel tronco che si erano spezzate all’interno della corteccia. Sembrava essere lí da un po’, ma non aveva risposto ai richiami del gruppo di ricerca. Venne trasportato all’ospedale. Fu fatta intervenire l’Unità cinofila e i cani seguirono le tracce degli altri due bambini fino a un punto non lontano da quello in cui era stato trovato Adam Ryan; poi cominciarono a confondersi e non riuscirono a proseguire.
Quando mi trovarono indossavo un paio di calzoncini blu di tela, una maglietta bianca a maniche corte, calzini bianchi di cotone e scarpe da ginnastica, bianche anche quelle. Sulle scarpe c’erano numerose chiazze di sangue, sui calzini un po’ meno. Le successive analisi rivelarono che il sangue era passato dall’interno delle scarpe all’esterno: c’era infatti sangue anche dentro i calzini, ma in concentrazioni inferiori. Questo significava che le scarpe mi erano state tolte e che il sangue vi era finito dentro; solo dopo, quando il sangue aveva iniziato a coagularsi, le scarpe mi erano state rimesse ai piedi: fu cosí che il liquido ematico entrò in contatto con i calzini. La maglietta presentava quattro strappi paralleli, tra gli otto e i tredici centimetri, che correvano diagonalmente lungo la schiena dalla zona mediana della scapola sinistra alle costole posteriori sul lato destro.
Non avevo ferite, tranne qualche piccolo graffio sui polpacci, schegge sotto le unghie, che in seguito vennero ritenute compatibili con il legno della quercia, e profonde abrasioni sulle ginocchia, dove già iniziavano a formarsi delle croste. Si discusse se i graffi me li fossi procurati nel bosco oppure no, poiché una bambina piú piccola (Aideen Watkins, 5 anni), che stava giocando in strada, affermò di avermi visto cadere dal muro quel giorno, qualche ora prima, e atterrare proprio sulle ginocchia; tuttavia, la sua dichiarazione cambiò nel corso dei vari interrogatori e non venne piú considerata affidabile. Io ero praticamente in uno stato catatonico: per quasi trentasei ore non feci un solo movimento volontario e non parlai per le due settimane successive. Quando finalmente aprii bocca, non avevo ricordi tra il momento in cui ero uscito di casa, quel pomeriggio, e il momento in cui mi avevano visitato in ospedale.
Il sangue trovato su scarpe e calzini fu analizzato per individuarne il gruppo – l’analisi del dna non era disponibile in Irlanda nel 1984 – e si scoprí che era di tipo A positivo. Anche il mio sangue era di tipo A positivo, tuttavia si ritenne improbabile che le abrasioni sulle ginocchia, per quanto profonde, avessero prodotto una quantità di sangue tale da impregnare in quel modo le scarpe da ginnastica. Il sangue di Germaine Rowan era stato analizzato due anni prima in occasione di un’appendicectomia e la cartella riportava anche per lei A positivo. L’ipotesi che il sangue appartenesse a Peter Savage, sebbene non vi fossero dati disponibili, fu scartata: entrambi i suoi genitori, si scoprí, appartenevano al tipo 0 e questo rendeva impossibile che lui fosse di qualsiasi altro gruppo. In assenza di un’identificazione certa, gli investigatori non scartarono la possibilità che il sangue fosse di un quarto individuo, né che provenisse da piú fonti.
La ricerca continuò per tutta la notte del 14 agosto, e nelle settimane che seguirono squadre di volontari passarono al setaccio le colline e i campi vicini; tutti gli acquitrini e le zone paludose dell’area vennero esplorati, i sommozzatori scandagliarono il fondale del fiume che attraversava il bosco, senza alcun risultato. Quattordici mesi dopo, il signor Andrew Raftery, che si trovava a passeggiare con il suo cane nel bosco, scorse tra la sterpaglia un orologio da polso, a una sessantina di metri da dove mi avevano trovato. L’orologio era molto particolare: sul quadrante era raffigurato un calciatore stilizzato e la lancetta dei minuti terminava a forma di pallone. I signori Savage lo riconobbero, era uguale a quello di Peter. La signora Savage confermò che il pomeriggio della sparizione suo figlio lo aveva al polso. Il cinturino di plastica pareva essersi staccato di netto dalla cassa di metallo, forse dopo essersi impigliato in un ramo mentre Peter correva. La Scientifica identificò un certo numero di impronte digitali parziali sul cinturino e sul quadrante: tutte compatibili con quelle trovate sugli oggetti personali di Peter Savage.
Nonostante gli innumerevoli appelli della polizia e una campagna mediatica capillare, non furono trovate altre tracce di Peter Savage e di Germaine Rowan.
Sono entrato in polizia perché volevo diventare detective della Omicidi. Il periodo di addestramento e quello in uniforme – il Templemore College, i complicati e infiniti esercizi fisici, in giro nei minuscoli centri abitati con addosso una giacca fosforescente degna di un cartone animato, per scoprire quale dei tre delinquenti locali, indistinguibili l’uno dall’altro, avesse rotto la finestra del casotto in giardino della signora McSweeney – mi parvero un lungo, imbarazzante nonsense alla Ionesco, una specie di prova del tedio che dovevo superare, per una qualche mal congegnata ragione burocratica, se volevo guadagnarmi il mio vero posto. Non penso mai a quegli anni e nemmeno li ricordo con chiarezza. Non avevo amici. Il distacco che dimostravo da tutto mi sembrava involontario e inevitabile, come l’effetto secondario di un sedativo. Gli altri poliziotti però lo interpretavano come una deliberata forma di snobismo, una studiata presa in giro delle loro solide origini e ambizioni rurali. Forse lo era. Di recente ho trovato un diario di quel periodo: i miei colleghi sono descritti come «un branco di bovari dementi e ritardati che respirano con la bocca e che arrancano in un’atmosfera mefitica fatta di cliché, cosí spessa che si può sentire puzzo di pancetta, di cavolo, di merda di vacche e di candele da altare». Anche nell’ipotesi in cui avessi avuto una gran brutta giornata, penso comunque che queste parole mostrino una certa mancanza di rispetto per le differenze culturali.
Quando riuscii a entrare alla Omicidi, nel mio armadio pendevano già da quasi un anno i vestiti nuovi: completi dal taglio perfetto, di stoffe cosí fini da farli sembrare vivi al tocco, camicie delicatissime a righe azzurre o verdi, sciarpe di cachemire morbide come conigli. Adoro la regola implicita che ti suggerisce come devi vestirti. Era una delle cose che mi affascinarono fin dall’inizio e mi attirarono verso il mio lavoro; quello e il linguaggio privato, funzionale, ellittico: ciò che rimane nascosto, le tracce, la Scientifica. In una delle cittadine alla Stephen King dove mi spedirono dopo Templemore ci fu un omicidio, un caso di violenza tra le mura domestiche che era andato oltre le intenzioni di chi aveva commesso il reato. Poiché la precedente fidanzata dell’assassino era morta in circostanze sospette, la Omicidi inviò un paio di detective. Per tutta la settimana in cui restarono lí, tenni d’occhio costantemente la macchinetta del caffè dalla mia scrivania, in modo da poterlo prendere insieme a loro. Ci mettevo un po’ di tempo ad aggiungere un goccio di latte e intanto tendevo l’orecchio ai ritmi della loro conversazione, scarna e brutale: quando l’ufficio ci manderà i test sulla tossicità; quando il laboratorio avrà identificato le impronte dei denti. Ripresi a fumare per poterli seguire fuori nel parcheggio e farmi una sigaretta a pochi metri da loro, fingendo di fissare il cielo ma non perdendomi nemmeno una parola di quello che si dicevano. Loro mi rivolgevano sorrisi fuggevoli e di circostanza, a volte mi accendevano la sigaretta con uno Zippo un po’ ossidato prima di «congedarmi» con un gesto appena accennato della spalla e tornare a chissà quali astute e multiformi strategie. Prima fai venire mammina, poi lo lasci un’ora o due a casa a preoccuparsi di quello che lei sta dicendo, poi la ritiri in ballo. Prepara una stanza apposta, ma fallo entrare subito senza dargli tempo di studiarsela per bene.
Al contrario di quanto potreste supporre, non sono diventato detective con la speranza donchisciottesca di risolvere il mistero della mia infanzia. Lessi una sola volta il fascicolo, quel primo giorno, tardi, da solo, nella stanza della mia squadra, unica fonte di luce la lampada sulla scrivania: echi di nomi dimenticati svolazzavano nella mia testa come pipistrelli; testimoniavano, in un inchiostro ormai sbiadito, che Jamie aveva dato un calcio alla madre perché non voleva andare in collegio, che c’erano degli adolescenti «dall’aspetto pericoloso» che trascorrevano le serate a bighellonare al limitare del bosco, che una volta la madre di Peter era stata vista con un livido su uno zigomo. Non lo riaprii piú. Erano queste cose arcane a scatenare la mia bramosia, queste trame quasi invisibili come un testo in Braille. Erano come purosangue, quei due detective della Omicidi che passarono per Ballysperdutochissàdove; come trapezisti allenati al loro numero scintillante. Miravano alla posta piú alta ed erano esperti nel loro gioco.
Sapevo che quello che facevano era crudele. Gli esseri umani sono bestiali e spietati. Osservare con occhi freddi e penetranti e poi con delicatezza sistemare questo o quel tassello, finché il fondamentale istinto di conservazione dell’uomo va in briciole, è crudeltà allo stato puro, nella sua forma piú raffinata ed evoluta.
Sentimmo parlare di Cassie alcuni giorni prima che entrasse in squadra, forse persino prima che ricevesse l’offerta. Il passaparola dell’NBCI, l’Ufficio nazionale per le indagini criminali, è di un’efficienza che rasenta il ridicolo, stile vecchia zitella. La Omicidi è una sezione piccola e sottoposta a una pressione notevole: vi lavorano soltanto venti elementi in pianta stabile e appena qualcosa si allontana dalla routine (quando qualcuno se ne va, quando arriva uno nuovo, quando c’è troppo lavoro, o ce n’è troppo poco) cade in preda a un’eccitazione febbrile e claustrofobica, da isteria adolescenziale, piena di alleanze complicate e voci frenetiche. Di solito mi tengo fuori dal giro degli esaltati, ma il brusio su Cassie Maddox fu talmente forte che finii per sentirlo anch’io.
In primo luogo si trattava di una donna, il che causò un certo grado di sdegno malamente sublimato: siamo tutti addestrati a puntino per non lasciarci sconvolgere dai mali del pregiudizio, ma ci sono profonde venature di nostalgia per gli anni Cinquanta, anche tra gente della mia età. Per gran parte degli irlandesi gli anni Cinquanta sono finiti solo intorno al 1995, e a quel punto siamo passati direttamente al thatcherismo degli anni Ottanta. In passato, per spaventare un sospettato e farlo confessare bastava minacciarlo di dire tutto a sua madre, i soli stranieri nel Paese erano gli studenti di medicina e il lavoro l’unico posto dove si era al sicuro da donne petulanti. Cassie era solo la quarta donna a entrare alla Om...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nel bosco
  4. Prologo
  5. 1.
  6. 2.
  7. 3.
  8. 4.
  9. 5.
  10. 6.
  11. 7.
  12. 8.
  13. 9.
  14. 10.
  15. 11.
  16. 12.
  17. 13.
  18. 14.
  19. 15.
  20. Ringraziamenti.
  21. Il libro
  22. L’autrice
  23. Della stessa autrice
  24. Copyright