Il terzo e ultimo requisito necessario per il libero arbitrio è il controllo causale: le azioni di tutti i detentori di libero arbitrio devono essere causate da stati mentali appropriati – in particolare dalle intenzioni dell’agente che si celano dietro di esse – e non da semplici processi non intenzionali presenti nel cervello e nel corpo dell’agente. Se l’agente non avesse alcun controllo causale sulle sue azioni, non si potrebbe davvero sostenere che egli è, per cosí dire, colui che tira le redini. Le azioni sarebbero mere occorrenze sulle quali eserciterebbe un’influenza limitata. In assenza di controllo da parte dell’agente, potremmo addirittura essere restii a parlare di «azioni», e questo perché le intenzioni dell’agente non sarebbero la loro origine causale.
Si pensi a quello che succede quando, per testare i riflessi, un medico colpisce il ginocchio di un paziente con un martelletto: l’azione provocherà un movimento involontario. In questo caso, saremmo ancora disposti a darle la definizione di «azione libera»? La risposta è ovvia: no. Essa è interamente al di fuori del controllo intenzionale del paziente, nonostante il movimento sia stato causato da una serie di processi corporei. Il semplice fatto che qualcosa sia causato da un processo fisico che avviene nel corpo non basta a renderlo un’azione libera. D’altronde, non saremmo di certo disposti a definire azioni libere i processi digestivi o il battito cardiaco. Un’azione può essere attribuita al tuo libero arbitrio solo se è opportunamente causata dalle tue intenzioni: è necessario che tu abbia compiuto l’azione perché tu intendevi farlo1.
Abbiamo visto che il requisito del controllo causale si trova a fare i conti con una sfida importante: quella dell’epifenomenismo, stando al quale non esiste qualcosa come una causazione mentale, ovvero una causazione indotta dagli stati mentali intenzionali di un agente. Da un punto di vista scientifico, sostiene l’epifenomenista, tutto ciò che un agente fa può essere attribuito, in ultima analisi, a processi fisici non intenzionali rintracciabili nel suo cervello e nel suo corpo. Le intenzioni dell’agente sono, tutt’al piú, sottoprodotti delle reali cause fisiche; sono epifenomeni che non instaurano autonomamente alcun nesso causale. L’idea che «c’è un omuncolo nella testa [di una persona] al posto di comando», per usare le parole di Michael Gazzaniga, è un residuo proveniente dal modo di pensare della psicologia del senso comune, ormai obsoleto e privo di qualsiasi fondamento scientifico. Il cervello e il corpo degli esseri umani costituiscono un sistema fisico complesso, governato dagli stessi meccanismi causali non intenzionali che governano altri sistemi fisici. Le cause delle nostre azioni si collocano a livello fisico e non a quello degli stati mentali intenzionali. Si ricordino le parole di Sam Harris: «Ho scelto consapevolmente di bere un caffè piuttosto che un tè? No. La scelta è stata fatta per me da eventi avvenuti nel mio cervello che io, in quanto testimone consapevole dei miei pensieri e delle mie azioni, non potevo né controllare né influenzare»2. Senza dubbio sono il testimone dei miei pensieri e delle mie azioni, nonostante la scienza sembri andare contro l’idea che io sia anche la loro origine causale, che possa controllarli attivamente.
L’obiettivo del capitolo è di rispondere a questa sfida e difendere la tesi secondo cui gli esseri umani hanno effettivamente il controllo causale delle proprie azioni. Spiegherò perché il cosiddetto argomento dell’esclusione causale – l’argomento filosofico piú importante che sia stato elaborato contro il concetto di causazione mentale – è imperfetto, e perché lo scetticismo di origine neuroscientifica non regge alla luce di un’indagine approfondita. Ne trarremo una conclusione importante: abbiamo buone ragioni per pensare che le nostre azioni sono in gran parte causate dai nostri stati mentali e che sarebbe un errore attribuirle esclusivamente a processi fisici non intenzionali.
Cosa si intende per «causa ed effetto»?
Iniziamo con alcune osservazioni preliminari sul concetto di causalità. In primis, bisogna considerare che il ragionamento causale è onnipresente: ragioniamo in termini di causa ed effetto nelle piú svariate situazioni della vita. Per esempio, quando proviamo a capire come accendere un fuoco per cucinare del cibo; quando ci cimentiamo nella risoluzione di un problema ingegneristico; quando cerchiamo la cura per una malattia; quando ragioniamo su politiche che riducano la disoccupazione o scongiurino il pericolo di rovinosi cambiamenti climatici; quando decidiamo se ritenere qualcuno responsabile di qualcosa; e quando proviamo a rispondere a domande scientifiche o storiche: perché i dinosauri si sono estinti?, cosa ha portato alla Prima guerra mondiale?, come mai nel 2008 si è verificata una crisi finanziaria? In tutti questi casi, ciò che ci interessa sapere è il perché si verifichino determinati esiti, o per meglio dire: quali sono le cause che li fanno accadere?
Il ragionamento causale agisce in modo fondamentale nei nostri tentativi di dare un senso al modo in cui funziona il mondo. Esso ci consente di tenere traccia di schemi e regolarità, i quali, spesso, non hanno solo un interesse teorico, ma si rivelano importanti anche su un piano pratico. Non siamo solo alla ricerca di un modo per spiegare e comprendere il mondo, siamo interessati a sapere come intervenire a livello causale: a cosa dobbiamo fare per ottenere i risultati che desideriamo. In altre parole, i concetti di causa ed effetto sono fondamentali sia per le nostre rappresentazioni teoriche relative al funzionamento del mondo, come nel caso del ragionamento scientifico, sia rispetto agli esiti del nostro ragionamento pratico nel processo decisionale e di agency.
La concezione moderna del concetto di causalità deve molto al pensiero di David Hume, che è considerato uno dei giganti della filosofia, a dispetto del fatto che in vita non riuscí a ottenere un riconoscimento accademico, probabilmente a causa della sua nomea di ateo. Hume si candidò senza successo per due diverse posizioni: la cattedra di etica e filosofia pneumatica all’Università di Edimburgo (si noti la curiosa combinazione di discipline!) e quella di filosofia all’Università di Glasgow. È utile, a questo punto, ripercorrere brevemente le sue idee fondamentali sul principio di causalità.
L’intuizione fondamentale del filosofo scozzese è tanto semplice quanto importante: sebbene abitualmente pensiamo che esistano relazioni causali tra determinati eventi, non osserviamo mai le relazioni causali in quanto tali, ma solo il fatto che alcuni eventi sono seguiti stabilmente da altri. Se diciamo che un evento ne «causa» un altro, stiamo certamente osservando la co-occorrenza dei due eventi – potremmo persino considerarla un’occorrenza di uno schema che si ripete –, ma, oltre a rilevare che si verificano in stabile successione, non possiamo vedere il «collante» che li tiene insieme. Si consideri, per esempio, l’affermazione causale secondo cui un cubetto di ghiaccio immerso in acqua calda si scioglie. L’unica cosa che possiamo osservare è che tutte le volte che mettiamo un cubetto nell’acqua calda, questo si scioglie. Detto in altri termini, l’evento «mettere il cubetto nell’acqua calda» è seguito dall’evento «cubetto di ghiaccio che si scioglie»: lo schema sembra essere robusto. Ma la relazione causale – la «connessione necessaria» che lega i due eventi – resta inosservabile. Come scrive Hume: «Noi non abbiamo, infatti, altra nozione della causalità fuori di quella di certi oggetti che in tutti i casi precedenti trovammo sempre uniti e inseparabili»3. Detto in altri termini, vediamo la «connessione costante» di alcuni tipi di eventi, e questo ci porta a pensare che a legarli sia una relazione causale. Qual è la natura di quest’ultima?
A grandi linee, esistono tre modi di intendere la natura ontologica della causazione, a cui corrispondono altrettanti modi di interpretare l’intuizione di Hume. Potremmo definirle, rispettivamente, la concezione «riduzionista», quella «proiettivista» e quella «realista»4. Per il riduzionista, l’intuizione di Hume ci insegna che la nozione di causalità può essere ridotta a quella di connessione costante (di cui fanno parte, secondo Hume, la contiguità spazio-temporale e la successione temporale). In questa prospettiva, dire che l’evento A causa l’evento B è semplicemente una scorciatoia per dire che esiste una connessione costante tra eventi di tipo A ed eventi di tipo B: non c’è nulla di piú che una connessione costante. Per il proiettivista, invece, Hume ci insegna che le relazioni causali sono proiezioni della mente umana. Ogniqualvolta osserviamo una connessione costante tra eventi di tipo A ed eventi di tipo B, tendiamo a postulare una relazione causale tra A e B, ma essa non è altro che una proiezione sul mondo. Si tratta di una caratteristica della nostra immaginazione e non del mondo. Secondo il realista, infine, ciò che Hume ci insegna è che le relazioni causali sono reali ed esistono là fuori, nel mondo, sebbene non siano direttamente osservabili. Stando a questa interpretazione, la connessione costante tra eventi di tipo A ed eventi di tipo B è la prova di una relazione causale, sebbene la relazione stessa non possa essere osservata. Si tratta di una situazione simile a quella, per fare solo un esempio, dell’elettromagnetismo: anche se non è un fenomeno direttamente osservabile, la sua esistenza è garantita da prove di tipo indiretto. Siamo in grado di vedere in che modo gli oggetti metallici vengono influenzati da quelli che crediamo essere campi elettromagnetici. Per un realista, le relazioni causali, proprio come i campi elettromagnetici, sono fenomeni reali, anche se possiamo osservarli solo indirettamente.
Non mi chiederò quale sia l’interpretazione piú fedele alle parole di Hume. Si tratta di un problema esegetico che lascio agli studiosi del suo pensiero. Ciò che conta per gli scopi di questo libro è che le relazioni causali – anche nel caso in cui fossero reali – possono essere osservate solo indirettamente. Come ci ha insegnato Hume, le relazioni causali non sono visibili allo stesso modo in cui lo sono le rocce o gli alberi. Per identificarle è necessaria un’inferenza, in particolare un’inferenza alla migliore spiegazione. Non vediamo le relazioni causali a partire dall’osservazione dei fenomeni del mondo. Al contrario, possiamo solo inferirle a partire da altre osservazioni, e nel fare questo ci basiamo in ultima analisi su criteri come l’utilità esplicativa delle presunte relazioni causali. Nel caso specifico, un buon test per verificare che A causi B è ipotizzare che esista una relazione causale che fornisce la migliore spiegazione degli schemi e delle regolarità in cui si trovano A e B, oppure che essa ne faccia parte. Un aspetto significativo, non certo l’unico, è che l’ipotesi causale potrebbe rivelarsi un’utile guida per le nostre azioni, consentendoci per esempio di realizzare B per mezzo di A, o di evitare B evitando A. Se un’ipotesi causale è utile da un punto di vista esplicativo, e sbaraglia le ipotesi rivali, allora possiamo accettarla, almeno provvisoriamente. Provvisoriamente, perché potrebbe essere sostituita da un’ipotesi migliore da un punto di vista esplicativo.
Quando cerchiamo di capire cosa abbia causato un certo effetto, dobbiamo chiederci quanto una determinata ipotesi causale ci permetta di tenere traccia degli schemi e delle regolarità che ci interessano e, nel caso in cui siano in gioco decisioni pratiche, quanto efficacemente essa guidi le nostre azioni. Dobbiamo chiederci se, per esempio, l’ipotesi chiarisce in modo inequivocabile quali interventi determinano certi effetti. Se un’ipotesi causale non è utile da un punto di vista esplicativo, o non si rivela una buona guida per l’azione pratica (quantomeno deve far parte di una spiegazione piú ampia che soddisfi questi criteri), non abbiamo alcuna buona ragione per accoglierla. Pertanto, causazione e spiegazione sono strettamente connesse.
Le relazioni causali non devono essere considerate mere relazioni esplicative, né tantomeno semplici euristiche. Per quanto ne sappiamo, esse potrebbero benissimo esistere là fuori, nel mondo. Potrebbero essere «ontiche», come dicono i filosofi, e non solo «epistemiche»: caratteristiche del mondo, e non della nostra conoscenza. Ma anche se le relazioni causali fossero fenomeni reali, come sembra suggerire la posizione realista, il miglior criterio per caratterizzarle potrebbe comunque essere quello della loro utilità. Pertanto, l’identificazione delle relazioni causali – sia nella scienza e nell’ingegneria sia in medicina o nella vita di tutti i giorni – dovrebbe sempre basarsi su un’inferenza alla migliore spiegazione. Piú avanti definirò la nozione di relazione causale in modo piú preciso, ma per il momento saranno sufficien...