Salire in montagna
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Salire in montagna

Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Salire in montagna

Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale

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Perché investire denaro ed energie nella ristrutturazione di una vecchia e scomoda baita nel cuore delle Alpi Cozie? Questo è il racconto di una migrazione verticale, con i suoi successi e i suoi ostacoli, per fuggire il riscaldamento globale che rende sempre piú roventi le estati nelle città. Le montagne, con la loro frescura, sono a due passi e offrono nuove possibilità di essere riabitate; e ciò attraverso il recupero di borgate abbandonate con tecniche di bioedilizia rispettose del paesaggio ma all'altezza delle necessità di agio e di connettività per poterci vivere e lavorare. Per salvarci dall'emergenza climatica e ridare spazio alla contemplazione di ciò che resta della natura. Mercalli affronta, con questo libro molto personale, il tema del riscaldamento climatico attraverso una narrazione in prima persona che racconta la propria esperienza del «salire in montagna»: il tentativo di persuadere della necessità di un cambiamento della nostra esistenza, attraverso una vicenda esemplare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858434505
Categoria
Ecologia

Salire in montagna

Dedicato ai montanari per scelta
Venerdí 17 marzo 2017
Chissà se a Luigi Francesco Des Ambrois de Névache sarebbe piaciuto il liceo che gli hanno intitolato a Oulx, suo paese natale nel cuore delle Alpi Cozie? Il nobile politico ottocentesco, ministro dei Lavori pubblici del Regno di Sardegna e poi presidente del Senato del giovane Regno d’Italia, era nato nel 1807 in un austero palazzo di questo borgo alpino, poco appariscente all’esterno e di sobrio decoro negli appartamenti interni. Forse per il nuovo liceo avrebbe preferito una certa continuità dell’architettura montana invece che uno strano edificio composto da una quarantina di aule circolari unite da corridoi: visto dall’alto sembra piú un deposito di carburanti, tanti cilindri grigio metallico con il tetto piano, non molto adatti alla neve invernale. L’hanno inaugurato nel 2009 i politici venuti da Torino cercando di far digerire la strana forma poco montana e molto urbana come frutto dell’innovazione che sempre – secondo loro – dovrebbe scardinare vecchi modelli per lasciare un’impronta del presente che avanza. Sarà pure cosí, ma quando lo raggiungo in mattinata, visto da fuori mi appare un po’ come un meteorite piombato lí da un altro pianeta. Comunque è bello che esista questo liceo di montagna, quasi l’equivalente del Lycée d’Altitude che dal 1911 fa scuola nella vicina Briançon. Dunque entro, e trovo un ambiente piú accogliente delle mie attese, luminoso e giovane. Accompagnato da Paolo De Marchis, professore genovese di matematica e fisica dal quale sono stato invitato a tenere lezione – la lezione del caldo –, entro in auditorium e installo la mia presentazione sul computer. Suona la campanella. «Ragazzi – comincio – il riscaldamento globale sta cambiando il paesaggio delle nostre montagne. I ghiacciai si ritirano come mai hanno fatto in almeno cinquemila anni, la neve dura meno, animali e piante migrano sempre piú in quota per trovare il fresco mentre quelli della pianura risalgono conquistando nuovi territori. Qualcuna tra queste specie, arrivata in vetta si estinguerà, perché non può salire oltre. E il futuro, se non facciamo nulla per ridurre le emissioni fossili, sarà sempre piú caldo, avremo un aumento fino a sei gradi in piú a fine secolo, che è come portare il clima della costa ligure a Oulx. Siete fortunati ad abitare in montagna. Presto l’estate nelle grandi città diventerà invivibile ma qui si potrà ancora stare bene e si creeranno nuove opportunità professionali e di vita. Questa montagna però bisogna studiarla, comprenderla e difenderla, perché è fragile». Mah, avranno capito? O non penseranno anche loro di scendere a valle, di emigrare appena possibile a Milano o a Parigi per lasciare quelle rocce, quei boschi di provincia, per andare a immergersi nel traffico e nelle luci delle città, contribuendo anch’essi all’accelerazione della crisi climatica? Non si può sapere, come per mille altre lezioni si getta un seme. È passato mezzogiorno, esco da queste moderne aule cilindriche e vengo investito da una folata calda, troppo calda per la stagione: quasi ventuno gradi, nove oltre la media. Soffia un debole föhn, l’isoterma zero è a oltre 2800 metri, i prati sono spogli, non c’è traccia di neve.
Avevo barattato la lezione con un breve soggiorno al Rifugio La Chardousë, di cui mi avevano parlato bene, ai 1650 metri della borgata Vazon, proprio qui, sul versante sopra il liceo. Io e mia moglie Sofia ci incamminiamo dunque nel pomeriggio dal sentiero che parte dalla borgata Amazas, quota 1180 metri. Strano nome, del quale si danno le interpretazioni piú varie, forse di origine romana – Amalego – o saracena. C’è ancora sole e l’aria è tiepida e asciutta, però i prati rinsecchiti, giallastri, polverosi comunicano un po’ di desolazione. Verso le 17 raggiungiamo la chiesetta di San Barnaba, isolata su un poggio con meravigliosa vista verso est e verso ovest. Da lí in pochi passi siamo alla frazione Soubras, adagiata a poco meno di 1500 metri su un ampio ripiano di prati, belle case alpine di pietra e legno purtroppo in gran parte cadenti e abbandonate. È tutto deserto, silenzioso, tranne il gorgoglio dell’antica fontana di pietra. Sembra una borgata fantasma, mi ricorda subito la Ainielle pirenaica nella Pioggia gialla di Llamazares. Indugiamo tra quelle case che trasudano passato e imbocchiamo il sentiero sassoso tra i larici. La luce cala, il sole è ormai tramontato dietro la possente piramide dello Chaberton e si spande una luce tenue, ombrosa, ma non fa freddo. Dopo qualche tornante il sentiero sbuca su un altro pianoro del versante dell’Adreyt, cioè l’«indiritto», l’adrit, il solatío. Restano poche chiazze di neve vecchia e la maggior parte del suolo è grigio e polveroso, tra campi arati pronti per le patate e radi larici. Questo sentiero di mezza costa ci appare gradevole e si dirige a oriente su una balconata al cui termine intravediamo le venti case di Vazon, mascherate dall’intreccio di rami spogli di un filare di aceri montani. Attraversiamo un minuscolo ruscello ed eccoci tra grandi baite, una fontana di pietra datata 1857 coperta da un’invitante tettoia di legno con panchine, una cappella del 1710 e poi, poco appariscente nello stradello che conduce alla parte alta della borgata, l’ingresso illuminato del rifugio. Non ci facciamo caso ma lei è già lí che ci osserva salire. Chissà, forse attendeva da anni, forse non è altro che un caso, ma in quella penombra di una sera di marzo la grande casa di pietra spande su di noi un’aura impalpabile. Il rifugio è a nostra completa disposizione, ci accolgono Claudio e Valentina, che – giunti una dozzina d’anni prima dalla collina torinese – hanno deciso di ristrutturare una delle vecchie case di Vazon e di aprire un posto tappa con ristorante. La chardousë è lo spinoso cardo segnatempo, la Carlina acaulis abbondante su questi pendii, pianta officinale e tradizionalmente appesa alle pareti delle case e sulle porte per scacciare malocchio e malanni. All’interno del rifugio: pietra, legno, fuoco acceso, ambiente accogliente dove gustiamo la soupe grasse, piatto povero di queste montagne a base di pane, brodo e formaggio, gratinato al forno. C’è una grande stellata e usciamo fuori a osservarla dai tavoli esterni che sono proprio di fronte all’ampia facciata di quella casa buia e silenziosa.
Sabato 18 marzo 2017
Scendiamo svelti mentre soffia il föhn e il cielo si è coperto di strati grigi e opachi. Un’occhiata al muro della casa antistante il rifugio rivela la data di costruzione scalpellata su una pietra che non avevamo osservato la sera prima: 1732 WATC. Cosa vorrà dire? La W si trova su tutte le vecchie case del circondario, significa probabilmente vivat, «evviva», un augurio, un buon auspicio per l’edificio e i suoi abitanti. Le altre lettere sono forse le iniziali dei fondatori. Giriamo la schiena a queste pietre vetuste e scendiamo. In bassa valle già fioriscono ciliegi, peschi e albicocchi, e nel nostro orto i piselli sono nati. A fine mese, che sarà uno dei marzo piú caldi della storia, il paesaggio di pianura e bassa montagna già comincia a verdeggiare, il 9 aprile seminiamo le patate e il 10 aprile sentiamo per la prima volta della stagione il verso del cuculo.
Sabato 15 aprile 2017
A Claviere, per recupero del fondo di documenti su clima e valanghe appartenuto a Filippo Todaro, partigiano, deportato in Germania, studioso di nivologia: la neve fonde rapida nel lariceto, soldanelle in fioritura, primavera che avanza. Riempiamo un’auto di libri, carte, registri e cimeli nivologici destinati alla biblioteca dell’Osservatorio meteorologico di Moncalieri, e passiamo distrattamente nel fondovalle sotto Vazon, senza pensare alla visita di un mese prima.
Mercoledí 3 maggio 2017
Darfo Boario Terme, in Val Camonica. Partecipo al festival OltreConfine. Dopo la conferenza, al bar si parla di natura e di Rigoni Stern. Il giornalista Massimo Tedeschi mi segnala che nel non lontano Vestone, paese di cui Rigoni Stern è cittadino onorario, è custodito nella Biblioteca Ugo Vaglia un inedito dello scrittore dal titolo La Natura nei miei libri. Mi crea un contatto con la biblioteca che mi manderà con squisita disponibilità la riproduzione di dieci cartelle dattiloscritte contenenti il tema discusso da Rigoni nella conferenza vestonese del 16 settembre 1989, derivante da un suo precedente intervento del 1988 all’Istituto Italiano di Cultura di Amsterdam. Questo inatteso ritrovamento su un tema oggi cosí attuale sarà oggetto di una mia presentazione ad Asiago nel novembre successivo, ma pure occasione per riallacciare antichi ricordi con l’Alta Valle di Susa.
Venerdí 16 giugno 2017
Saliamo alla cappella della Madonna del Cotolivier per effettuare un breve filmato televisivo sui rischi dell’esposizione della pelle al sole. Gran sereno, cielo limpido e luminoso. I prati fioriti e i larici verdeggianti fanno trionfare l’estate alpina. La casa è sempre lí, la sfioriamo, la ignoriamo, non sappiamo che ci chiamerà tra poco.
Nostra Signora della Luce.
Lo sperone montuoso che dalla Punta Clotesse si stende con morbide forme coperte di pascoli e lariceti verso oriente a separare la Dora di Bardonecchia dalla Dora Riparia termina con un modesto vertice a 2105 metri: il monte Cotolivier. Qui domina un piccolo edificio in muratura, sulla cui facciata vi è questa targa a smalto: «Storia della cappella sulla punta Madonna di Cotolivier. Nel sito dove fu edificata questa Cappella esisteva un antico oratorio dedicato a Notre Dame de Lumière e la sua costruzione avvenuta verso il 1650 fu motivata dal fatto seguente: verso quell’epoca fecero ritorno dalla Francia due viaggiatori del Vazons; passando per i piccoli sentieri delle vicine montagne furono sorpresi nella notte da una spaventosa tempesta, sí che si smarrirono fra le rocce. In sí grave pericolo, nuovamente in ginocchio implorarono l’aiuto della Beata Vergine affinché ritrovassero la via. Raccontano i viaggiatori che, subito, si trovarono avvolti da un certo chiarore che, precedendoli, li guidò sino a questo sito, salvandoli cosí da certa morte; perciò, in questo stesso punto, edificarono un oratorio, dedicato alla Madonna della Luce. Questo è il fatto raccontato da uno dei discendenti dei suddetti viaggiatori al sottoscritto che, in buona fede, lo trasmette ai posteri. Pierremenaud, li 20.03.1903, Barbier Joseph (la festa di Notre Dame de Lumière viene celebrata ogni anno la domenica piú vicina al 20 giugno)». Con tempo sereno il panorama è vastissimo e luminoso, non avendo vette vicine che ombreggino la vista, ma non si fa fatica a credere che durante una tormenta anche questi ameni territori si possano trasformare in una minaccia per la vita, quando tutto è bianco, cielo, nebbia, neve e suolo e il gelo morde volto, mani e piedi. Cosa voglia poi dire Cotolivier è difficile spiegarlo. Sui cartari della prevostura di Oulx è indicato un monte Capatenicus ma non si sa se sia quello… poi diventò Cotorovie, Cote Orovie, Catalovié… Mah, misteri della toponomastica, ce ne sono tanti qui attorno.
Giovedí 20 luglio 2017
Dal rifugio di Vazon ci telefonano: «Mettono in vendita la casa a fianco a noi, vi interessa? Ci sembrava che vi piacesse il luogo e abbiamo pensato di dirvelo». Perché no? Saliamo per un incontro con i proprietari francesi, Danielle e Jean-François, la casa era di Jacqueline, sorella di Danielle, di famiglia originaria di queste contrade. Prima visita dell’interno, fa sempre curiosità sbirciare in case altrui. Le parole sono poco efficaci per descrivere una planimetria, ma trasmettono impressioni non misurabili in metri quadri, come nella minuziosa descrizione della rancida pensione parigina della vedova Vauquer che occupa le prime cinque pagine di Papà Goriot. Entriamo dunque dal portone di legno sulla stradina, all’interno è molto buio, gli occhi fanno fatica ad abituarsi. La prima sensazione che ricevono è quella di trovarsi dentro un paesino in miniatura, tra le quinte di un presepio: scalette in pietra, soppalchi e assiti sconnessi, una sorta di vicoletto curvo che mette sotto un arco, vecchie porte e cianfrusaglie, cantine scure e muffose. Percorriamo nell’oscurità il passaggio interno di terra battuta, entriamo nella cucina con volta a botte affumicata dall’antico focolare ora sostituito da una grossa stufa di ghisa smaltata di bianco con la scritta FEU CONTINU; bella la piattaia di legno murata nella parete interna, a destra una credenza anni Trenta con stoviglie sbeccate, al centro un grosso tavolo traballante coperto da una tovaglia cerata. Al primo piano, cui si giunge con una scala irregolare di pietra, ecco un’autentica camera da letto pastorale, con i muri a calce e il bell’armadio settecentesco di larice, una piccola stufa in ghisa con le zampine cosí corte che sembra una pentola panciuta appoggiata sul pavimento. Altre stanze, alle quali si accede da una ripida rampa, sono state invece parzialmente modificate negli anni Settanta con pavimento in brutte piastrelle e muri divisori di mattoni, sono zeppe di mobili di bassa qualità, reti di letto e materassi coperti da teli di polietilene impolverati, vecchi attrezzi mischiati a oggettacci di plastica, si capisce subito che questa parte si potrà demolire e rifare completamente. In un angolo una grande slitta da trasporto persone dipinta di blu. Fantastica! Da restaurare come pezzo da museo. In una camera la grande madia per il grano e la pasta, in un’altra l’enorme arca per la conservazione delle patate scavata in un unico tronco: la apriamo, è piena di vasetti di vetro di recupero. Sopra di noi ancora travature, legname, fieno, reti di letto, ciarpame di ogni genere e infine un gran tetto di lamiera ondulata arrugginita pieno di spifferi, ovviamente da rifare. Ma ci vuole sempre un dettaglio che catalizzi l’attenzione del nostro cervello, che faccia la differenza tra una percezione neutra e una passione irresistibile. Lo troviamo nella stalla, seminascosto da un enorme cumulo di legna da ardere, fascine, scatoloni, sacchetti di plastica, corde, attrezzi agricoli. Alla fioca luce di una lampadina da quaranta watt appesa alla volta a crociera, quel dettaglio è il pilastro centrale che regge la casa. Una colonna rotonda in pietra con capitello datato 1905. È un tocco di nobiltà che rende questo edificio rurale unico e gli conferisce una sua personalità. Da quel capitello irradia un fluido ammaliatore che sembra sussurrarci: dài, firmate subito l’atto di vendita e venite ad abitare qui! La colonna ci prende per incantamento. Comunque per ora scattiamo una raffica di fotografie per ragionarci su, e chiediamo il prezzo: né troppo caro, né troppo poco, comprensivo di sei ettari di terreni, frammentati purtroppo in oltre cinquanta particelle catastali. Le imposte si richiudono facendo ripiombare nelle tenebre quei locali, ci scambiamo email e telefoni e torniamo a valle. In macchina iniziano i ragionamenti. Che fare? Bella è bella, certo, per ora è un gran mucchio-di-pietre che bisognerà trasformare in un guscio-di-legno. Ci vorranno soldi, tempo e pazienza. Sí? No? Non lo so, pensiamoci…
Sabato 29 luglio 2017
Dopo una settimana di valutazioni, di consultazione di planimetrie e di varie fantasticherie, torniamo a Vazon per dare un’occhiata piú approfondita ai dintorni. Nel pomeriggio scoppia un temporale intenso e scendiamo in auto per il bosco verso Château Beaulard dove devo tenere una conferenza sul futuro dell’agricoltura di montagna. Ci becchiamo una bella grandinata e ci ripariamo sotto il portico della chiesa di San Bartolomeo, dove si terrà l’incontro. Teorizzo che la montagna oggi trascurata e spopolata verrà riabitata sotto l’incalzare del riscaldamento globale e segretamente penso che sarò il primo a fare questa scelta.
Sabato 5 agosto 2017
Ollomont, Valpelline. Siamo a Casa Farinet, a duemila metri, nella conca di By. Ogni tanto capitiamo qui da Daniela Fornaciarini, giornalista della Radiotelevisione svizzera italiana, erede di questa isolata e nobile casa alpina che ospitò Luigi Einaudi come da targa di bronzo posta in facciata: «Nella maestà, nella pace di questi luoghi, cari per memorie storiche e favolose, tra fidi e ospitali amici Luigi Einaudi amò trascorrere numerose estati semplice nel costume grande nel pensiero e negli atti, amoroso della sua Italia nella diversa fortuna». Qui fuori, tra vasti pascoli verdeggianti, riflettiamo sulla scelta di comprare Maison Vallory-Durand a Vazon: Daniela, grande esperta di conduzione di questi immobili d’alta quota ci illustra le difficoltà e i pregi. Alla fine anche questa giornata peserà sulle nostre scelte.
Venerdí 11 agosto 2017
Rientrando da Bardonecchia facciamo un detour a Vazon: la strada del Cotolivier ci diventa sempre piú familiare. Costruita nel 1939 dal Genio militare del Regio esercito italiano ha pendenza regolare perché fu progettata per il transito delle camionette destinate a trasportare materiali ai centri di fuoco del Vallo Alpino – Guardia alla frontiera del Settore di copertura VIII, Caposaldo del Passo di Desertes. Ha inizio dagli ultimi villini turistici di Oulx e penetra nel bosco misto di pini e larici. Oggi asfaltata, compie un paio di ampi tornanti per prender quota fino alla frazione di Pierremenaud, a 1442 metri, poi si apre su alcuni pascoli con gran vista sull’Alta Valle di Susa, Oulx, il vasto alveo ghiaioso della Dora Riparia, il casello autostradale di Salbertrand e in fondo la piramide del Rocciamelone. Poi piega a nord verso le alte antenne per telecomunicazioni di Serre Grassin, fortunatamente immerse tra la vegetazione e non troppo impattanti: d’altra parte se vogliamo essere connessi con la rete dobbiamo dir grazie a loro. La strada curva dietro un costone e passa sotto un meraviglioso lariceto di fusti dritti come candele, alti almeno una trentina di metri, attraversa una radura con un paio di tavoli di legno, luogo suggestivo ma talora assaltato da gitanti estivi, prosegue nuovamente tra larici e abeti e improvvisamente emerge sul versante esposto a sud, dove il bosco fresco e umido cede il posto ai pascoli, ai seminativi e alle praterie aride. La vista si apre prima sul Fraiteve, la cima di 2702 metri vertice delle piste da sci di San Sicario e dall’altro versante di quelle di Sestriere, poi spazia nell’ampia conca di Cesana, con i Monti della Luna al confine con la Francia, una distesa di morbidi pendii erbosi che nulla hanno a che fare con i Monti della Luna africani dove gli antichi immaginarono le sorgenti del Nilo. Si vedono ora le case di Vazon, nella conca sotto la vetta del mansueto monte Cotolivier. La strada ex militare che ha sostituito l’antica mulattiera porta le macchine e le moto in quota, fino ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Proemio
  4. Salire in montagna
  5. Ringraziamenti.
  6. Riferimenti bibliografici
  7. Appendice
  8. CARTA DI VAZON PER IL RECUPERO DELLE BORGATE ALPINE
  9. MANIFESTO DI CAMALDOLI PER UNA NUOVA CENTRALITÀ DELLA MONTAGNA
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright