I portatori d'acqua
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I portatori d'acqua

  1. 176 pagine
  2. Italian
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I portatori d'acqua

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Informazioni sul libro

Nel cuore dell'Afghanistan, protetta dalle cime dell'Hindu Kush, sorge la fertile valle di Bamiyan. Dalle loro nicchie millenarie scavate in una parete di roccia, due gigantesche statue di Buddha dominano il paesaggio e il sole le colora di sfumature straordinarie a ogni alba, a ogni tramonto. Ma è l'11 marzo 2001: nella valle di Bamiyan il sole non può illuminare altro che tristi macerie. 11 marzo 2001. È mattina a Parigi. Tom si alza e si prepara a partire per Amsterdam. Tom, che in realtà si chiama Tamim, è afghano, vive in esilio in Francia e fa il rappresentante. Soffre di paramnesia: ha sempre la sensazione di aver già visto, già vissuto la sua vita. È sposato con Rina: ha deciso che quel giorno la lascerà per Nuria, la giovane e misteriosa amante che lo aspetta in Olanda. Ma quando arriva ad Amsterdam, Nuria è scomparsa. Sarà l'ambigua Rospinoza, una carismatica amica della ragazza, a dargli le risposte che sta cercando? Per Tom quella giornata piú di ogni altra assume quasi i contorni di un sogno. 11 marzo 2001. È mattina a Kabul. Yussef si alza per svolgere come sempre il suo lavoro di portatore d'acqua. Se non lo farà, i talebani lo puniranno duramente con novantanove frustate sulla schiena. Yussef è povero, analfabeta, e tutti lo scherniscono trattandolo da eunuco. Prima di partire in esilio, suo fratello gli ha affidato la moglie Shirin. La donna è taciturna e apatica: Yussef si tormenta e vorrebbe aiutarla, ma assurde convenzioni gli impongono di non avere pietà per una donna abbandonata. E di tacere l'affetto proibito che prova per lei. Quel giorno, mentre i talebani distruggono i Buddha di Bamiyan in quanto icone non musulmane, Shirin scompare. Sarà l'enigmatico Lala Bahari, commerciante sikh convertito al buddismo, il custode delle risposte che Yussef sta cercando? Per Yussef quella giornata particolare assume quasi i contorni di un sogno. Tra assillante realtà e suggestioni oniriche, Atiq Rahimi scava nella ferocia della storia contemporanea con questo intenso romanzo a due voci che narra di esilio, radici, libertà, amore.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433713

1.

Lei, Rina, dorme; tu, Tom, sei perso nei sogni.
Devi alzarti dal letto.
E andare.
Fuori piove; senti il fragore della pioggia battente che si schianta contro la finestra; e si schianta anche la tua voglia di alzarti dal letto, e andare.
Hai freddo; anche il sole ha freddo. L’alba, indecisa come te, fatica a sorgere e lascia la camera immersa nel buio. Dubiti dei tuoi occhi spalancati. Che tu li chiuda o no, non cambia nulla. Qualcuno deve aver spento la lucina del corridoio. Rina? No di certo, poiché te ne saresti accorto. Come tutte le sere avete lasciato socchiusa la porta della camera per tenere d’occhio vostra figlia Lola, sonnambula; Rina non si è alzata dal letto; e tu non hai chiuso occhio tutta la notte.
Questa oscurità totale è inquietante. Cancella tutti i punti di riferimento e ti costringe ad affidarti solo alla memoria per ritrovare il percorso che ti porterà nel corridoio. Ma il tuo corpo inerte lascia che sia la mente a strapparti al letto a cui sei incollato. E la mente, persa nell’ombra dei propri dubbi, vaga tra la veglia e il sonno.
Non sai piú allora se sogni o se pensi. Tuo nonno, con il suo inconfondibile lirismo di marca afghana, ti avrebbe paragonato all’uccello di mezzanotte che, con un occhio aperto per restare sveglio e l’altro chiuso per sonnecchiare, un’ala verso il cielo e l’altra verso la terra, le zampe legate all’unico ramo centrale dell’albero su cui è appollaiato il suo nido, sogna un luogo lontano. Per te questa è la condizione dell’intera umanità. Per tuo nonno invece era piú un’esperienza mistica, una visione angelica del conflitto fra i nostri sogni terreni e la contemplazione del cielo… Dove l’aveva scovato, quell’uccello? In quale leggenda? In quale libro? Nessuno può dirlo. Lui menzionava un’opera, una specie di raccolta di tutti i libri perduti della letteratura pashtu…
Rincantucciata quasi sul bordo del letto, Rina si muove. Si volta verso di te, come se ti avesse sentito ridacchiare con tuo nonno. Con i lunghi capelli nerissimi che sfidano il buio della stanza, ti sfiora il braccio abbandonato fuori dalla coperta; e nel riportarti cosí accanto a sé, ti fa uscire dalla mente il titolo del libro in lingua pashtu che tuo nonno citava ogni volta che inventava una parabola, come quell’uccello di mezzanotte perso nel mondo dei sogni a cui può avere accesso solo il genio dei profeti durante il nik-tarikí, la penombra benigna. Non un sogno a occhi aperti, né un pensiero onirico, ma un Ro’ya, un sogno, all’origine della visione e dell’ispirazione profetica.
Ma il titolo del libro?
Rinuncia a cercarlo, rischieresti di perdere anche il filo dei tuoi sogni. O peggio, finiresti per non ricordare piú in che lingua sognavi. In persiano o in francese? E quella faglia inghiottirebbe tutto ciò che in silenzio ti recitavi. Dimenticando la lingua, dimenticherai i tuoi pensieri.
Torna all’uccello di mezzanotte nella penombra benigna.
Ecco, non sei né un profeta né quell’uccello mitico, sei solo tormentato dal mistero della lucina spenta che ti impedisce di alzarti dal letto. Di solito, al risveglio, appena apri gli occhi il suo debole chiarore invita il tuo sguardo a perdersi nella serigrafia del quadro di René Magritte, La riproduzione vietata, che Rina ha appeso alla parete del corridoio, proprio davanti alla porta della vostra camera da letto.
Che posto singolare per un quadro cosí misterioso!
Ma in fin dei conti, perché ti stupisci? Non è certo la prima volta che noti quanto sia strana la sua collocazione. È lí, a portata del tuo sguardo, ormai da un bel pezzo. Con ogni probabilità Rina l’ha appeso in quel punto perché ne andava fiera, come di un trofeo. In fondo è il primo quadro che hai riprodotto su quella bella seta quando ti hanno assunto alla società Anagramme, e soprattutto è l’ultimo regalo che le hai fatto. Eppure quando lo contempli ti passano per la testa mille cose. Ogni mattina.
E dire che il quadro raffigura una scena facile da immaginare: un uomo, dipinto di spalle, si guarda allo specchio e si vede di spalle, duplicando cosí l’immagine. Semplice, ma enigmatico. E malinconico. Ti esaspera. Ti chiedi se Rina non l’abbia appeso lí proprio perché tutte le mattine tu possa riconoscerti in quel personaggio, tu nell’abisso delle tue contraddizioni, che dai le spalle a te stesso. Ma questa è solo una tua congettura; lei non ti ha mai detto niente. E niente tu le hai mai chiesto.
L’effetto prodotto su di te dal quadro ha la meglio tanto sulle intenzioni di tua moglie quanto sulla tua contrarietà. Una strana sensazione, che ti proietta in una dimensione né onirica né mistica, ma in un mondo piú empirico e sensuale, impossibile da descrivere se non attraverso un’esperienza analoga vissuta in uno studio di arti grafiche, quando per la prima volta il tuo sguardo si era posato su quell’opera. Era molto, moltissimo tempo fa. All’epoca eri un giovane rifugiato afghano. Dopo che avevi studiato per due anni la lingua francese, il centro per l’impiego ti aveva mandato in quel piccolo studio in una sperduta periferia parigina. Tu in verità sognavi di studiare in un’accademia di belle arti. Ma essendo privo delle competenze artistiche richieste, ti eri dovuto accontentare di quella formazione piú tecnica che creativa.
Da fuori lo studio era cupo, ma l’interno era illuminato in maniera esagerata da certi orribili neon. In quella luce lattea ti eri trovato davanti al quadro, o meglio dietro a quella figura di spalle che si contemplava, di spalle, nello specchio. «Originale!» avevi pensato, senza sapere che quell’opera apparteneva ormai da tempo ai cliché della storia dell’arte. Poco importava. Tu l’avevi appena scoperta. Per te era qualcosa di originale, di inedito.
Ma per la prima volta avevi dovuto affrontare una sconcertante impressione di familiarità. Ti chiedevi se quel quadro non l’avevi già visto. Sotto la stessa luce biancastra, nella stessa situazione. Dove? E quando? Allora non eri in grado di dirlo. Come non sei in grado oggi. Un passato sospeso. Incompiuto. Sentivi che rifacevi i gesti, che rivivevi lo stato d’animo e le emozioni, proprio come se li avessi conosciuti e vissuti in un altro momento della vita, senza la benché minima differenza. Una riproduzione. Una copia esatta della situazione, che avresti potuto addirittura descrivere in anticipo. Riconoscevi tutto. Ogni gesto, ogni parola detta o sentita sembravano tornarti in mente fin nei minimi dettagli. Riaffioravano misteriosamente, con una subitaneità incredibile, quasi fulminea. Come se ti fossi ricordato di un passato nel quale ti rammentavi di quell’istante – il tuo stupore di fronte all’opera in quello studio. Un passato che non sapevi collocare né nel tempo né nella memoria. Il luogo era indefinibile; il tempo inafferrabile. Uno spazio-tempo da C’era una volta…
Eppure, se cosí era, perché non ti ricordavi del quadro prima di (ri)vederlo nello studio? Dov’era nascosto quel ricordo? Impossibile chiarire il mistero. Un po’ stranito, cosí rimanesti tutto il giorno, cercando di capire cosa ti fosse successo. Un disturbo della memoria? Un difetto della mente? Una reincarnazione, come pensano gli indú? Alla fine ti eri fatto l’idea che esistesse un mondo parallelo in cui si rifletteva come in uno specchio il mondo nel quale vivevi.
Invano, poi, avevano cercato di convincerti che si trattava del fenomeno del déjà-vu, un’impressione insignificante, un’illusione prodotta da uno sfasamento fra la mente e la percezione eccetera. Una specie di paramnesia, insomma, quella strana condizione in cui pensiamo di avere già vissuto una certa scena.
All’epoca non capivi. Non solo non afferravi il senso delle parole dotte in francese, ma anche il fenomeno in sé non l’avevi mai vissuto, non ne avevi mai sentito parlare. Nella tua lingua madre non esiste una parola equivalente.
È una cosa che succede a tutti, oggi lo sai. Ma ad alcune persone quella sensazione, seppur breve, procura un malessere cosí strano, cosí inquietante e cosí improvviso da farle piombare in una specie di panico da cui non riescono a uscire. A te, invece, quella sensazione di déjà-vu non suscita alcuna inquietudine. Ti diverte, e ti rende la situazione familiare. Nessuna sorpresa, niente di nuovo, ti sembra, tutto è soltanto ricordo, l’intero presente. Ti senti padrone del tempo. In uno stato di incanto e di beatitudine. Se non di profezia. Chi non sarebbe disposto a morire pur di rivivere la propria vita, anche solo per una frazione di secondo? Chi non sogna di viaggiare nel tempo? E ora questa sensazione è a portata della tua mente. Gratis. Senza sforzo. Non come in un sogno, no, bensí nella realtà dei fatti, hic et nunc. Niente di soprannaturale.
Ecco cosa ti mancherà stamattina che la lucina è spenta, a meno che non resti a letto finché non fa giorno. Altrimenti devi alzarti, accendere la lampada e contemplare il quadro perché ti tormenti e ti perseguiti.
Su, in piedi!
E ricordati di disattivare la sveglia.

2.

Lei, Shirin, dorme; lui, Yussef, è perso nei sogni.
Nessuna voglia di alzarsi dal sandalí.
Né di uscire.
Fuori non piove né nevica, ma tutto è congelato dal freddo invernale. L’intera città di Kabul è una ghiacciaia, la sua terra ocra come il suo cielo azzurro, le sue montagne grigie come il suo fiume in secca… Una ghiacciaia arida; o meglio un’aridità glaciale. Nessuna nuvola di speranza all’orizzonte, nessuna goccia d’acqua di gioia per terra, e nessuna forza per alzarsi dal sandalí, anche se le braci sono spente.
Yussef è sveglio da un po’; svegliato dalla maledetta verga che, da quasi un anno, tutte le mattine all’alba puntualmente gli disturba il sonno, suscitando in lui una strana sensazione, piacevole ma angosciante, che non ha mai provato prima, neppure durante la pubertà. Solo adesso, nell’età adulta, sente e capisce cos’è un’erezione. Mentre prima…
Il passato è passato! Poco importa se oggi lui soffre di questa sensazione insolita piú di quanto non soffrisse un tempo della sua assenza. Non può comunque fare a meno di pensarci, poiché non si capacita che quella bestiola debba risvegliarsi ogni mattina prima del richiamo alla preghiera dell’alba. Chi si crede di essere, il muezzin? O forse il suo minareto.
Miscredente!
Al diavolo la verga! Lo strappa al sonno, lo insudicia, lo tormenta, lo fa bestemmiare, lo colma di un’angoscia che gli risveglia l’asma e per giunta gli impedisce di alzarsi subito per fare le abluzioni e pregare. Ogni volta, deve aspettare che il maledetto pipistrello si intorpidisca.
E quello tira per le lunghe.
Pazienza! Deve sbrigarsi a uscire, prima che il mullah esca di casa, che i fedeli o gli infedeli si radunino davanti alla vasca vuota della moschea per fare le abluzioni. Spetta a Yussef portare loro l’acqua; altrimenti: novantanove frustate sulla schiena!
Si tira su, lancia un’occhiata verso la finestra che incornicia il cielo dell’alba punteggiato di poche stelle e ritaglia il chiarore latteo della luna fredda per proiettarlo sul corpo minuto di Shirin, sepolta sotto la trapunta, dall’altro lato del sandalí. Quindi non è ancora sveglia per accendere la lampada a petrolio, e preparare la colazione…
Yussef, irritato, si appoggia con la schiena al muro. Nella luce perlacea, il suo sguardo si perde tra i motivi floreali della trapunta che copre il sandalí.
Per molto tempo era stato proprio il rito della colazione a dargli la forza di alzarsi: udire il richiamo alla preghiera, il grido dei corvi nel silenzio assoluto dell’alba invernale, e il rumore dei passi felpati di Shirin che andava a prendere il pane caldo, il cui odore invadeva la piccola abitazione. E il profumo del tè, la morbidezza del formaggio fresco… Ma oggi no. Da qualche tempo, ormai, al risveglio non pensa piú all’atmosfera del primo mattino, al rito della colazione, ma al sonno agitato di Shirin.
Che cosa sogna?
Chi sogna?
Quali sogni?
Lo prende il desiderio feroce di penetrare nei sogni della giovane donna. Sogni muti al risveglio, loquaci durante il sonno. Certe notti lei urla, ride, piange… Addirittura parla in hindi – anche se non l’ha mai imparato. Però niente di intellegibile per Yussef, né per nessun altro, del resto. Anche la sua famiglia si lamentava di lei. La temeva. La madre una volta l’aveva portata dal vecchio guaritore ebreo, Ishaq, nella sinagoga della via dei Fiori, perché le desse un talismano che doveva tenere fra i denti mentre dormiva. Ma una notte lo inghiottí durante il sonno. Fu lí lí per soffocare. Quando la madre le diede un altro amuleto, la povera ragazza non riuscí a chiudere occhio per tutta la notte, inerte e silenziosa fino all’alba. Tutti allora pensarono che fosse guarita.
Spesso, quando Yussef si addormenta, le sue urla lo fanno sobbalzare; poi il silenzio, come se niente fosse. All’inizio credeva di essere lui ad avere degli incubi, che ciò che sentiva fosse il grido dei propri tormenti notturni. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I portatori d’acqua
  4. Una sconfitta della Storia
  5. 1.
  6. 2.
  7. 3.
  8. 4.
  9. 5.
  10. 6.
  11. 7.
  12. 8.
  13. 9.
  14. 10.
  15. 11.
  16. 12.
  17. 13.
  18. 14.
  19. 15.
  20. 16.
  21. 17.
  22. 18.
  23. 19.
  24. 20.
  25. 21.
  26. 22.
  27. 23.
  28. 24.
  29. 25.
  30. 26.
  31. 27.
  32. 28.
  33. 29.
  34. 30.
  35. … e tre fatti di cronaca del 13 marzo 2001
  36. Il libro
  37. L’autore
  38. Dello stesso autore
  39. Copyright