Per gente che vive oggi in società come quella inglese o quella statunitense, lo zucchero è cosí familiare, cosí comune e cosí frequente, che è difficile immaginare un mondo senza di esso. Ovviamente le persone che hanno quarant’anni o piú potranno ricordare il razionamento dello zucchero durante la Seconda guerra mondiale, mentre coloro che hanno passato un certo tempo in società povere possono aver notato che certe popolazioni sembrano provare un’attrazione anche piú grande della nostra per il consumo di zucchero1. Questa sostanza è diventata cosí importante e abbondante nelle nostre vite quotidiane da essere praticamente onnipresente: si indicono campagne contro, eminenti nutrizionisti la attaccano o la difendono e si fanno battaglie pro o contro il suo consumo sulla stampa quotidiana e nei parlamenti. Che il fulcro della discussione verta sul cibo per bambini, gli spuntini da mangiarsi durante gli intervalli scolastici, o sui cereali per la colazione del mattino, sui problemi nutritivi o sull’obesità, l’uso dello zucchero appare sempre come un importante elemento di dibattito. Scegliere di non mangiarlo richiede sforzi e cure notevoli, poiché le società moderne sono inondate da esso.
Solo pochi secoli fa sarebbe stato ugualmente difficile immaginare un mondo cosí ricco di zucchero. Uno scrittore sostiene che quando il Venerabile Beda morí nel 753 d.C., lasciò in eredità ai suoi confratelli il suo piccolo tesoro di spezie, incluso dello zucchero2. Se questo riferimento è vero, è un documento di rimarchevole importanza, poiché da allora non vi fu piú menzione dello zucchero nelle isole britanniche per parecchi secoli e ciò ci fa pensare che fosse praticamente sconosciuto.
La presenza dello zucchero fu documentata in Inghilterra per la prima volta nel XII secolo. Ciò che è sorprendente nella dieta inglese di quei tempi è la sua totale monotonia e insufficienza. Allora e per molto tempo, la maggior parte degli europei produsse localmente con i mezzi a disposizione ciò che mangiava. Quasi tutti i cibi di base non andavano lontano dal luogo dove erano stati prodotti e furono essenzialmente le sostanze rare e preziose, quelle consumate dai gruppi sociali privilegiati, a essere trasportate per lunghe distanze3. Drummond e Wilbraham scrivono, riferendosi all’Inghilterra del XIII secolo, che il pane «fatto in casa quasi ovunque nel paese, era di fatto la fonte di sussistenza di quei tempi»4. Il grano fu particolarmente importante in Inghilterra. Nel Nord del paese però si coltivavano e si mangiavano con piú frequenza altri tipi di cereali come la segala, il grano saraceno, l’avena, l’orzo; importanti leguminose e legumi come le lenticchie e diverse qualità di fagioli. Nelle aree europee piú povere, questi carboidrati erano normalmente il cibo fondamentale, poiché erano piú abbondanti e meno cari del grano.
Tutti gli altri cibi, compresa la carne, i latticini, le verdure e la frutta erano sussidiari ai cereali. Fu la povertà di risorse, non l’abbondanza, che li resero accessori in quella dieta di base composta da farinacei. Uno studioso ha scritto che «a giudicare dal tipo di controlli e regolamenti posti dalle autorità di tutti i paesi d’Europa su ogni tipo di transazione, il grano, sembrava essere l’alimento centrale dei poveri»5. Dopo gli insuccessi nella coltivazione del grano, le genti dell’Inghilterra meridionale passarono alla segala, all’avena e all’orzo, cereali già coltivati normalmente nel Nord. «Negli anni normali, essi impastavano il loro pane con grano misto a piselli e fagioli e consumavano ovviamente un po’ di latte, un po’ di formaggio e un po’ di burro», negli anni peggiori però – come durante le cosiddette «annate care» tra il 1595 e il 1597 – i piú poveri non riuscivano nemmeno a comprare latticini6. In tempi di magra, disse William Harrison, uno scrittore del tardo XVI secolo, i poveri «passavano dal grano alla biada, ai fagioli, ai piselli, all’avena, alla veccia e alle lenticchie»7. Tali persone erano probabilmente pronte a rinunciare al loro magro consumo di latticini e simili se ciò poteva significare una maggior quantità di legumi. Spesso molti inglesi non avevano abbastanza di che riempirsi lo stomaco, essi però cercavano di mangiare, quando il raccolto lo permetteva, quanto piú pane fosse possibile8. Si può poi supporre che alle poche proteine provenienti dal pollame e da altri animali domestici si aggiungessero quelle ricavate dalla carne di volatili selvatici, lepri e pesce, sia fresco che conservato, e da alcune verdure e frutti.
Va notato però che la gente solitamente temeva gli effetti della frutta fresca, considerata pericolosa se mangiata in quantità. La resistenza a essa risaliva agli antichi pregiudizi della medicina galenica9 e la repulsione era poi rinforzata dall’influenza nefasta della diarrea infantile, una malattia frequente d’estate, che causò un gran numero di vittime almeno fino al XVII secolo. Durante la grande carestia del 1596, quando le riserve di farina scarseggiavano, Sir Hugh Platt (che riapparirà piú tardi in queste pagine come buongustaio e gaudente) diede ai suoi connazionali il seguente consiglio: «bollite i vostri fagioli, i vostri piselli e le vostre faggiole, lavateli in acqua pulita e fateli bollire ripetutamente. Alla fine della seconda o terza bollitura, scoprirete una strana alterazione nel loro gusto poiché l’acqua ha succhiato via la loro acidità. A quel punto dovrete farli seccare … e quindi farne del pane»10. Quando poi anche i diversi sostituti della farina si fossero esauriti – Platt scrive con tono consolatorio – i poveri si sarebbero potuti cibare di un «pane eccellente ottenibile dalle radici di aaron (Arum maculatum) chiamate anche gigaro o pan di serpe»11. Se queste immagini della campagna medievale non sono quelle di un mondo caratterizzato cronicamente dalla fame, son pur tuttavia immagini di una situazione dietetica non propriamente adeguata.
Dall’inizio della peste bubbonica nel 1347-48 all’inizio del XV secolo, la popolazione europea decrebbe nettamente di numero per non riprendere a salire fin dopo il 1450 circa; la peste però continuò a distruggere la vita economica fin verso la metà del XVII secolo. Questi erano secoli nei quali l’agricoltura europea scarseggiò di manodopera, mentre la produzione agricola inglese continuò a rimanere inadeguata anche quando la popolazione iniziò a crescere di nuovo. Riferendosi alla produzione di cereali per il pane, lo storico economico Brian Murphy scrive:
I raccolti degli anni 1481-82, 1502, 1520-21, 1526-29, 1531-32, 1535, 1545, 1549-51, 1555-56, 1562, 1573, 1585-86, 1594-97, 1608, 1612-13, 1621-22, 1630 e 1637 si può dire siano stati tali che il salariato medio con una famiglia a carico rimaneva con poco o nulla da parte dopo aver comprato il pane12.
Nel corso di questo periodo durato centocinquant’anni, gli anni cattivi si succedettero con irregolarità, mediamente uno ogni cinque anni. Murphy è convinto che gli anni cattivi riflettono «il grado variabile di inserimento delle attività di allevamento nelle attività ceralicole», il che vale a dire la competizione tra la produzione di lana e quella di cereali destinati all’alimentazione umana, un problema economico d’importanza capitale che caratterizzò l’Inghilterra del XVI secolo.
Il XVII secolo sembra dar segni di cambiamenti significativi. La popolazione inglese crebbe tra il 1640 e il 1740 da circa cinque milioni a poco piú di cinque milioni e mezzo, un tasso di crescita piú basso di quello del secolo precedente che può sottolineare una maggior vulnerabilità alle malattie causate dalla malnutrizione e/o dalla diffusione del consumo di gin. Vi furono altri raccolti scarsi nel 1660-61, 1673-74, 1691-93, 1708-10, 1725-29 e nel 1739-40, con un peggioramento del tasso di frequenza dei cattivi raccolti, fino a un anno su quattro per tutto quel periodo di ottant’anni. Eppure, se le statistiche significano qualcosa, sembra – come fa notare Murphy – che a quei tempi vi fosse abbastanza grano. Con l’eccezione degli anni 1728 e 1729, per tutto il periodo compreso tra il 1697 e il 1740, l’Inghilterra ebbe una bilancia dei pagamenti attiva per ciò che concerne le esportazioni di grano, vendendo all’estero piú di quanto avesse importato. Eppure anche mentre l’esportazione di cereali continuava «vi erano ancora moltissime persone con gli stomachi vuoti e che pur con il pane a prezzi molto bassi non riuscivano a trovare il denaro per saziarsi»13. La produzione di cereali sembra aver causato un’eccedenza, ma Murphy mostra che questa era piuttosto il frutto degli introiti inadeguati delle classi lavoratrici.
Durante i secoli in cui lo zucchero e altre sostanze poco familiari stavano entrando nella dieta delle popolazioni inglesi, l’alimentazione quotidiana era ancora insufficiente per la maggior parte delle persone. E nel contesto di questi problemi alimentari e agricoli che si può capire meglio il ruolo dello zucchero in quei tempi.
Dal momento della prima introduzione dello zucchero in Inghilterra fino al tardo XVII secolo, quando divenne un bene ambito, consumato di frequente dai ricchi e ben presto accessibile a moltitudini che rinunciavano a notevoli quantità di altri cibi per poterlo comprare, si assiste a un periodo caratterizzato da una produzione agricola limitata e da diete scarse. Va poi detto che non vi sono prove conclusive che la dieta di base della maggior parte della gente fosse cambiata con la successiva crescita dei consumi di zucchero che, a dire il vero, con poche altre nuove sostanze, fu unica aggiunta significante alla dieta inglese. La spiegazione di questo fatto richiede lo studio dei modi in cui gli inglesi impararono a utilizzare lo zucchero.
La canna da zucchero – o, meglio, il saccarosio – è una sostanza versatile quasi proteiforme. Durante i primi secoli d’uso nel Nord Europa, però, essa non era un’unica sostanza indifferenziata. A quei tempi infatti era già possibile ottenere zuccheri che variavano in forma e consistenza – da liquidi sciropposi a sostanze dure e cristalline –, che si differenziavano per colore dal marrone scuro («rosso») al bianco-osso (e altri colori brillanti) e che si distinguevano per grado di purezza da livelli minimi a quasi il 100 per cento. Gli zuccheri piú puri erano apprezzati tra l’altro per ragioni estetiche – abbiamo già accennato alla preferenza per le qualità piú bianche e piú fini negli usi medico-culinari. Piú lo zucchero è puro, meglio si combina con altri cibi e meglio si conserva. La storia dello zucchero è caratterizzata dalle preferenze culturalmente determinate per l’una o l’altra qualità. Per soddisfare queste preferenze in modo sempre piú completo si introdusse una gran quantità di nuovi tipi di zucchero man mano piú differenziati e specifici che a loro volta favorirono il sorgere di nuovi gusti e preferenze.
Per il nostro scopo lo zucchero può essere inizialmente descritto nei termini delle sue cinque principali utilizzazioni o «funzioni»: come medicina, come spezia-condimento, come materiale da decorazione, come dolcificante e come conservante. Separare questi usi gli uni dagli altri è però spesso difficile. Lo zucchero usato come spezia o condimento differisce per esempio da quello usato come dolcificante soprattutto nei termini delle quantità usate, in relazione ad altri ingredienti. Le diverse utilizzazioni poi non si svilupparono secondo una sequenza o un ordine progressivo, ma si sovrapposero e si incrociarono; la capacità dello zucchero di assolvere piú funzioni allo stesso tempo è infatti considerata una delle sue piú straordinarie virtú. Solo dopo aver considerato come questi usi si siano moltiplicati e si siano differenziati, diventando infine un elemento costante della vita moderna, sarebbe appropriat...