Furono le grida a resuscitare Martini dal sonno agitato in cui era piombato. Fra tutte, la voce piú stentorea apparteneva capitano Orlandi. La stazione di San Candido era nel caos. Orlandi stava ordinando a Terlizzi di riportare Gert nella sala interrogatori. Era ora di smetterla con quella pagliacciata.
Baldini insisteva che in assenza dell’avvocato non se ne parlava nemmeno. Terlizzi restava rigido senza sapere che fare. Manca Fanti, pensò Martini osservando la scena dalla porta dell’ufficio scartoffie: il grande mediatore avrebbe saputo come riportare la pace. Ma Fanti era in ospedale.
– Lei! – fece Orlandi indicando Martini, mentre Terlizzi si avviava verso le celle di sicurezza e Baldini batteva in ritirata. Mancò poco che Orlandi spintonasse il collega. Chiuse la porta dell’ufficio s sbattendola.
– È finito, mi ha capito? Finito. Lei ha dato ordine al dottor Tamanin di andare ad analizzare un maso in località Wieserhof?
– No, capitano, – rispose Martini. – Io ho solo fatto da tramite. L’ordine è stato suo.
– Io non ho dato nessun ordine.
– Se permette, – fece Viktor afferrando una fotocopia e mostrandola al comandante della stazione, – qui c’è la prova. È la sua firma, questa?
– Lei ha falsificato la mia firma?
– Dovrei sentirmi offeso, capitano. Ma capisco il momento. No, la firma è la sua. E mi dovrebbe anche ringraziare. Il dottor Tamanin ha dato in escandescenze quando gli ho fatto avere il suo ordine. Ho dovuto trattenerlo quasi fisicamente.
– Lei… lei…
– Le scartoffie, capitano, sono una fregatura, vero? Quanta roba ha firmato senza leggere da quando è cominciata questa storia?
Orlandi appallottolò la fotocopia, e colpí; era uno che andava in palestra tre volte a settimana e padroneggiava almeno due arti marziali. Il pugno prese Martini fra l’orecchio e lo zigomo, scaraventandolo contro la scrivania e aprendo una piccola ferita. Martini la tastò. A parte un filo di sangue, tutto okay.
– Ricambierò facendole avere una promozione. È stata un’ottima intuizione…
Il secondo pugno partí in ritardo. Martini lo schivò, afferrò Orlandi per la gola e gli piazzò la .45 ACP sotto il mento.
– Se vuole colpire qualcuno, – sibilò, – lo faccia con il massimo della forza. Lo stenda, altrimenti potrebbero essere guai.
Orlandi sentí le gambe tremare. Folle. Quell’uomo era folle.
Pericoloso per sé e per gli altri.
– Vuole spararmi?
– Voglio che si calmi. Deduco che Gert abbia mandato gli uomini del Gis a farsi una gita, giusto? Niente Dora?
La pistola restava incollata al mento del capitano Orlandi.
– Li ha spediti in quel maso maledetto. Hanno spaventato a morte Tamanin e i tecnici.
Martini sorrise.
– Questa è una grande, grande notizia. Stiamo iniziando a comunicare.
– Lei è pazzo.
Martini abbassò l’arma e la tese al capitano. Orlandi l’afferrò. Il caricatore non era inserito.
– Gliela regalo, – fece Viktor. – A me non serve.
– Dove pensa di andare?
– A procurarle la sua promozione. La vuole la bambina o no?
– Lei è sospeso.
– È proprio per questo che adesso manderà Terlizzi e gli altri a riposare. Si chiuderà nell’ufficio comando con Baldini per stordirlo di chiacchiere e cazzate mentre io darò ordine a Melan di portare al ristorante la dottoressa Pellegrini. Un ristorante lontano da qui –. Martini fissò Orlandi dritto negli occhi. – Dopodiché entrerò nella stanza interrogatori con Gert e spegnerò la telecamera.
Dopo un po’ la bambina riprese i sensi.
– Sete.
Alto fischiò, e Basso, che lo precedeva di dieci metri, la carabina fra le braccia – un’altra, non quella irrimediabilmente sequestrata dai carabinieri che gli avevano rovinato la festa –, si fermò; sulla faccia gli si leggeva un grosso punto interrogativo. Erano entrambi stanchi. Anche se aveva smesso di piovere il temporale aveva reso i sentieri dei pantani su cui era difficile camminare, soprattutto con una tredicenne febbricitante in spalla. Inoltre, i due erano spaventati. Non lo davano a vedere perché si consideravano dei maschi alfa, ma entrambi sapevano di averla scampata bella. Per un pelo e anche meno. Avevano perso tempo. Troppo tempo. C’era da risolvere la faccenda di Gert. Tutta la faccenda di Gert. Un casino che rischiava di ingoiarli e sputarli sotto forma di carne macinata.
– Sete, – ripeté la bambina.
– Ce la fai a stare in piedi, piccola?
– Non sono piccola.
Basso li raggiunse.
– Che succede?
– Dice che non è piccola.
Basso posò lo zaino a terra, per permettere ad Alto di sistemare Dora. Persino alla luce del tramonto, un piccolo squarcio rossastro alle loro spalle, risultava pallida. Alto appoggiò la borraccia sulle labbra della bambina. Dora chiuse gli occhi e bevve.
Quando ebbe finito, Alto la convinse a bere un altro po’.
– Dove sono gli elicotteri? – chiese la bambina.
– Elicotteri?
– Siete poliziotti?
– Squadra speciale, – rispose Alto, piú svelto a inventare storielle, proprio come al bar di San Candido. – In incognito.
La ragazzina li squadrò da capo a piedi.
– Non sembrate poliziotti.
– Allora il travestimento funziona.
– Dove stiamo andando?
– Da mamma e papà.
– Ti fa male il piede? Ti dispiace se diamo un’occhiata?
Dora sospirò e li lasciò fare. Alto rimase impassibile, a Basso sfuggí un’imprecazione.
– Fa male?
– Un po’.
Basso tirò fuori una scatola di metallo dalla tasca del giaccone, spezzò una pillola e la porse a Dora.
– Masticala piano.
Dora obbedí.
– Serviranno degli antibiotici. Ma questa per il momento ti farà bene.
– Come sta Gert?
– Gert è… – Alto si schiarí la gola. – È con un’altra unità. Lo stanno portando in prigione.
– In gabbia.
– Sí, come gli animali feroci.
Dora corrugò la fronte.
– Gli animali non devono stare in gabbia.
Basso la alzò con delicatezza e se la issò in spalla.
– Ti stai tenendo?
Dora sentiva ancora la testa girare; il sapore della pillola sulla lingua le dava la nausea.
– Okay, – disse semplicemente. – Però gli animali non vanno in gabbia.
– Quelli pericolosi, sí. Eccome, principessa.
Martini si piegò per staccare la spina alla telecamera. Quando si rialzò si ritrovò di fronte Melan.
– Non hai sentito gli ordini, recluta?
– Portare al ristorante la dottoressa Pellegrini?
– Ricordati la ricevuta.
Martini spinse Gert sulla sedia imbullonata. Niente fascette, ma manette di metallo. Tese la chiave della stanza al capitano senza guardarlo in faccia, e sparí nel corridoio.
Melan sgranò gli occhi.
– Viktor…
– Tutto a posto, recluta.
– Ha staccato la telecamera e…
Il viso di Viktor si trasformò. Il giovane carabiniere ripensò alle parole di Johnny Cash ascoltate sotto la Croda Rossa con il gracchio nero che lo fissava. L’uomo che decideva chi liberare e chi condannare.
– Non vuoi assistere a un crimine, vero, recluta?
Un cicalio li immobilizzò. Basso posò la bambina a terra. Il cicalio si ripeté. Alto aprí lo zaino e prese il telefono satellitare. A entrambi tremavano le mani.
– Sí?
Silenzio.
– Sí.
Ancora silenzio.
– L’hanno arrestato, ma non…
Alto fu zittito da una voce che Basso non riuscí a interpretare.
– Noi, sí.
Basso cercò di pensare al nirvana. Assenza di desiderio. Come quando premeva il grilletto. In quel momento il nirvana era al di là delle sue possibilità. Sapeva chi c’era dall’altra parte del telefono, e non serviva guardare gli occhi smarriti di Alto per capire che le cose non si stavano mettendo bene. Il rischio era che nel giro di qualche ora di loro due non rimanessero che i cadaveri. Rabbrividí, anche se sapeva che c’era di peggio della morte.
– Lo capisco, però…
La voce di Alto si era fatta acuta, quasi femminea. In altri frangenti Basso gli avrebbe riservato una delle sue battute salaci. Non gliene venne in mente nessuna.
– Dove?
Alto sospirò, poi ebbe l’idea.
– È bionda, – disse. – È bionda.
Non ci fu risposta.
La comunicazione si interruppe.
– Bionda, – ripeté ancora una volta Alto.
Alto e Basso, per la prima volta da che Hannes aveva combinato quel casino, sentirono di avere una speranza.
– Sai che sapore ha una pistola? – esordí Martini. – Quando la metti in bocca sa di metallo, ovviamente, ma c’è altro. C’è il sapore delle lacrime. Del muco. È poco elegante, ma voglio essere sincero con te.
– Vuoi spararmi?
Martini afferrò le chiavi, liberò i polsi di Gert e gli si parò davanti, braccia e g...