Democrazia!
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Elogio della società aperta

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Elogio della società aperta

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Che cosa significa difendere la democrazia oggi? Quali pericoli sta affrontando lo Stato di diritto? La visione che ci offre George Soros è quella, unica, di chi sa di essere il nemico pubblico per eccellenza dei sovranisti e populisti di tutto il mondo. Personaggio odiato e invidiato, è a capo di un impero finanziario colossale ma, allo stesso tempo, in prima linea per combattere le tendenze autoritarie a livello globale. Attraverso le sue fondazioni ha donato 14 miliardi di dollari per promuovere i diritti umani. Ed è diventato il bersaglio prediletto di movimenti antisemiti, complottisti, oltre che di Donald Trump, Viktor Orbán e Matteo Salvini. Oggi Soros vede a serio rischio anche le conquiste democratiche in Occidente. È tempo di reagire. Cosí, in queste pagine sferzanti, critica apertamente i suoi nemici, indaga una varietà di temi attualissimi - dall'uso delle nuove tecnologie come strumenti di controllo sociale, all'andamento dei mercati finanziari, al futuro dell'Unione europea - e ci consegna un distillato del suo pensiero a difesa dell'ideale di società aperta. «Soros è diventato il portabandiera della democrazia liberale».
The Financial Times <?«Dobbiamo salvaguardare i valori della società aperta perché possano meglio resistere ad attacchi futuri. La migliore difesa è un contrattacco preparato con cura».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858432983

LA MIA FILANTROPIA POLITICA

Un uomo egoista con una fondazione prodiga
Sono egoista ed egocentrico e non ho problemi ad ammetterlo. Eppure negli ultimi trent’anni ho dato vita a un’ambiziosa impresa filantropica, le Open Society Foundations, il cui budget annuale si aggirava intorno ai cinquecento milioni di dollari e sta ora viaggiando verso il miliardo (le spese totali dal 1979 al 2018 ammontano a circa quindici miliardi di dollari). Le attività delle Open Society Foundations si estendono a ogni angolo del globo e toccano una serie di problematiche cosí ampie che me ne sorprendo io stesso. Non sono l’unico egoista ed egocentrico, ovvio, lo è la gran parte di noi. Io sono solo disposto a riconoscerlo. Ci sono molte persone davvero caritatevoli al mondo, ma poche possiedono la ricchezza necessaria per essere dei filantropi.
Ho sempre diffidato della filantropia. A mio avviso, la filantropia è contraria al buon senso: genera tanta ipocrisia e numerosi paradossi. Ecco alcuni esempi: la filantropia dovrebbe dedicarsi al bene degli altri, ma i filantropi tendono a curarsi soprattutto di quello che torna a proprio vantaggio; la filantropia dovrebbe aiutare le persone, e invece spesso le rende dipendenti e le trasforma in oggetti della carità altrui; i destinatari delle sovvenzioni dicono ciò che le fondazioni vogliono sentirsi dire e poi fanno comunque quello che vogliono.
Visto il mio atteggiamento critico nei confronti della filantropia, perché mai le dedico una quota tanto cospicua della mia ricchezza e delle mie energie? La risposta va cercata da un lato nella mia storia e nella mia formazione, dall’altro nel quadro concettuale che mi ha guidato per tutta la vita, e in parte va riferita al puro caso.
L’esperienza che ha segnato la mia esistenza è stata l’occupazione tedesca dell’Ungheria nel 1944. Ero un ragazzo ebreo non ancora quattordicenne. Sarei potuto essere una vittima dell’Olocausto o avrei potuto subire un danno psicologico importante se non fosse stato per mio padre, che comprese i pericoli e si destreggiò meglio di molti altri. Nella Prima guerra mondiale aveva vissuto un’esperienza in qualche misura simile che l’aveva preparato a quanto accadde nella Seconda.
Come amo raccontare, durante la Prima guerra mondiale mio padre era un volontario nell’esercito austroungarico e venne catturato dai russi. Fu condotto in Siberia come prigioniero di guerra. Nel campo di prigionia diventò redattore di una rivista letteraria manoscritta che veniva affissa su un’asse di legno, e che si chiamava proprio «l’asse». Gli autori degli articoli si raccoglievano dietro la tavola ad ascoltare i commenti dei lettori. Mio padre portò a casa le pagine manoscritte; ricordo quando le guardavo da bambino. La rivista lo rese molto popolare e fu eletto rappresentante dei detenuti. Quando alcuni prigionieri di guerra scapparono da un campo vicino, il loro rappresentante fu fucilato per ritorsione. Invece di attendere che accadesse lo stesso nel suo campo, mio padre radunò un gruppo e organizzò un’evasione. Costruirono una zattera con l’intenzione di raggiungere l’oceano. Le loro cognizioni di geografia erano però lacunose e non si resero conto che tutti i fiumi siberiani sfociano nel Mar glaciale artico. Non appena si accorsero dell’errore, scesero dalla zattera e tornarono alla civiltà attraverso la taiga disabitata. Si ritrovarono nell’anarchia della Rivoluzione russa e vissero alcune sconvolgenti avventure. Quella fu la sua esperienza formativa.
Alla fine mio padre riuscí a tornare in Ungheria ma era un uomo diverso. Quando si era arruolato era un giovane ambizioso. Le avventure in Russia gli fecero perdere l’ambizione; dalla vita non voleva altro che godersela. Crescere i suoi due bambini era per lui una delle gioie piú grandi. Ciò lo rese un ottimo padre. Gli piaceva anche aiutare e consigliare gli altri e aveva un talento per stringere amicizia con chiunque. Teneva in grande considerazione i propri giudizi e opinioni, ma per altri aspetti non era affatto un uomo egoista o egocentrico.
Quando i tedeschi occuparono l’Ungheria, il 19 marzo 1944, mio padre sapeva esattamente che cosa fare. Si rendeva conto di trovarsi in tempi anomali in cui chi si atteneva alle normali regole era in pericolo. Procurò delle false identità non solo alla sua famiglia ristretta, anche a una cerchia piú ampia di persone. A chi poteva permetterselo richiedeva somme esorbitanti, per poi aiutare altri gratis. Non l’avevo mai visto lavorare tanto. Fu il suo periodo di gloria. Cosí come la sua famiglia ma anche gran parte di chi aveva consigliato o aiutato riuscí a salvarsi.
Il 1944, l’anno dell’occupazione nazista, rappresentò la mia esperienza formativa. Invece di sottometterci al nostro destino, resistemmo contro una forza del male che era molto piú potente di noi e avemmo la meglio. Fu un’avventura esaltante, come quella dei Predatori dell’arca perduta. Non solo sopravvivemmo, riuscimmo anche ad aiutare altri. Questo lasciò un marchio indelebile su di me e mi diede il gusto di correre dei rischi. Con la saggia guida di mio padre imparai a gestire situazioni in cui esploravo i limiti del possibile senza però spingermi oltre. Provo grande soddisfazione nell’affrontare realtà difficili, e provare a risolvere problemi in apparenza insolubili mi attrae.
Aiutare gli altri non ha mai perso la sua connotazione positiva per me, ma per lungo tempo ho avuto poche occasioni di farlo.
Dopo le avventure inebrianti della guerra e dell’immediato dopoguerra, la vita in Ungheria diventò molto tetra. Il Paese era occupato dalle truppe russe e il Partito comunista consolidò il suo dominio. Volevo partire e con l’aiuto di mio padre ci riuscii. Nel settembre 1947 andai a studiare in Inghilterra.
L’esperienza a Londra fu molto deludente. A diciassette anni, con pochissimi soldi e pochi amici, mi sentivo triste e solo. Riuscii a portare a termine l’università, ma non fu un’esperienza piacevole. Tutti gli studenti i cui genitori risiedevano in Inghilterra avevano diritto a una borsa di studio erogata dalla contea. Io facevo eccezione perché i miei genitori non erano con me. Lavorare mentre si frequenta l’università non è una strada facile, però è ciò che fui costretto a fare.
In quel difficile periodo ebbi due incontri con la filantropia destinati a segnare il mio atteggiamento futuro. Poco dopo essere arrivato a Londra, mi rivolsi al consiglio ebraico dei guardiani per un aiuto economico. Me lo rifiutarono sostenendo che le loro linee guida imponevano di aiutare solo giovani che imparassero un mestiere, non studenti. In seguito, quando ero già iscritto alla London School of Economics, trovai un impiego temporaneo da fattorino delle ferrovie durante le festività natalizie e mi ruppi una gamba. Uscii dall’ospedale sulle stampelle e pensai che quella fosse l’occasione buona per ottenere dei soldi dal consiglio ebraico. Salii due rampe di scale con le stampelle e feci richiesta di supporto temporaneo. Mi riproposero il loro mantra sul prestare aiuto solo agli apprendisti, ma non poterono negarmelo. Mi diedero tre sterline, con cui non si tirava avanti neanche una settimana. La cosa si ripeté per diverse settimane. Ogni volta dovevo salire le scale con le stampelle per prendere i soldi.
Nel frattempo, dopo aver parlato con me, il mio compagno di stanza decise di presentarsi al consiglio, dichiarandosi pronto a imparare un mestiere. Anche se non durava a lungo negli impieghi che gli proponevano, continuarono a sostentarlo dal punto di vista economico. Dopo un po’, cercarono di mandarmi a chiedere assistenza all’Istituto industriale contro gli infortuni: sostenni di non poterlo fare perché lavoravo in nero e non volevo rischiare di perdere il visto da studente. Non era vero. Il mio impiego temporaneo alle ferrovie era del tutto legale, ma loro non lo sapevano. Avevano mandato un assistente sociale a controllare che però non aveva scoperto nulla. Cosí, quando si rifiutarono di continuare ad aiutarmi, mi sentii legittimato a scrivere una lettera spassionata al presidente del consiglio ebraico in cui dicevo che sarei sopravvissuto, ma che mi rattristava molto «il fatto che il consiglio da lei presieduto non sia disposto ad aiutare un giovane studente ebreo con una gamba rotta e bisognoso di supporto». La lettera sortí l’effetto desiderato. Il presidente si adoperò perché ricevessi tre sterline a settimana per posta, evitandomi di salire le scale ogni volta. Tolte le stampelle, dopo una vacanza in autostop nel Sud della Francia, scrissi al presidente dicendogli di non avere piú bisogno del suo aiuto e lo ringraziai. Pur avendo ingannato la fondazione, mi sentivo moralmente giustificato perché avevano indagato su di me e non avevano scoperto che stavo mentendo. E in quelle circostanze, consideravo ingiusto il loro comportamento.
Il mio incontro successivo con la filantropia avvenne quando lavoravo come cameriere in un locale di notte, mentre di giorno studiavo. Venendolo a sapere, il mio tutor si rivolse ai quaccheri, che mi inviarono un questionario. Lo riempii e loro mi mandarono un assegno di quaranta sterline senza alcun obbligo da parte mia. Il gesto mi colpí e mi sembrò il modo migliore di aiutare le persone. Dopo la crisi del 2008 sono stato in grado di garantire, senza fare domande, un assegno da duecento dollari a quasi un milione di bambini in età scolare di New York le cui famiglie vivevano di sussidi o buoni spesa. Per conto dello Stato di New York, ho messo il venti per cento dell’importo per accedere ai finanziamenti inclusi nel pacchetto di stimolo economico del governo federale. Sessant’anni dopo, la generosità dei quaccheri ha portato grandi dividendi. E a me ha fatto piacere, nonostante gli attacchi velenosi del «New York Post» sull’«elemosina del welfare».
Dopo aver terminato l’università, feci fatica a trovare il mio posto nel mondo. Ebbi una serie di false partenze in Inghilterra e alla fine sbarcai a New York lavorando prima nell’arbitraggio finanziario, poi come analista dei titoli, quindi come venditore istituzionale e infine come gestore di uno dei primi fondi speculativi. In quel periodo non ero molto altruista. L’unica azione degna di nota fu un tentativo di ripristino di Central Park. In collaborazione con Dick Gilder, broker e investitore, mettemmo in piedi il Central Park Community Fund che non ebbe però un grande successo. Un’altra organizzazione, la Central Park Conservancy, aveva instaurato una stretta collaborazione con l’amministrazione del parco e fece dei progressi molto piú sostanziali. La decisione da parte mia di sciogliere la nostra organizzazione per fonderla a quella che funzionava meglio fu molto sensata. Scoprii allora che le organizzazioni benefiche hanno una vita propria, indipendente dalla loro missione ufficiale, e metterle in piedi è piú facile che disfarle. Prima come studente della London School of Economics poi a New York, sviluppai la teoria della riflessività che mi è servita da guida sia nel fare soldi come gestore di fondi sia, piú tardi, nello spenderli come filantropo interessato alla politica. Per le ragioni esposte nell’introduzione, l’ultima versione di questa teoria è disponibile nella sesta parte.
Ai tempi dell’università il mio quadro concettuale non era sviluppato come lo è oggi. Le idee centrali erano già presenti, però, spaziando non solo nell’economia ma anche nella politica e nelle questioni umane in generale. Il mio pensiero è stato fortemente influenzato dal filosofo austriaco Karl Popper, grazie al suo libro La società aperta e i suoi nemici e alla sua teoria del metodo scientifico.
Terminai i corsi universitari con un anno di anticipo e dovetti far passare del tempo prima di potermi laureare. Scelsi Karl Popper come tutor e scrissi un paio di saggi per lui. Dopo l’università dovevo guadagnarmi da vivere ma non ho mai smesso di interessarmi al complesso rapporto tra pensiero e realtà. Passati diversi anni, mandai un saggio a Popper intitolato The Burden of Consciousness, il peso della coscienza.
La mia carriera di uomo d’affari ha seguito un percorso tortuoso, con molte false partenze e passi falsi, però alla fine mi sono ritrovato a gestire uno dei primi fondi speculativi di New York. Iniziai nel 1969 con circa tre milioni di dollari. Nel 1979, il fondo raggiunse i cento milioni, gran parte da profitti non distribuiti. Di questi, mi spettavano circa quaranta milioni di dollari. Considerai che fossero piú che sufficienti per la mia famiglia e per me. I rischi che correvo sfruttando la leva finanziaria mi causavano una tensione enorme. Ricordo che una volta investii su una grande quantità di nuove obbligazioni del governo britannico a breve termine, senza prima mettere insieme i fondi necessari. Andavo avanti e indietro per la City di Londra cercando di trovare una linea di credito, e mentre percorrevo Leadenhall Street pensai che mi sarebbe venuto un infarto. «Ho corso questo rischio per fare un colpaccio, – mi dissi, – ma se muoio ora, la mia è la fine di un perdente. Non ha senso rischiare la vita per i soldi». Fu a quel punto che decisi di usare il mio denaro per qualcosa che valesse la pena e creai una fondazione. Pensai a lungo e seriamente a che cosa mi interessasse davvero. Mi affidai al mio quadro concettuale piuttosto astratto e puntai al concetto di società aperta, che di quel quadro concettuale è uno dei pilastri.
Che io sappia, l’espressione «società aperta» è stata usata per la prima volta dal filosofo francese Henri Bergson nel saggio Le due fonti della morale e della religione. Una fonte era tribale e conduceva a una società chiusa; l’altra era universale e si associava a una società aperta. Karl Popper sottolineava che le società aperte possono diventare chiuse attraverso ideologie universali che affermano di essere in possesso della verità ultima. L’affermazione è falsa; perciò, queste ideologie possono prevalere solo usando metodi costrittivi. Per contro, le società aperte riconoscono che individui diversi hanno opinioni e interessi diversi; esse introducono leggi fatte dall’uomo per permettere la convivenza pacifica. Avendo avuto esperienza sia del nazismo, sia del comunismo in Ungheria, rimasi colpito nel profondo dalle idee di Popper. Stabilii che la missione della mia fondazione fosse per prima cosa aprire le società chiuse, secondo, rendere le società aperte piú vitali e, terzo, promuovere un modo di pensare critico. Era il 1979.

Partenza.

La fondazione ebbe un avvio lento. Ero consapevole delle insidie e dei paradossi della filantropia e volevo evitarli. Feci un apprendistato presso Helsinki Watch, un’associazione per i diritti umani alle prime armi che sarebbe poi diventata Human Rights Watch. Partecipavo alle riunioni del mercoledí mattina, dove venivano discussi gli eventi e le attività che si stavano svolgendo. Andai anche in missione conoscitiva in El Salvador e Nicaragua, Paesi che in quel periodo erano nel mezzo di una guerra civile. Imparai molto ma feci relativamente poco, da solo. Mi interessai alla vicenda di un rifugiato russo, Vladimir Bukovskij, che era attivo nell’Afghanistan occupato dai sovietici. Smisi però di offrirgli un aiuto economico quando mi resi conto che nello svolgere le sue attività poteva uccidere qualcuno o essere ucciso.
Piú avanti andai in Russia, di nuovo in missione conoscitiva, e lí strinsi un rapporto stretto con un refusenik al quale iniziai a mandare denaro tramite una hostess della Swissair perché lo distribuisse agli altri oppositori nel Paese. Alla fine la mia fondazione divenne un’importante fonte di sostegno economico per i movimenti dissidenti in tutta l’Europa orientale.
La mia prima grande iniziativa indipendente è stata in Sudafrica. A New York avevo un amico zulu, Herbert Vilazaki, professore universitario in Connecticut. Questi fece ritorno al suo Paese per assumere un incarico all’università del Transkei, uno dei bantustan soggetto al regime dell’apartheid. Andai a trovarlo nel 1980 ed ebbi l’occasione di osservare il Sudafrica da un punto di vista insolito. Si trattava di una società chiusa dotata di tutte le istituzioni di un Paese avanzato, che però erano precluse alla maggioranza della popolazione sulla base della razza. Dove avrei potuto trovare un’opportunità migliore per far sí che una società chiusa si aprisse? Incontrai il vicerettore dell’università di Città del Capo, Stuart Saunders, che era intenzionato a concedere l’accesso all’ateneo agli studenti neri. Lo Stato pagava le tasse universitarie a tutti gli studenti ammessi. Colsi al volo l’occasione di usare le risorse dell’apartheid contro di essa e mi offrii di pagare le spese vive a otto studenti di colore.
Tornai in Sudafrica l’anno seguente, ma quel viaggio fu meno fortunato. Volevo finanziare l’arte e la cultura africane perciò chiesi a Nadine Gordimer, futura vincitrice del Nobel per la letteratura, di organizzare un incontro con i leader culturali africani per discutere le modalità da adottare. L’incontro fu però un fiasco. A quel punto la mia copertura era saltata. Tutti sapevano che ero un ricco filantropo di New York e i partecipanti alla riunione non vedevano me ma una cassa piena d’oro al centro della sala; riuscivano solo a discutere di come spartirsela. Decisi di abbandonare il progetto, deludendo tutti.
Andai anche all’Università di Città del Capo e scoprii che l’aumento nel numero degli studenti neri era inferiore a ottanta, sia perché alcune delle borse di studio Open Society erano state date a studenti già iscritti, sia perché altri avevano lasciato. Quelli che incontrai sembravano sinceramente disamorati. Si sentivano indesiderati, discriminati e inseriti a forza in una cultura aliena, e facevano fatica a soddisfare le richieste accademiche. Incontrai anche i docenti e li trovai di mentalità molto meno aperta del vicerettore.
Decisi di interrompere il programma; il primo gruppo sarebbe comunque arrivato alla fine. Con il senno di poi, questa si rivelò una cattiva decisione. Il vicerettore assunse un mentore nero per gli studenti di colore, che per caso era il mio amico Herbert Vilakazi, e le cose andarono molto meglio. Sarebbe stato fantastico avere un maggior numero di laureati neri quando fu abolita l’apartheid. Nel momento in cui presi la mia decisione, tuttavia, il sistema dell’apartheid sembrava ben saldo. Tentai anche alcuni altri progetti, però giunsi alla conclusione che niente di ciò che potevo fare avrebbe cambiato le cose. Il fatto che le mie attività fossero tollerate serviva soltanto a dimostrare la loro magnanimità. Invece di sfruttare io l’apartheid a mio vantaggio, sembrava che fosse l’apartheid a sfruttare me: consentire le mie attività portava loro un guadagno in termini di immagine che proiettavano all’estero. Ripensandoci ora, avrei forse dovuto essere piú tenace. Questa esperienza mi ha insegnato che vale la pena battersi per cause apparentemente perse.
La grande impresa successiva ebbe luogo nella mia nativa Ungheria. Nei primi anni Ottanta, il regime comunista magiaro era impaziente di venire accettato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale, il che mi offrí l’opportunità di portare un gruppo di dissidenti alla New York University per un anno: fu loro consentito di lasciare il Paese. Questo mi diede una conoscenza di base dell’Ungheria dalla quale poter partire.
Nel 1984 proposi di istituire una fondazione locale al governo ungherese che, prendendomi in qualche modo alla sprovvista, accolse la mia richiesta. Durante le lunghe negoziazioni fui guidato dai miei amici dissidenti. Si decise che la mia fondazione avrebbe sosten...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Democrazia!
  4. Introduzione
  5. I pericoli inediti che devono affrontare le società aperte. Le piattaforme tecnologiche e il sistema di credito sociale di Xi Jinping
  6. La mia filantropia politica. Un uomo egoista con una fondazione prodiga
  7. La Central European University e il suo futuro. Un’università che prende sul serio principî e responsabilità sociali
  8. La crisi economica globale e le sue conseguenze. Un salvataggio migliore era possibile
  9. La tragedia dell’Unione europea. Europa, svegliati per favore!
  10. Il mio quadro concettuale. La mia comprensione della riflessività mi ha permesso di prevedere e affrontare la crisi economica
  11. Bibliografia
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Copyright