1. Si tratta dei dotti davanti ai quali Pico doveva discutere le sue 900 tesi. La disputa, come noto, non ebbe mai luogo, causa l’intervento di papa Innocenzo VIII e della commissione da lui nominata, che valutò dapprima tredici conclusioni inaccettabili e in odore di eresia, per poi giungere a condannare tutte le tesi; per un dettagliato resoconto in merito, vedi P. E. Fornaciari, Introduzione, in Apologia, pp. XIV sgg.
2. Rimane ancora incerta l’identità di questa figura. Diverse le ipotesi. La piú recente, avanzata da Brian Copenhaver (Magic and the Dignity of Man, p. 574, nota 33), suggerisce il nome di Abū al-Wafā’ al-Mubaššir Ibn Fātik (XI secolo), autore di un Liber philosophorum moralium antiquorum, raccolta di sentenze morali attribuite a sapienti antichi tradotta in latino negli ultimi decenni del XIII secolo, dove compare, nella sezione dedicata ai detti di Mercurio Trismegisto, un riferimento alla grandezza dell’uomo. Suggestive indicazioni relative a diverse «fonti musulmane dell’età di mezzo» che presentano un’antropologia «per certi versi affine a quella pichiana» si trovano in G. Busi, Introduzione, in Busi - Ebgi, Pico della Mirandola, p. XXVIII, nota 51. Per altre congetture, vedi Bori, Tre giardini, pp. 560-64; Bausi, Discorso, pp. 2-3, nota 1; Piemontese, Pico, Moncada e Abdala, pp. 134-36. In proposito, sarà opportuno osservare come nella prima redazione dell’Oratio (Pal. 885) «Abdala» venga definito «profeta». Infine, lo stesso Pico, in una delle sue Conclusiones, ricorda un altrettanto misterioso «Abdala» (probabilmente lo stesso personaggio), il quale avrebbe sostenuto che «vedere sogni è segno di fortezza dell’immaginazione», cfr. Conclusiones, p. 304 [21.6].
3. Come ha indicato Busi (Introduzione, in Busi - Ebgi, Pico della Mirandola, pp. XXVII-XXVIII), si tratta di una traduzione quasi letterale della celebre frase dell’Antigone di Sofocle: «Molte sono le cose tremende, ma nulla vi è di piú tremendo dell’uomo». Pico sembra qui far riverberare l’eco di una sentenza tragica nella voce di un «profeta saraceno», straniante esempio della concordia dei saperi sognata dal giovane Conte. Questa sentenza non si trova nella redazione contenuta nel ms Pal. 885.
5. Locuzioni che ricordano definizioni dell’anima proposte da Marsilio Ficino, l’altro grande filosofo della cerchia laurenziana, cfr. Theologia Platonica, III, 2 (per altri riferimenti, vedi Bausi, Discorso, p. 4, nota 3).
6. Il termine hymeneus (gr. ymen) è parte del lessico tecnico degli Oracoli caldaici, opera che Pico attribuiva, sulla scorta di Ficino, a Zoroastro (Bausi, Discorso, p. 4, nota 3).
8. L’immagine di un Dio che edifica il cosmo al modo di un architetto, evocata in diversi passi biblici, conosce ampia fortuna nel corso della successiva tradizione ebraica. Nella letteratura rabbinica, ad esempio, frequenti sono le «similitudini architettoniche per descrivere l’operato del Signore»; per diversi riferimenti in merito, vedi Busi, Simboli, p. 36, nota 92. Di particolare interesse sono poi alcuni passi del De opificio mundi di Filone di Alessandria (tra il 20 a. e. v. e il 50 e. v.), in cui compare, per la prima volta, un Dio-architetto, frutto di una commistione tra aspetti del demiurgo platonico e tratti del divino propri della tradizione giudaica, cfr. Busi, Qabbalah visiva, p. 19; su questo tema vedi anche De Luca, Il Dio architetto. Per altre occorrenze di tale figura in fonti a disposizione di Pico, cfr. Busi - Ebgi, Pico della Mirandola, pp. 342-44. Infine, questa immagine torna in un altro passo pichiano di grande rilievo filosofico, vedi Commento, pp. 467-68 [I, 6]: «Per dichiarazione di quello che seguita è da sapere che ogni causa che con arte o con intelletto opera qualche effetto, ha prima in sé la forma di quella cosa che vuole produrre, come uno architetto ha in sé e nella mente sua la forma dello edifizio che vuole fabbricare, e riguardando a quella come a esempio, ad imitazione sua produce e compone l’opera sua. Questa tale forma chiamano e’ Platonici Idea e essemplare e vogliono che la forma dello edificio, che ha l’artefice nella mente sua, abbia essere piú perfetto e piú vero che l’edificio poi da colui produtto nella materia conveniente, cioè o di pietre o di legni o altre cose simili. […] Dicono adunque e’ Platonici che benché Dio producessi una sola creatura, nondimeno produsse ogni cosa, perché in quella mente produsse le idee e le forme d’ogni cosa».
9. L’immagine della sapienza quale mediatrice dell’opera di edificazione cosmica è di ascendenza biblica, cfr. Prv 3.19: Il Signore con la sapienza fondò la terra e consolidò i cieli con la cognizione; Prv 9.1: La sapienza si è edificata una casa. Una lettura cosmologica di questo versetto si trova già nella letteratura talmudica; vedi bSanhedrin 38a, dove per «casa» a essere inteso è esplicitamente il mondo: «La sapienza si è edificata una casa (Prv 9.1): è l’attributo del Santo, sia Egli benedetto, il quale ha creato il mondo intero con la sapienza», trad. it. in Busi, Simboli, p. 36.
10. Omnigena turba si legge nel testo latino; locuzione che richiama Lucrezio, De rerum natura, I, 1025; V, 428, dove il grande poeta ricorre a un’espressione analoga, omnigeni coetus, per indicare il caotico movimento degli atomi alla base della formazione dell’universo.
12. Cfr. Timeo di Locri, De natura mundi et animae, 43-44 [99d].
13. Si trovano qui chiare allusioni al mito sull’origine dei viventi narrato da Platone nel Protagora (320d-321c). Come noto, il racconto vuole che Epimeteo, assuntasi la responsabilità di assegnare le varie facoltà all’uomo e agli animali, al termine del suo lavoro, rimasta solo la razza degli uomini da attrezzare, si fosse accorto di aver esaurito ogni dono. Fu allora che Prometeo, per rimediare all’errore del fratello, decise di rubare a Efesto e ad Atena la sapienza tecnica e il fuoco per offrirli all’uomo, il quale divenne cosí «partecipe di sorte divina». Le analogie con questo mito non devono far passare in secondo piano le differenze; tra le quali il fatto che, per Pico, l’uomo sia stato creato per volontà divina, al fine di contemplare la bellezza del cosmo e quale creatura estranea rispetto agli altri «viventi» che abitano il tempio cosmico, là dove in Platone la nascita dell’uomo è «segnata dal destino», non avviene a uno scopo determinato, ed è comune in qualche modo a quella degli altri animali (dato che anche lui, come tutti gli altri viventi, è plasmato all’interno della terra). Il confronto tra queste due visioni meriterebbe però uno studio approfondito. Opportuno infine ricordare come Corazzol, Le fonti “caldaiche”, pp. 49 sgg., abbia individuato nella concezione di un Dio che, senza piú archetipi, «avrebbe creato l’uomo come epitome di tutti gli archetipi utilizzati per mettere in atto il resto del creato», un possibile richiamo al commento alla Torah del cabbalista italiano Menaḥem Recanati – in particolare a quei passi in cui Recanati afferma che «il mondo sefirotico contiene in potenza ogni cosa creata», e che «ogni singola sefirah contiene in potenza e, tramite il proprio influsso, conduce all’essere e sostenta tutte le creature a cui sovrintende – angelo, pianeta, animale o essere inanimato che sia». L’opera di Recanati era nota a Pico nella traduzione latina di Flavio Mitridate (su Mitridate vedi infra, nota 33). Il manoscritto contenente questa versione è andato perduto, ma dobbiamo alle indagini di Franco Bacchelli il ritrovamento di un ampio frammento di tale scritto, sopravvissuto in una copia approntata da Pierleone da Spoleto, ora pubblicato in Campanini, Un frammento, pp. 242-307.
14. L’immagine di un Dio che non può divenire effetus (stanco), ossia di un «Dio infaticabile» (concetto di ascendenza ermetica, cfr. Corpus hermeticum, XVIII, 1), pare essere posta da Pico in contrasto con l’idea lucreziana dell’effeta tellus (De rerum natura, II, 1150), ossia di quella terra un tempo capace di generare dal suo grembo ogni specie, ma che si ritrova dopo tanto sforzo ormai esausta e come sterile; cfr. Bausi, Discorso, pp. 8-9, nota 16.