Montagne della mente
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Montagne della mente

Storia di una passione

  1. 344 pagine
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Montagne della mente

Storia di una passione

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Solo tre secoli fa, le montagne erano considerate una sorta di malformazione del paesaggio, prive di qualsiasi attrattiva, invise a tutti i popoli per la loro inaccessibilità. Oggi, invece, sono diventate meraviglie della natura che esercitano una straordinaria e spesso fatale attrazione. Come è potuto accadere? Con questo libro, Robert Macfarlane ripercorre la storia dell'incontro fra gli uomini e le montagne. E lo fa attraverso il racconto delle mitiche esplorazioni alpinistiche, le grandi scoperte scientifiche, le opere di poeti e artisti che sono stati posseduti dalla vertigine delle vette. Perché il brivido dell'altitudine e lo stupore del panorama in quota, la ricerca della paura come limite da superare, l'incanto dei ghiacciai hanno reso le cime dei monti una nuova frontiera da esplorare e da cui venire conquistati.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433126
Categoria
Travel
Capitolo ottavo

Everest

Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
verso ’l maggiore e ’l piú expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso.
FRANCESCO PETRARCA, Di pensiero in pensier, di monte in monte, 1345 circa.
Se penso all’Everest, mi vengono in mente non una, ma tre immagini contrastanti.
Vedo innanzitutto la montagna fisica: la struttura di roccia scura che ho scorto per la prima volta dalle pendici di un monte, a sessanta chilometri di distanza. Sulla cima sventola, come un kata, la tradizionale sciarpa augurale tibetana, la candida scia di cristalli di ghiaccio sollevata dai venti furiosi che spazzano la montagna otto mesi all’anno.
Poi c’è un’immagine del colle Sud oggi: bombole di ossigeno vuote impilate come bombe lucenti, scheletri di tende sfondate, teli a brandelli che garriscono al vento come colorate bandiere della preghiera. Sembra un campo di battaglia.
Infine c’è George Mallory, che scomparve sulle pendici dell’Everest nel giugno del 1924. Il ricordo di Mallory è inscindibile dalla montagna su cui perse la vita. L’immagine che ho in mente è una fotografia scattata nel 1922, in Tibet, durante la marcia di avvicinamento. Mallory si è spogliato per guadare un fiume; è nudo, salvo per il cappello di feltro in testa e lo zaino sulle spalle. Volge il fianco all’obiettivo, con la gamba sinistra pudicamente spostata in avanti, perché la coscia nasconda l’inguine. La pelle è di un luminoso pallore; il corpo, sorprendentemente, pieno di curve: natiche rotonde, ventre prominente. La tesa del cappello lo difende dalla luce accecante del Tibet. Il volto in ombra guarda l’obiettivo con il sorriso sbarazzino di un bambino sulla spiaggia. Tutta la sua figura emana calore e buon umore. Due anni dopo, Noel Odell, geologo e alpinista, vedrà i due puntini neri di George Mallory e Andrew Irvine arrampicarsi lentamente sui pendii finali dell’Everest e scomparire per sempre nelle nuvole che avvolgono la vetta.
L’Everest è la piú grande di tutte le montagne della mente. Nessun’altra vetta ha mai esercitato tanto fascino sulla nostra immaginazione. E nessuno ha subito quel fascino piú di George Mallory. Fu un amore che divenne subito ossessione e, tre anni dopo, esplose in tragedia. Mallory tentò di scalare la montagna tre volte, nel 1921, nel 1922 e nel 1924. La terza volta gli fu fatale. Dell’attrazione che l’Everest esercitava su di lui era consapevole. «Non posso dirti come mi possiede», scriveva alla moglie Ruth nel 1921. E a Geoffrey Winthrop Young, compagno di ascensioni e maestro, scrisse: «Geoffrey, dove mi fermerò?»
Mallory era un uomo eccezionale, che scalava montagne per passione, su questo non c’è dubbio. Ma la sua passione era determinata anche dal modo in cui era mutata la percezione delle montagne nei tre secoli precedenti. Ho letto le lettere che scrisse alla moglie Ruth, la corrispondenza che tenne con amici e familiari, i suoi diari di viaggio. Tutti quei documenti traboccano di amore per le alte quote e i panorami, per il ghiaccio, i ghiacciai, la solitudine e la lontananza, l’ignoto, le vette, il rischio e la paura. In lui coincisero con potenza esplosiva e letale tutti i sentimenti della montagna di cui ho cercato di delineare la storia nei capitoli che precedono.
In un certo senso, quasi tutti i personaggi che abbiamo incontrato in queste pagine sono in parte responsabili della sua morte: Windham e Pococke che nel 1741 brindano alla prima escursione tra i ghiacciai della Savoia; Samuel Johnson che nel 1773 visita il Buller di Buchan; Caspar David Friedrich che nel 1818 dipinge Il viandante sul mare di nebbia; Albert Smith che nel 1853 racconta la sua ascensione al Monte Bianco a un affascinato pubblico londinese; e le centinaia di altri che, ognuno a modo suo, contribuirono a modificare, sia pure in misura minima, la percezione e l’immagine della montagna nella cultura occidentale. Mallory fu l’erede di un complesso di sentimenti e di atteggiamenti nei confronti del paesaggio montano che erano nati molto prima di lui e che in gran parte forgiarono il suo modo di affrontarne pericoli, bellezze, significati.
Iniziato all’arrampicata da ragazzo, quando frequentava la Winchester School, aveva sviluppato per le montagne un amore profondamente romantico. Gli ambienti con cui si era trovato in contatto all’università, e che continuò a frequentare dopo, avevano contribuito ad amplificare quella passione, a renderlo ancora piú suscettibile al fascino delle altezze. Attraverso gli amici Rupert Brooke e Duncan Grant frequentava, sia pure marginalmente, il Bloomsbury Group, dove l’idealismo, l’avventura, l’eccellenza individuale erano grandemente apprezzati. Anche Rupert Brooke andava in montagna. Una volta, per comunicargli che non poteva accettare l’invito ad arrampicare in Galles con lui, Brooke gli inviò una cartolina con Il pensatore di Rodin, dove scriveva: «Il mio spirito brama le montagne, che adoro dal profondo del cuore. Ma i pallidi dèi si oppongono». Gli dèi montani di Mallory erano certo meno esangui e piú virili delle pallide divinità evocate da Brooke, ma il suo senso della leggenda e del mito non era diverso.
Alla fine, tragicamente, la sua passione per le montagne si sarebbe dimostrata piú forte di tutti gli affetti familiari. Tre secoli prima, la sua ossessione lo avrebbe condannato al manicomio. Nel 1924 la sua morte gettò la nazione nel lutto e fece di lui un mito.
La montagna piú alta del mondo un tempo era un fondo oceanico. Centottanta milioni di anni fa, il profilo delle terre emerse era molto diverso da quello che conosciamo oggi. Il triangolo di terra che oggi costituisce l’India era separato dal resto dell’Asia da un oceano, detto Tetide, che non esiste piú. Quella terra, adagiata sulla sua placca, si muoveva verso l’Asia alla grande velocità di circa quattordici centimetri all’anno, spinta dalle stesse forze, le correnti di convezione presenti nel mantello, che l’avevano staccata dal supercontinente della Pangea venti milioni di anni prima.
Quando il margine della placca indiana si scontrò con l’inamovibile placca tibetana, si formò una zona di subduzione. A quel punto tra la massa continentale dell’India e quella dell’Eurasia e del Tibet si stendeva ancora il Tetide. Sul fondo del Tetide giacevano immensi strati di sedimenti marini, costituiti da sabbia, coralli e resti di innumerevoli creature acquatiche, che in gran parte vennero a trovarsi nella profonda fossa della zona di subduzione.
Nel corso di milioni di anni, il margine settentrionale della crosta continentale indiana si spostò verso il margine meridionale della crosta continentale tibetana. Con l’avvicinarsi dei due margini, la massa di sedimenti sul fondo del Tetide andò comprimendosi. Calore e pressione concorsero a trasformarla in roccia. Parte di quella roccia venne spinta verso il basso e sprofondò nel mantello della terra, dove si trasformò in magma. Ma la maggior parte, miliardi e miliardi di tonnellate, venne innalzata verso l’alto.
Cosí nacque l’Himalaya. L’India andò a sbattere contro il Tibet e spremette fuori il materiale sedimentario marino compresso tra le due masse, che formò le quattro catene dell’Himalaya, il cui punto piú alto è l’Everest. Le forme delle montagne originarie erano molto piú regolari e uniformi di quelle che vediamo oggi; l’aspetto odierno, assai piú accidentato, è dovuto al potere di erosione di terremoti, monsoni e ghiacciai.
Quello che oggi è il punto piú alto della superficie terrestre, dunque, fu un tempo uno dei piú profondi. Nella fascia di roccia giallastra che corre poco sotto la vetta dell’Everest ci sono i corpi fossilizzati di creature che vissero nel Tetide milioni di anni fa. La roccia che tanti sognano di scalare ha percorso a sua volta un tragitto verticale di decine di migliaia di metri, dalle oscurità della fossa del Tetide ai cieli luminosi dell’Himalaya.
Sotto l’aspetto geologico, dunque, fu la collisione dell’India con il Tibet a creare l’Himalaya. Ma a inserire stabilmente quelle montagne nell’immaginario occidentale fu la collisione, nel XIX secolo, dell’impero britannico in India, in espansione verso nord, con l’impero russo, in espansione verso est.
Prima di allora, dei vasti altopiani della regione transhimalayana in Occidente non si sapeva quasi nulla. Fino al XVII secolo, anzi, la maggior parte degli europei non sapeva neppure che esistesse l’Himalaya. Erodoto descrisse l’India, ma non citava le montagne che la delimitano a nord. Tolomeo compresse in un unico blocco Himalaya e Karakorum, ignorando del tutto gli altopiani dell’Asia centrale. Entro la metà del XVI secolo, i cartografi erano riusciti a delineare il perimetro delle terre emerse, ma che cosa ci fosse all’interno dei continenti, eccezion fatta per l’Europa, restava ancora un mistero.
All’inizio del XIX secolo, tuttavia, la minaccia di un’espansione russa a Oriente convinse la Gran Bretagna della necessità di acquisire informazioni sulle regioni che giacevano al di là dell’Himalaya. Tra le settantanove vette fissate dal Great Trigonometrical Survey (GTS) tra gli anni Quaranta e i Cinquanta del secolo c’era un certo Peak H, poi ribattezzato Peak XV. Lo aveva individuato un topografo di nome John Nicholson nel corso delle osservazioni condotte dalle stazioni di rilevamento della pianura di Bihar, a circa 270 chilometri di distanza. I dati raccolti dal GTS sul campo vennero trasmessi ai topografi della sede centrale, perché fossero elaborati e ricontrollati. Per verificare i calcoli relativi al Peak XV, tenendo conto delle variabili di temperatura, pressione, rifrazione e forza di gravitazione della catena himalayana, ci vollero sette anni1. Finalmente, nel 1856, il capo del servizio topografico dell’India, Andrew Waugh, confermò ufficialmente l’altezza del Peak XV. Con i suoi 8839 metri, era la montagna «piú alta di tutte quelle misurate fino a questo momento in India, nonché con molta probabilità la piú alta del mondo». Cosí l’Occidente «scoprí» la montagna che oggi chiamiamo Everest, che le popolazioni locali conoscevano da sempre.
Alla scoperta, però, non seguí l’esplorazione, perché l’Everest sorgeva sul confine tra i due regni proibiti del Tibet e del Nepal. Era visibile con i potenti telescopi del GTS, ma restava inavvicinabile per motivi politici, oltre che geografici. Gli inglesi avevano infatti deciso di riconoscere e di rispettare la sovranità del Nepal, il che poneva tutto il versante meridionale della montagna fuori dalla portata di topografi ed esploratori. Quanto al Tibet, era, dopo i poli, il grande territorio ignoto del tardo XIX secolo. «L’incalpestata terra», cosí lo definí il romanziere H. Rider Haggard, prestando voce all’immagine che ne aveva l’uomo comune. Erano cosí pochi gli occidentali che avevano avuto l’occasione di mettervi piede, che il Tibet restava in gran parte una tabula rasa, un luogo in cui nulla accadeva e da cui non giungevano notizie, un grande foglio bianco steso sopra il piú elevato altopiano del mondo, dove l’immaginazione occidentale poteva disegnare a piacimento le sue fantasie sull’Oriente.
«Montagne del Tibet», in William Orme, Twenty-Four Views in Hindostan, 1805. Le montagne improbabilmente alte e puntute dello sfondo sembrano una barriera tanto al passaggio quanto all’immaginazione.
«Montagne del Tibet», in William Orme, Twenty-Four Views in Hindostan, 1805. Le montagne improbabilmente alte e puntute dello sfondo sembrano una barriera tanto al passaggio quanto all’immaginazione.
La fantasia principale era quella della purezza spirituale del Tibet. Molti in Occidente lo credevano una sorta di Eden di ghiaccio, un santuario nascosto nel cuore dell’Asia. Lí i tibetani vivevano un’esistenza incorrotta, in sintonia con i ritmi del drammatico paesaggio che li circondava, una vita bella e pura quanto la bellezza dei luoghi e la purezza dell’aria. Lí non si erano addensate quelle che Ruskin chiamava «le tempestose nubi del XIX secolo», il triplice miasma dell’industria, dell’ateismo e del razionalismo. Un viaggiatore inglese, dopo aver visitato il Tibet nel 1903, paragonò una delle sue montagne a una «vasta cattedrale»; un esploratore francese, piú o meno nello stesso periodo, dopo essere riuscito finalmente a raggiungere l’altopiano tibetano, scrisse che gli era sembrato di ascendere «attraverso successivi strati di nuvole, dall’inferno al paradiso, lasciandomi dietro le spalle, là in basso, questo nostro mondo della tecnica e della scienza che tanto ha fatto per accrescere l’infelicità umana». Ciò che la Svizzera era stata per il XVIII secolo, il Tibet lo fu per il XIX: una mitica Arcadia montana, opposta ai tetri paesaggi urbani d’Europa, Gran Bretagna e America.
Tra il Tibet e il regno proibito del Nepal sorgeva l’Everest, il «terzo polo», come lo aveva chiamato Whymper nel 1894. Nei settant’anni intercorsi tra la misurazione della sua altezza e la prima spedizione ricognitiva, nel 1921, nessun occidentale riuscí ad arrivare a meno di sessanta chilometri di distanza dall’Everest. Attorno alla montagna piú alta del mondo si formò un vuoto di informazione, in cui si affollavano speranze, paure, congetture. E senza dubbio l’inaccessibilità contribuí ad accrescerne il fascino. Nel 1899 Lord Curzon, allora viceré dell’India, osservava i bastioni bianchi dell’Himalaya dalle finestre della sua fresca, ombrosa residenza di Simla. L’Everest lo affascinava: «Ogni giorno, vedendo dal mio studio quello schieramento di possenti bastioni innevati alzarsi verso il cielo, quell’immensa muraglia che isola l’India dal resto del mondo, pensavo che, se mai a qualcuno fosse toccato raggiungerne la vetta, questi sarebbe stato un inglese».
Cinque anni dopo, una spedizione militare inglese comandata da Francis Younghusband mise brutalmente fine all’aura di mistero che circondava il Tibet. Il pretesto per invadere il Paese furono i supposti sconfinamenti di «truppe» tibetane in Nepal a scopo di razzia. La verità era che lord Curzon, temendo possibili ingerenze russe in Tibet, voleva consolidare l’influenza britannica sulla regione. Younghusband, sempre pronto all’azione, aveva dato parere favorevole, sostenendo, nel linguaggio dell’epoca, l’opportunità di «spezzare il potere dei monaci per impedire che continuino egoisticamente a ostacolare la prosperità del Tibet e dei distretti britannici confinanti».
I tibetani non restarono a guardare. Il primo scontro avvenne nei pressi del paese di Gyantse. Duemila tibetani armati di vecchi fucili ad avancarica, spade e lance affrontarono un contingente meno numeroso di inglesi, dotati di cannoni e fucili a ripetizione. Secondo il racconto di un sopravvissuto tibetano, gli inglesi spararono «per il periodo di tempo necessario a far raffreddare l’una dopo l’altra sei tazze di tè bollente». Quando il fuoco cessò, sul campo giacevano dodici feriti inglesi e 628 morti tibetani. Nel seguito della campagna, che si concluse con l’ingresso di Younghusband a Lhasa, i tibetani persero altri duemila uomini. Le vittime da parte inglese furono in tutto soltanto quaranta.
Con la sanguinosa caduta di Lhasa sparí un altro pezzo di ignoto. In The Last Secrets, a proposito dell’invasione della città, John Buchan osservava: «Era impossibile anche per i meno inclini al sentimentalismo non provare un certo rammarico per l’abolizione del velo che tanto aveva rappresentato per l’immaginazione umana … Con il disvelamento di Lhasa cadde l’ultima roccaforte dell’antico spirito romantico».
Era finito un sogno, se ne apriva un altro. All’interno del Tibet, e dunque ora accessibile, c’era l’Everest. Si era dischiusa una nuova fonte di fascinazione, forse anche piú potente. A dischiuderla era stato un uomo che, per le sue capacità di alpinista e di esploratore, ma anche per le sue inclinazioni mistiche, il suo spirito romantico e il suo animo di patriota, forse piú di chiunque altro poteva essere sensibile all’idea di scalare quella montagna. Da dietro i fili spinati e i sacchetti di sabbia di uno dei campi inglesi, Younghusband aveva visto l’Everest «ergersi alto nel cielo quale immacolato pinnacolo del mondo» e ne era rimasto incantato. Quella remota visione avrebbe messo radici nella sua immaginazione e sarebbe un giorno sbocciata in un sogno ambizioso.
Tempo per sbocciare ne ebbe parecchio, perché l’invasione del Tibet del 1904 portò indirettamente all’accordo anglo-russo del 1907, con cui le due parti si impegnavano a impedire ulteriori spedizioni in Tibet. Con il Nepal ancora ermeticamente chiuso, l’Everest tornò irraggiungibile. Ma nel 1913 un giovane ufficiale inglese, John Noel, entrò in Tibet clandestinamente, travestito da «maomettano indiano», e giunse fino a una sessantina di chilometri dalla montagna. Al suo ritorno disse che l’Everest assomigliava «a una scintillante guglia di roccia, tutta ricoperta di scanalature innevate»2.
Il racconto di Noel suscitò l’interesse di molti in Inghilterra, non ultima la Royal Geographical Society, che cominciò a progettare una spedizione esplorativa, poi rinviata per lo scoppio della Prima guerra mondiale. Finita la guerra, si riprese il progetto. Il 10 gennaio 1921 la Royal Geographical Society, sotto la nuova presidenza di Francis Younghusband, comunicò ufficialmente che intendeva inviare una spedizione all’Everest. In Everest: A Challenge, Younghusband racconta la propria determinazione «a fare dell’avventura all’Everest l’evento principale dei miei tre anni di presidenza». Aveva scelto il suo Graal. Ora gli serviva un cavaliere che lo conquistasse.
«Galahad» era il nome che Geoffrey Winthrop Young dava a Mallory. Il 9 febbraio 1921 Younghusband invitò Mallory a pranzo per chiedergli se era disposto a partecipar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Montagne della mente
  4. I. Possessione
  5. II. Il grande libro di pietra
  6. III. La ricerca della paura
  7. IV. Ghiaccio e ghiacciai: i fiumi del tempo
  8. V. Altitudine: la vetta e la veduta
  9. VI. Oltre i margini della carta geografica
  10. VII. Un altro cielo e un’altra terra
  11. VIII. Everest
  12. IX. La lepre bianca
  13. Ringraziamenti
  14. Bibliografia essenziale
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright