LUISA
Io temo l’odore dei salici, amo quello delle querce; riconosco i passi di Luchino sulle foglie. Nessuno se lo immaginava, invece io sapevo che sarebbe ritornato: tipico suo, da somaro. Ho riconosciuto la sua camminata; non le sue scarpe: i suoi piedi. Ho pensato che lui fosse scalzo, e infatti arrivando lo era; ma non solo scalzo, era nudo: dove avessero buttato la sua roba, quando l’avevano pestato, chi lo sa. Dio santo, com’era messo: si era coperto di spine, mi ci è voluta un’ora per staccargliele dai punti piú impensati.
Arriva nel sole, con gli occhi storditi, sta in piedi per i quattro venti, mi basterebbe un soffio per farlo cascare in terra, è storto e insanguinato, per un po’ mi resta anche il dubbio che non abbia capito chi sono. Cosa ci facevo lí al fiume? Leggevo un libro, e fumavo; al lago d’estate vado meno, troppa gente. L’ho sentito prima di vederlo, nudo e scalzo, sulla rena che scottava, sugli spungioni e gli stughi, le foglie di salice, e da quella volta – la prima – per me l’odore dei salici è quando Luchino ritorna.
Anche stavolta l’ho sentito, giú alle briglie.
Ieri l’altro di mattina presto sono scesa all’albergo dalla Betti. Appena luce, noi due ancora da sole, stavamo guardando da dove cominciare, quali guide lasciare nel taglio, e io mi sono accorta di tre salici affacciati sulle briglie, e mentre ne sopportavo l’odore – perché le foglie dei salici hanno un odore piú grosso di quello che mostrano, c’è dentro troppo caldo e troppo suono, dovrebbero essere di carne, per giustificare quell’odore – si è sentito il rumore della macchina, la sua. La Betti a quel punto mi ha detto che Luchino sarebbe venuto, che aveva chiamato il giorno prima. (Io non mi stupisco che lui non mi abbia avvertita, non lo fa mai).
Abbiamo preso la riva dalle briglie, poi la carrata che va giú in diagonale, segnando le piante a modo nostro: nel pezzetto in costa abbiamo segnato le guide da lasciare in piedi; nel resto del bosco abbiam fatto a rovescio, segnando le piante da buttare giú, quelle malate, o troncate dalla neve quest’inverno. Qualcuno avrà da brontolare per il metodo, ma se davvero saremo in cinque in una giornata facciamo – e in settimana, col trattore, si porta su tutto con comodo.
Quando abbiamo finito nel bosco e siamo state là per salutare Luchino, era già rintanato: aveva lasciato la macchina in cortile, aveva preso la chiave di una casupola dell’albergo diffuso, e si era andato a riposare.
«Dài, se torni per cena lo saluti», ha detto la Betti, ma io ho lasciato stare.
Immaginavo già la processione, come ogni volta che torna, e volevo lasciarla sfuriare; tutti si chiedono per quanto resterà stavolta: anche quelli – e io ho l’idea precisa di chi siano – che gli fecero quello scherzo al fiume. I piú coglioni vengono a cercarlo al bar, ondeggiano col busto, picchiettano le mani sulle cosce, e dicono: «Allora, Luisa?» E intendono: Allora? Luchino? Ma lui al bar non c’è: non passa mai. Loro vanno all’albergo diffuso, dalla Betti, e là riconoscono la macchina, che macchina avrà questa volta Luchino? Una Peugeot 206; anche se l’ha cambiata, si capisce che è la sua: dall’incuria, dai ninnoli sopra il cruscotto, dalla confidenza con cui l’ha parcheggiata storta, non lo saprebbero dir bene, ma si capisce.
Entrano, domandano alla Betti. Si fanno fare un caffè, guardando intorno; anche se non domandano, la Betti risponde: «Non c’è, è giú alle briglie». Allora chi ne ha voglia aspetta e beve due birre, e al bagno esterno, pisciando, ascolta il torrente e gli sembra impossibile che arrivi fino al mare, passando proprio qui da questo buco.
All’ora di pranzo lo vedono salire, bello bello, con Beniamino che gli cammina al fianco tirandosi dietro una frasca, o una spada giocattolo che lui gli ha appena portato – Beniamino ha otto anni, e per lui Luchino è Salgari. Li segue il gatto immancabile, venti passi dietro di loro, miagola a intervalli costanti per dire: Non dimenticate, anch’io faccio parte della spedizione. Ce l’hanno sempre attaccato alle gambe: solo da loro due si fa prendere; con gli altri, Betti compresa, il gatto è scontroso e inculento. La Betti lo scalcia, odia tutte le cose con il pelo; ma se Beniamino si sta alzando, in camera di sopra, lo capisci perché il gatto vien giú per le scale a precederlo. Ha la coda mozza, e cammina ancheggiando, perché al movimento per essere fluido manca il resto della coda. Gli occhi non sono mai compassionevoli né furbi: quel gatto sa che uno sguardo impassibile è ciò che può salvargli il portamento. Li segue nel sentiero sporco e scomodo per lui, ma si stacca appena vede il rischio d’essere importunato da altri esseri umani.
«Oh ve’, Luchino», dicono quelli, sempre un po’ canzonatori: vorrebbero mascherare il sussulto che hanno nel rivederlo, mettendo su quella confidenza sbadata – lui gli ripete la formula in faccia, «Oh ve’», e il loro nome. Oppure fanno un cenno con il mento, e la sua risposta è un sorriso. Sorride meglio di loro: i loro sorrisi sono falsi. Vengono a controllarlo, a slecchinarlo. Qualcuno immagina che lui resterà. Ma io so che ritornerà via, e loro saranno di nuovo stupiti e sollevati, in fondo, e potranno chiedersi a quel punto dove andrà, che è una domanda meno impegnativa rispetto a quest’altra: Cosa farà, questa volta, se resta?
FRANCESCO
Venerdí mattina, come prima cosa, mi sono fermato all’albergo diffuso. Che motivo ne avessi non so. Non era un posto probabile, però ero di strada e passarci significava avvertire la Betti. Io della Betti mi fido, come si fidano tutti.
Il cortile era all’ombra e avevo freddo. Forse mi aveva preso per la notte passata a non dormire, per l’apprensione e le telefonate. Un uomo giovane e in salute avrebbe potuto restare in camicia, invece io battevo i denti. Poi ho visto la sua auto parcheggiata.
Come sapevo che Luchino adesso aveva una Peugeot 206? Non lo sapevo. Ho inteso il segno di disgrazia, non poteva essere che lui. La luce ha toccato in quel momento la grondaia della casa piú alta. Mi sono chiesto in quale lui dormisse. Non si sentiva niente, dalle case. Né sbattere di scuri, né cigolio di porte, né tremare di vetri o calpestio, né spazzolini o sciacquoni né voci. Solo il torrente che cadeva dalle briglie. Ma ho continuato a puntare le orecchie, come al cospetto di un fischio maligno che bisognasse isolare. Lo immaginavo vicino, al di là di uno di quei muri. Ecco perché mi trovo qua, sono stato costretto a pensare, e poi ho scacciato il pensiero. Se capita il male, c’è lui.
Mi ero scordato di avere freddo. Ho spinto la porta dell’albergo e il tintinnare della campanella eolica mi ha messo nuovamente i brividi, con quell’intervallo di seconda un po’ calante, che non sembra di vetro né di legno.
La Betti stava sistemando le sedie.
Le ho chiesto un latte macchiato. Le ho detto che non ero piú sicuro di partecipare al taglio: – Eravamo rimasti per domenica?
– Domenica, sí. Io e la Luisa abbiamo già guardato. Non si preoccupi, saremo in tanti –. Non le sembrava strano che fossi lí a quell’ora. Sa che dormo poco, e che passo volentieri. Però la Betti non è stupida: – Cosa ha fatto stavolta?
– È sparito.
– Non è una novità.
Questo no. È sparito anche per settimane, certe volte, ha sfasciato automobili Daniele, ha picchiato gente e si è fatto picchiare. Lo siamo andati a riprendere, Antonello e soprattutto io, cosí tante volte da avere perso il conto. In qualche fosso, al bar dalla Luisa, dai carabinieri, al pronto soccorso dove legato insultava le infermiere sputando loro addosso e dimenandosi. Chiamate e chiamate, facendosi sbattere in faccia il telefono, richiamando, portando pazienza, chiedendogli dove si trovasse, come stesse, ricavandone bestemmie, bugie offensive, richieste di soldi, auguri di morte se glieli negavi. E gli è sempre andata bene, sempre bene. Mai una denuncia.
– Ha lasciato il telefono a casa, – ho detto. – Ha oscurato il profilo Facebook.
La Betti ha sciacquato un bicchiere e si è asciugata le mani nel grembiule. – Questo è strano, non dico di no. Però lo sa, Danielone…
Lo so com’è fatto mio figlio. Lei mi ha visto la conclusione negli occhi e non ha finito la frase.
Tanti prendono le mie parti, non richiesti, come fossi impegnato in un dibattimento e fosse importante per me ricevere il loro sostegno. Ci sono abituato. Non capiscono che in questo modo mi addossano una pena per me stesso che rende fastidioso il loro abbraccio.
Apprezzo che la Betti non sia quel tipo di persona. – Senta, Francesco: se si fa vedere glielo tengo qui, va bene? Una qualche scusa la trovo.
Quindi ho dovuto pensare al fucile, e al bambino, e le ho mostrato il biglietto. C’era scritto: Sarete contenti.
– Ma li ha chiamati i carabinieri?
– Ancora no. Forse Antonello…
– Eh certo, fosse per lui.
La Betti non fatica a immaginarlo: per Antonello sarebbe una liberazione, il biglietto nel suo caso dice il vero. È brutto pensarlo, ma è cosí.
Mi ha telefonato giovedí notte all’una, urlava: aveva cacciato Daniele di casa, l’aveva fatto rotolare per le scale. Gli avevano aperto per l’esasperazione, dopo mezz’ora che gli si era attaccato al campanello. La compagna di Antonello aveva ceduto, che gli rispondesse, per carità di Dio, non ce la faceva piú. «Lo sai che è peggio», le aveva detto lui, e puntualmente lo era stato: con le buone non lo si convinceva; non voleva farli tornare a letto. L’aveva seguito di sopra, era entrato in camera loro. Antonello l’aveva spinto fuori e Daniele gli aveva sputato. Antonello l’aveva scaraventato giú per la rampa. Daniele si era rialzato, aveva preso l’accendino e dato fuoco all’attaccapanni dell’ingresso: «Ecco fatto, saran duemila euro di vestiti. Ci guadagnavi a darli a me, costavo meno». Quindi Antonello era corso giú a calciarlo.
«Non gli aprire, – mi ha detto al telefono. – Sta venendo lí a piangere, sicuro. Se gli apri sei con lui. Adesso basta».
Con chi devo essere, Dio mio? Sono suo padre.
«Sei anche il mio, di padre. Mi sono rotto il cazzo, lo fa apposta, è un mentecatto di merda, io fatico per tenere il punto e poi c’è qualcuno che gliela dà vinta. Da me non vede piú un euro, sia chiaro. E se glieli dai te papà, bene, non posso impedirtelo e non mi permetto, però ti do del coglione, e te lo tieni. Sei un coglione, lui lo sa e se ne approfitta da vent’anni. Adesso basta».
Da me non vede piú un euro è diventata una formula che Antonello ripete vuotamente: sono almeno sette anni che non gli dà soldi.
Ed ecco che Daniele, come suo fratello prevedeva, si è presentato a casa mia e l’ho fatto entrare. Dovevo tenerlo anch’io mezz’ora alla porta?
Ha cominciato a ingiuriare Antonello, ad augurargli disgrazie, che si affogasse nei soldi, che rimanesse sotto una gru in cantiere, che lo rapissero e se lo inculassero in dieci. Fino alle tre ho cercato di farlo ragionare, ma lui non ragionava. Non l’avrebbe fatto nemmeno da sobrio. Mi cercava la sambuca negli stipi, anche se io in casa non tengo piú niente.
A un certo punto aveva perso la voce: – Vi prenderete la responsabilità, una volta per tutte, oh sí come ve la prenderete.
– Domani parliamo, va bene? Domani vediamo. Mettiti a dormire, per favore.
Non sono stato io a convincerlo, semplicemente si è arreso. Gli era scesa l’euforia, gli era salita la disperazione. Piagnucolava e sbatteva il cellulare sopra i cuscini del divano. Eravamo sfiniti. L’ho sistemato nella camera della Benedetta, dove gli ultimi anni dormiva chiusa a chiave, prima di chiedere la separazione e andare via. Da quella stanza Daniele restava sempre fuori, anche da piccolo, dormirci adesso doveva riuscirgli strano.
Ho preso le gocce e sono andato a letto. Mi sono chiuso dentro, sí, ho portato con me dallo studio il computer e la chiavetta dell’internet banking. Prima di addormentarmi ho pensato che stavolta, una volta per tutte, avrei assecondato Antonello, non gli avrei dato un soldo. Adesso basta.
La mattina mi sono svegliato tardi: ancora a imposte serrate, dai suoni all’esterno, dal movimento dell’aria, dagli uccelli, avevo quella sensazione che si ha, senza orologio sotto gli occhi, di essere già in ritardo, rinchiusi in un mondo in differita. Infatti in cucina la luce era piú avanti. In casa c’era silenzio, la porta della camera aperta, il letto disfatto e lui non c’era. Non era in bagno, né in salotto, né sopra in solaio. Era andato. Però dallo studio era passato, imbecille che sono. Dall’armadio a muro mancava il mio fucile. È un Browning Executive, canna rigata, da cinghiale, calibro 30-06, con la culatta incisa a mano. Poggiandomi al tavolo ho visto il biglietto, con il suo telefono a mo’ di fermacarte.
– Oh mio Dio, – ha detto la Betti.
– Lo so che non è il tipo. Ma io non so piú niente.
– Dovrebbe chiamare i carabinieri.
– Se ha già fatto quel che dice nel biglietto, a cosa serve? Se invece fa il matto con loro, stavolta me lo mettono in galera.
Quindi la Betti mi ha preso le mani e me le ha strette, come si fa con i vecchi. L’ho lasciata fare, finché il pensiero che stavo facendo non ha finito di morirmi in testa, poi mi sono scostato. Ho spinto indietro lo sgabello. Ho visto che lei si vergognava di avermi preso le mani, e non mi è dispiaciuto che si vergognasse.
– Adesso cosa fa, Francesco, va alla Sarcem?
La Sarcem è dove Daniele lavora da tre mesi. L’hanno assunto per fare un piacere ad Antonello, che è il loro commercialista, e io sono comunque il notaio.
– Li ho già chiamati. La segretaria non l’ha visto. Certe volte però entrano da sotto, non è detto.
– Magari è in giro col furgone e lei non sa.
– Sí, con il mio fucile sul cruscotto.
La Betti deve avere preso la mia battuta come una punizione per le sue mani di prima.
– Va bene, vado, – ho detto. Alzandomi in piedi, ho accennato col mento al cortile. Dalla porta adesso veniva una luce di taglio, attraverso le tendine bianche: – È Luchino?
–...