Società: per azioni
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Società: per azioni

  1. 136 pagine
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Società: per azioni

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Beppe Sala presenta qui un testo terso di cultura e proposta politica. Interpretando i temi che caratterizzano un'autentica visione globale, propone la struttura di una nuova forma per il socialismo del XXI secolo e affronta i nodi storici che determinano la vicenda internazionale e italiana. Bisogna ragionare su una diversa idea della politica, del governo, del mondo, degli affetti e delle azioni necessarie per pensare a una società piú equa. Sala, da sindaco di una città nevralgica come Milano e da politico che crede nella missione civile e politica della sinistra, insiste sulla necessità di una connessione tra le grandi città mondiali, nella prospettiva di una utopia concreta: una comune società per azioni, basata sulle risorse infinite delle persone che vi partecipano. Non la Città-Stato, ma la Città-Mondo è il perno di un mutamento di prospettiva. Essa rappresenta in sé il mondo: chiunque vi è incluso, chiunque ha diritto di cittadinanza, purché intenda e dunque abbia la possibilità di inserirsi nella logica attiva del benessere comune.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433850
Capitolo sesto

Socialismo?

Credo nella rigenerazione.
La sera del 30 aprile 1993 assistemmo a un cambiamento d’epoca.
Fu il momento in cui perdemmo un’antica parola: socialismo. A prescindere da ciò che questo vasto termine aveva significato nella storia e nel mondo, noi italiani decidemmo di perderlo. Pensammo davanti alla televisione di aprire gli occhi per vedere ciò di cui eravamo convinti da decenni e che, nell’ultimo in particolare, ci aveva inebriato in una sensazione di prosperità più facile, nella quale avvertivamo però il danno, la degenerazione del nostro vivere civile, una corruzione generalizzata. Volevamo assistere al cambio d’epoca, ma forse solo assistervi, non intendevamo guidarlo. Eravamo spettatori. Partecipi, ma spettatori. Forse vedevamo confusamente. Avevamo vissuto davanti allo schermo il crollo del Muro di Berlino, quattro anni prima. Il mondo noto a noi da tre generazioni si rovesciava. Gli Stati Uniti in guerra nel Golfo, una guerra Usa tanto tempo dopo il Vietnam, la minaccia di un nuovo ordine mondiale. L’Europa che aveva deciso di abbandonare le divise monetarie per garantirsi uno spazio economico sotto un’unica moneta, senza discutere a fondo di cosa essa stessa fosse. E, in Italia, le inchieste, l’accertamento dei fatti, il crollo degli intoccabili, finalmente i politici che sfiorano e toccano il carcere. E le bombe, l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la nazione sotto choc, alla televisione l’autostrada a Capaci divelta, le ceneri e il fumo nero in via D’Amelio.
Fu allora che vidi la gente. Quando un popolo diviene gente? Il «popolo» era stata un’etichetta appiccicata sulle scelleratezze del decennio di piombo, in cui, in nome del «popolo», si era abbattuta la concordia nazionale, si era vissuta una stagione di sangue. E poi, il decennio successivo, dinamico e spettacolare, dimenticare la cupezza e avventurarsi alla scoperta della modernizzazione, l’industria, la finanza, l’abbattimento dell’inflazione, la musica elettronica e il videoregistratore, l’ascesa del ceto medio produttivo, l’emittenza privata e una ricchezza fondata su un debito pubblico al picco. Un decennio, gli anni Ottanta del secolo scorso, che in Italia trasformava il piombo in oro – un oro forse falso. Era incontestabilmente il decennio socialista.
E quella sera di fine aprile, a Roma, alla televisione, centinaia di persone a lanciare monete, le lire, la divisa del vecchio corso, che si sollevavano nell’aria per andare a colpire all’ingresso dell’hotel Raphaël l’emblema del decennio che tanto aveva reso orgogliosa l’Italia, l’uomo della modernizzazione che, non incidentalmente, era socialista.
Quella era la gente. Al di qua dello schermo, lo eravamo tutti: la gente.
I fischi facevano vibrare il televisore. Al tramonto di Roma e della Repubblica, il leader socialista incominciava a morire, come aveva incominciato a morire il suo socialismo giocato sulle cifre: il Pil in crescita, l’abbassamento dell’inflazione, la reputazione italiana fondata sulla ricchezza materiale del Paese. I soldi lo colpivano e colpivano chi cercava di proteggerlo per farlo salire sull’auto di ordinanza.
Il leader socialista si infila rapido nell’auto, scompare alla vista.
Non è semplice – e forse non lo sarà mai – valutare storicamente quel momento e quell’uomo, riconoscerne le ragioni, investigarne le cause e condannare eventualmente gli effetti. Che si tratti di una stagione non ancora chiusa è sempre più evidente. Oggi si fatica addirittura a definire il luogo e le modalità per un dibattito pubblico. L’Italia, che produce con naturalezza la storia in forma di complessità, sembra incapace di accettarla, ama più crearla che sentirla sua.
Quella sera in cui la miriade delle cento lire crepitava nell’aria dolce a Roma in televisione, tutti noi, la gente, riponemmo nelle stanze della nostra vergogna il termine socialismo in Italia. Il socialismo divenne una forma di inutilizzabilità tutta italiana.
«Questa parola, socialismo, è compromessa dalla sua storia. Il capitolo italiano è soltanto uno dei tanti, forse il più locale, di una vicenda fatta di incomprensioni, di slittamenti dei significati, di contraddizioni messe in atto. Il socialismo è stato tutto. Un sinonimo del comunismo, per l’intero Ottocento. Il rigetto di Lenin. L’incipit del nazional-socialista Hitler. Le socialdemocrazie perennemente in crisi. Dal socialismo di Cristo al socialismo di Craxi. Non c’è più spazio per rigenerare una parola che ha voluto significare un’infinità di progetti per la società, ovunque, e spesso antitetici, da Saint-Simon a Marx, da Bakunin a Rosselli, da Turati a Olof Palme. A quante vittime dovrebbe chiedere perdono questa parola così usurata e complice? A pronunciarla dovremmo farci carico di una storia che non è fulgida e che ce la rende impronunciabile per i suoi esiti disastrosi. Viviamo tempi nuovissimi, abbiamo necessità di parole nuovissime, non ne troviamo all’altezza». Così dice una voce grave.
Un’altra risponde, più acuta: «Socialismo significa tutto, perché è una sfida alla storia. Di per sé, il termine è vuoto, il quadro è indefinito, ne è nota soltanto la cornice: è la lotta per il progresso della società e per la sconfitta delle diseguaglianze. Ciò vuole dire tutto, appunto, e anche niente. La forza di questa parola, e dell’idea che essa rappresenta, è l’indeterminatezza. Il socialismo si determina a seconda dei tempi e delle intenzioni. La parola comunismo non sopravvive alla tragedia della sua storia, almeno per ora. Il verbo socialista procede invece inalterato, supera l’immondo accostamento con il nazionalismo, è capace di affrancarsi dal nazismo, dalla guerra rispetto alla quale era stato interventista. La parola sinistra è, perlomeno, irrimediabilmente danneggiata o, se anche non lo fosse, mi pare insufficiente ormai. Il socialismo è più della sinistra, non perché la superi in estensione, andando a destra o premendo maggiormente verso sinistra, bensì perché la oltrepassa in altezza e profondità. Il socialismo è il cielo e la terra della sinistra. Esso valica i rapporti con il potere. È un ideale, è una parola-ideale. Ci sono rare parole, nella lingua internazionale, a dimostrare una simile resistenza all’usura. Vivifichiamo questo termine, diamo un più alto e vasto contenuto a quell’idea. Sarà il nostro socialismo, quello da propugnare in un’epoca planetaria e tecnologica, che non dispone ancora di un vocabolario definito. Reinventiamo».
Così dicono le due voci che contendono l’una all’altra le spoglie di questa antica parola.
Le loro ragioni sono comprensibili, ma i limiti sono evidenti. E però una risposta non c’è, ma una risposta serve. Ci serve. Crediamo ancora nella possibilità di attivare le risorse delle persone, dei popoli, delle genti, per comporre una società che metta al bando le diseguaglianze? Per portare avanti chi è nato indietro? Si chiama socialismo, questo?

Sinistra.

La storia della sinistra non è la storia di un fenomeno omogeneo.
Soprattutto, da decenni (ma forse è una tentazione che fa parte della natura stessa del fenomeno), la storia della sinistra coincide con la vicenda della domanda su cosa essa sia. È un tormentone a cui non ci si è sufficientemente abituati. Perché la grande domanda sulla sinistra non riesce a contenere e tantomeno a nascondere l’immensa quantità delle domande poste alla sinistra. Questo romanzo della delusione, che è la storia della sinistra almeno in Italia, ha una perfetta definizione nell’amarezza con cui un meraviglioso scrittore italiano ci regalava un aforisma, doloroso e preciso: «nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere»8.
Il potere, la sua presa e l’esercizio del medesimo sembrano essere il punto critico, il momento dell’estinzione del principio vitale della sinistra. C’è tutta una narrazione, virtuosa e capace di ispirare il cammino dell’umanità, sull’eroismo della sinistra che chiede conto al potere delle trasformazioni del mondo e che, con la potenza della domanda, costringe il potere a concessioni fondamentali. Ma poi, se il potere viene concesso alla sinistra, sembra che all’istante il governo delle cose omologhi la sinistra, la renda una mera funzione del potere medesimo. È come se la sinistra, di fronte alla chance di esercitare il potere per il governo delle cose, mostri tutta la sua debolezza. Mi spiace constatarlo, ma la storia del potere racconta che, se la sinistra vi accede, nessuna rivoluzione si compie, ma si attua una devoluzione, nel corso della quale gli ideali tendono a svanire.
La sinistra è tormentata e tormenta, perché pone continuamente la domanda implicita sulla propria esistenza, sul proprio futuro, sulle proprie modalità di declinarsi in realtà, di adattarsi alle esigenze storiche o di avanzare pretese di riforma o addirittura di rivoluzione. La vocazione della sinistra alla pluralità apre uno spazio vasto alle possibilità di determinarsi nelle forme che va ad assumere via via all’interno delle vicende nazionali e internazionali. È nella natura stessa del progressismo essere continuamente in progresso, ovvero reinventarsi di momento in momento, nelle modalità con cui si può rappresentare la società verso l’acquisizione di diritti, così come procedere in direzione dell’invenzione e del rispetto dei nuovi doveri. Questa natura plurale della sinistra, che sintetizza tante posizioni e compone una moltitudine di pensieri e di emozioni, è stata perfettamente formulata da uno dei massimi teorici del socialismo liberale, Carlo Rosselli, quando nota che è assurdo imporre a un gigantesco moto di masse un’unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale. Ciò non significa che l’unico modo per governare i processi sia di decidere collettivamente, sempre e ovunque, a ogni passo9. La metafora della Società per Azioni indica piuttosto un metodo, ovvero una proposta per governare la realtà, andando a cogliere le sensibilità comuni, comprendendo i bisogni e recependo i desideri, per fornire risposte che siano aperte, non definitive, cioè modificabili in corso d’opera, a seconda di quanto gli azionisti intendono fare con il capitale della Società per Azioni, che è un capitale sociale.
Il confine tra la richiesta di riforme e l’istanza rivoluzionaria sembra da tempo lo spazio in cui la sinistra si gioca la propria identità. Ma è davvero così? Le pulsioni rivoluzionarie hanno bisogno necessariamente della sinistra, per immaginarsi e prendere voce? Si direbbe piuttosto che è il contrario, cioè che la sinistra ha necessità delle pulsioni rivoluzionarie per immaginarsi e prendere voce e conquistare agibilità. Una volta conquistato lo spazio, la sinistra converte sé stessa nella propria normalizzazione, ovvero: la sinistra perde sostanza di sogno, di speranza utopica. Portare i rivoluzionari al potere comporta il prezzo salato di togliere potere alla rivoluzione.
Qualunque rivoluzionario di professione allora sembra più gradevole di ogni governante che rivoluzionario lo fosse stato, prima della presa del potere. Fornire le risposte non è sempre un’azione più risolutiva del porre la domanda. La domanda al potere può essere essa stessa una forma di potere, se ci riflettiamo. Il desiderio dell’umanità di sentirsi viva, di aspirare a una vita intensa, sembra prendere forma in queste azioni: porre domande, esporre bisogni, candidare aspirazioni. A determinare il rifiuto – o l’incapacità – di gestire il potere non è semplicemente una questione di deresponsabilizzazione rispetto al governo. È qualcosa di più fondamentale e, forse, è proprio un fondamentalismo della sinistra, che nel suo codice genetico presenta un tale limite naturale: governare è il discrimine tra la vocazione della sinistra (che consiste in un’invocazione: chiedere e pretendere diritti, non sapendo come darseli efficacemente senza tradirsi) e la sua eventuale normalizzazione.
Bisogna dunque rassegnarsi alla triste prospettiva che, in ogni caso, il governo debba essere l’espressione di una destra più o meno radicale? E il governo è necessariamente uno degli antipodi del sogno? L’utopia deve costituire un vapore, un sapore vago, che si dilegua quando deve divenire solido, cioè governativo? Perché la sinistra, se governa, dovrebbe necessariamente essere qualcosa di meno della sinistra e non qualcosa di più? Esplorare in quale senso potrebbe esistere una dimensione che porta la sinistra a essere qualcosa di più che sé stessa, forse, è un’avventura da intraprendere in un tempo di formule malcerte e disincanto ideologico. Significa formulare le possibilità non dell’utopia sganciata dal reale e nemmeno della concretezza priva dell’ideale o della visione.
Una sinistra che trascenda l’orizzonte e che in un certo senso si faccia verticale, per rimanere in una metafora geometrica, significa formulare la possibilità di ciò che la storia, che non è mai indulgente, tende a rigettare: l’idea, apparentemente scandalosa, di un’utopia concreta, della realizzabilità del sogno, del desiderio. Se l’orizzonte è la realtà e la possibilità di amministrarla, l’elemento differenziale della sinistra può esprimersi come verticale, nei termini di una speranza assoluta, di un ideale altissimo, che è la concordia fra le genti, l’uguaglianza tra chiunque, la legittimazione delle aspirazioni comuni, a cui dare forma di volta in volta.
L’incontro del sogno con la realtà è la discriminante della sinistra.

Una lezione di geometria italiana.

Questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili ha elaborato una proposta, relativamente alla geometria del potere, che nasce secondo uno schema parlamentare: la destra a destra e la sinistra a sinistra e, nel mezzo, il centro. Tutta la storia repubblicana ruota intorno all’interpretazione di questi posti a sedere. L’emiciclo consiste in un compromesso geometrico tra la linea retta e il cerchio. Un paradosso che fa dell’aula parlamentare l’erede del teatro greco, con i suoi spalti a semicerchio e al centro il proscenio con gli attori: la distribuzione nello spazio perché l’acustica fosse migliore e nello spazio si potesse ascoltare meglio la parola. L’aula parlamentare inscena quindi lo spazio in cui pronunciare e ascoltare la parola.
Quando la crisi della democrazia si fa evidente, il suo interprete più acuto, Aldo Moro, denuncia
l’emergenza reale che è nella nostra società. Io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. Credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale. C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà10.
È in queste drammatiche parole, le quali nascono come analisi di un tempo lacerato da spinte rivoluzionarie ed eversive, che viene prefigurato un crollo di tipo diverso: la dissoluzione dei vincoli di solidarietà e la deformazione della libertà che non sa attuarli. Rifiuto del vincolo, deformazione della libertà, rinuncia alla solidarietà: sono parole che, isolate dal contesto storico, sembrano descrivere la parabola discendente del socialismo in Italia, la destrutturazione di un sistema sociale che è cresciuto in cinquant’anni, fino al momento del disfacimento della cosiddetta Prima Repubblica.
A questa spietata analisi, che vede il presente e anticipa il futuro, Aldo Moro aggiungeva, parlando al suo partito, la Democrazia cristiana, indiscutibilmente il centro della politica nazionale: «la nostra flessibilità ha salvato fin qui – più che il nostro potere – la democrazia italiana»11. Cioè, secondo Moro, il centro politico italiano si giocava in una flessibilità che sopravanzava il potere e che era intesa a tutelare la democrazia. Il centro, nella concezione politica italiana, anticipa e attraversa e oltrepassa la questione del potere, perché è una questione di servizio.
L’Italia, dunque, viveva e proponeva al mondo un’interpretazione assai peculiare della contesa politica. Il punto differenziale era proprio il centro. L’antagonismo tra sinistra e destra originava dalle posizioni che assunsero il terzo stato e i filomonarchici a Versailles, negli Stati Generali del maggio 1789: i primi a sinistra e i secondi seduti sulla destra. Il centro si troverebbe schiacciato da sinistra e da destra. Nella proposta repubblicana italiana, e nelle intenzioni di uno degli artefici di quella proposta, ovvero Moro stesso, il centro non risultò affatto il punto mediano in una retta, che ha i propri estremi a sinistra e a destra. Il luogo del moderatismo, della cautela e della lentezza dell’elaborazione politica italiana, bisogna ricordarlo, era un partito di massa, riconosciuto dal popolo tanto quanto dal ceto borghese e dalle spinte più conservatrici della società. Questo centro della politica italiana teneva dentro di sé la sinistra, il centro e la destra. All’interno di quel partito popolare, agivano socialisti e moderati e conservatori e perfino qualcuno che strizzava l’occhio alla destra più radicale. La flessibilità a cui accenna Moro è interna, non è esterna. Il centro deve tenere dentro tutto.
Ecco in cosa risiede il centro-sinistra, il maggior disegno politico democristiano dopo il ’53, nell’analisi del socialista Baget Bozzo: «Fare della Dc una forza di mediazione di tutta la realtà politica e sociale italiana, ivi compresa la sinistra. Moro è il primo a comprendere che l’egemonia democr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Società: per azioni
  4. Prefazione
  5. I. Sono stato, sono, saremo
  6. II. Società per Azioni
  7. III. Economia della malattia
  8. IV. Contro le diseguaglianze
  9. V. Per una sinistra spirituale
  10. VI. Socialismo?
  11. VII. Non siamo più nella cristianità?
  12. VIII. Post-denaro
  13. IX. Pianeta
  14. X. La domanda al potere
  15. Note
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright