Il metodo del dottor Fonseca
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Il metodo del dottor Fonseca

  1. 192 pagine
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Il metodo del dottor Fonseca

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Dopo mesi trascorsi dietro una scrivania per aver ferito un passante nel corso di una retata, un ispettore viene inviato in un villaggio vicino alla frontiera di cui nemmeno conosceva l'esistenza. Ad attenderlo c'è un caso d'omicidio considerato già risolto. La vittima è una donna che conduceva un'esistenza appartata, e il presunto assassino è suo fratello, un giovane con disturbi mentali che abitava insieme a lei e che ora è scomparso. Facile, forse troppo. Magari è solo suggestione, magari dipende dal paesaggio, bello e violento, o magari è la presenza inquietante della clinica che sorge sul confine, nella «terra morta», un centro specializzato in interventi disperati, ma in quel luogo c'è qualcosa che non torna. Nella pensione che lo ospita l'investigatore fa conoscenza con alcuni personaggi quantomeno singolari, e a poco a poco davanti ai suoi occhi si apre uno scenario che nessuno avrebbe mai immaginato. Insospettabile anche per il potentissimo capo dell'agenzia governativa che gli ha affidato l'indagine: un funzionario spaventoso e ridicolo al tempo stesso, che dietro le spalle tutti chiamano «il Maiale».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858434444

1.

Quella mattina la radiosveglia suonò alle sette. Squillava anche il telefono, lo capii dopo aver spento la radio ma non me ne preoccupai, non avevo alcuna voglia di alzarmi e rispondere. Lo lasciai continuare fino a che non smise e tornai a chiudere gli occhi. Ero a letto, ero vestito, cambiai fianco e feci un rapido bilancio di come mi sentivo. Mica tanto bene in realtà, mi girava ancora un po’ la testa, oltre ad avere la bocca asciutta e lo stomaco in subbuglio. La sera prima avevo bevuto troppo, in compagnia e poi da solo, tanto per tirare tardi; non era una novità, soprattutto in quel periodo. E adesso non avevo voglia di alzarmi. La cosa piú furba sarebbe stata darmi malato.
La mia camera da letto era al buio, da giorni non aprivo le finestre, puzzava di chiuso. Credo che a quel particolare odore contribuisse anche il disordine. Il disordine è come una bestia inquieta, marca il territorio, se ne impadronisce e distorce la visione delle cose. Però mi ci ero abituato. Cercavo, senza riuscirci, di capire che tempo facesse fuori. Non ricordavo le previsioni per quella fine di ottobre. La sera, rientrando, avevo guardato il cielo a bocca aperta, senza meraviglia per la sua profondità, sempre che ne avesse. La testa aveva cominciato a girarmi allora, ed ero rimasto fermo, aspettando che la vertigine mi passasse. Mi ero buttato sul letto cosí com’ero, coprendomi alla bell’e meglio.
Ascoltai il rombo delle macchine che arrivava da fuori forte e fastidioso – abitavo al pianoterra di un edificio grigio troppo vicino alla strada – sembravano scivolare sull’asfalto: un rumore strisciante, stava piovendo. Decisamente il tempo ideale per darsi malato.
Il telefono riprese a squillare. Suoni, rumori giungevano anche dagli altri piani: litigi, canzoni, passi. Segreti che non si potevano mantenere in una casa costruita al risparmio. Il telefono non si arrendeva. Risposi chiudendo gli occhi, nascosto dentro quel buio che mi rendeva audace. Mi attraversò la mente il pensiero di galleggiare, di restare cosí in eterno, di essere un oggetto immobile che partecipa al disordine che lo circonda. Di essere un ciottolo, un guinzaglio. Una scarpa, destra o sinistra.
– Cammina, – disse una voce. A proposito di scarpe. Una voce secca come una corda che ti trascina. Indisponente come qualcuno che suona con insistenza al campanello o accende la luce o apre le finestre per svegliarti all’improvviso. Tornai sulla Terra.
Perché era la voce del capo, il responsabile della sezione investigativa presso cui lavoravo. Finsi di non riconoscerlo.
– Chi parla?
Simulai un accento nasale, l’influenza era appena arrivata in città, impossibile non saperlo data la messe di consigli su come evitarla, o trattarla, che radio, tivú e giornali dispensavano: bere tanto, frutta e verdura, riposo e antipiretici. Cose che ormai anche i bambini dell’asilo potevano ripetere con tutta la serietà del caso.
– Prepara una valigia, – disse.
Allungai le gambe, appoggiai un gomito al cuscino, tossii senza farlo apposta, con naturalezza; se andava bene erano venti sigarette al giorno.
Che tempo fa?, fui tentato di chiedere.
– Devo partire? – domandai invece.
– Sí.
– Mi rimandate sul campo?
– Sbrigati.
– Cos’è successo? – chiesi.
– Fra mezz’ora ti voglio qui –. Per quanto lo conoscevo, aveva parlato fin troppo. Infatti riattaccò.
Mi vennero in mente un bel po’ di parolacce, ma ero anche curioso di conoscere il motivo di quella chiamata che aveva il tono dell’urgenza. Mi feci la doccia, la barba, presi il caffè e due aspirine masticabili. Uscii. L’aria puzzava piú del solito. Qua e là il muro del condominio aveva chiazze scure.

2.

Anche l’interno della macchina puzzava, avevo odore di muffa nel naso. Dallo specchietto pendeva un deodorante che una volta era stato verde, adesso sbiadiva verso un grigio cenere.
Per raggiungere il mio ufficio dovevo attraversare la città, di solito impiegavo non piú di mezz’ora. Non quel giorno. Mi ci volle almeno un’ora. L’intensità della pioggia offuscava la vista, forse erano le spazzole dei tergicristalli vecchie come la mia macchina. Le strade erano allagate, soprattutto ai bordi s’erano raccolte pozze in cui navigavano cartacce, lattine, bicchieri di plastica. La gente sui marciapiedi se ne teneva alla larga per evitare il rischio di farsi una doccia tutt’altro che igienica. Ovunque c’erano vigili, pompieri; nell’aria le relative sirene. Mi venne il sospetto che la ragione della chiamata fosse quel casino che vedevo. Non ci sarebbe stato niente di strano, fesso io a credere che mi aspettasse una missione. I semafori erano in tilt, lampeggiavano. Dai tombini zampillava acqua sporca. A un incrocio trovai un incidente, un tamponamento che aveva coinvolto piú auto. I conducenti litigavano tra loro, incuranti della pioggia che li inzuppava. Mi resi conto che non avevo con me un ombrello. Presentandomi fradicio, e oltretutto con la faccia sbattuta, prima di ogni altra cosa avrei ricevuto una bella strigliata da parte del Maiale.
Maiale, proprio. Tra gli ispettori della struttura cui appartenevo il capo si portava in giro, senza saperlo, quel soprannome. Era grasso e roseo, e già questo sarebbe bastato, ma qualcuno, a un certo punto, aveva messo in giro la voce che avesse l’uccello attorcigliato come la coda dei suini, una facezia che l’aveva definitivamente bollato. Da allora le battute erano fioccate. Facevamo ipotesi sulle acrobazie che doveva compiere per infilarlo in qualche buco. Secondo alcuni ci stappava anche le bottiglie. Il Maiale stava perlopiú chiuso nel suo ufficio, seduto dietro la scrivania. Pochi potevano dire di averlo visto in piedi. Quando aveva bisogno chiamava. Non faceva domande. Dava ordini. Sulla famiglia non s’era mai sbottonato, per quanto ne sapevo poteva anche non averla, vivere solo in funzione del lavoro. In quanto alle cravatte, aveva una predilezione per quelle nere, come se dovesse sempre andare a un funerale.
Come previsto, nel tratto tra il parcheggio scoperto e l’ingresso del palazzo mi inzuppai. La pioggia era tiepida, e una volta dentro fui avvolto da un caldo fastidioso, oltre che dal solito pesante odore che nessun prodotto sarebbe mai riuscito a eliminare. Un accesso di tosse mi ricordò che ero senza sigarette.
L’ufficio del Maiale era al quinto piano, il penultimo, sopra il mio. L’ascensore era occupato, decisi di salire a piedi. Un’altra particolarità del Maiale era quella di non avere la segretaria. Difficile dire se non la volesse o se invece non ne avesse trovata una disposta a lavorare con lui. Anche questo vezzo aveva fatto nascere fantasie sulla sua natura. In molti scommettevano che sarebbe morto alla scrivania, un colpo secco, la testa riversa sul piano del tavolo. L’avrebbe scoperto una donna delle pulizie che, trovandosi da sola, ne avrebbe approfittato per controllare se davvero avesse l’uccello a forma di molla.
Giunsi davanti alla sua porta un po’ sfiatato.
Bussai. Ribussai. Chiesi permesso.
Aprii e sbirciai.
Era appoggiato allo schienale della sedia. I suoi occhietti mi fissarono, limpidi come se ci avesse appena messo qualche goccia di collirio. La finestra dietro di lui incorniciava un desolato paesaggio di pioggia e grigiore, un’immagine che prendeva alla gola e comunicava una sensazione di inutilità. Mi sembrò di non essere stabile sulle gambe.
– Posso? – chiesi.
– Era ora, – disse, e incrociò le braccia sul petto.
Aveva arti corti e grossi. Lo sguardo era freddo. In quella stessa posizione, sei mesi prima, mi aveva comunicato che mi attendevano sei mesi di servizio d’ufficio: la punizione per aver usato senza motivo, secondo lui, l’arma in dotazione durante una retata. Avevo sparato, è vero. Non avevo ammazzato nessuno. Però avevo ferito una testa di cazzo che non c’entrava niente. Fosse rimasto fermo non sarebbe successo. Invece s’era messo a correre. Lui, il buono capitato per caso in mezzo a una banda di cattivi. Per sei mesi avevo battuto a macchina verbali d’interrogatorio e di incidenti stradali, denunce, raccolto segnalazioni che mi avevano messo a contatto con varie categorie di suonati e suonate, un’esperienza non del tutto priva di un lato positivo, dal momento che avevo agganciato un paio di donne con cui ero uscito qualche sera.
Il Maiale non mi fece sedere. Mi squadrò.
– Devi tagliarti i capelli, – disse.
Non ribattei. Non li avrei tagliati.
– Ho un incarico per te.
Rimasi ancora zitto, sapevo che non tollerava domande. Attesi scrutando l’ufficio come se non ci fossi mai stato. Arredamento convenzionale, nessun quadro alle pareti, odore di inchiostro nell’aria, la luce al neon alle nove del mattino. Orologio con stampato sul quadrante il logo di una ditta di fotocopiatrici. Mi salí un po’ di nausea. I vetri erano sporchi. La moquette era chiazzata qua e là. Mi imposi di pensare ad altro per allontanare il malessere.
– Un omicidio, – disse.
Finalmente, pensai.
Significava basta scrivania e verbali.
– Dove? – chiesi.
– Hai ritrovato la lingua.
Accennai di sí.
– Allora usala per salutare, intanto.
Dissi buongiorno. Lui non rispose.
– A Spatz, – disse.
Il nome non mi suggeriva niente.
– È vicino al confine, in montagna, in uno di quei distretti. Cercalo su una cartina.
I distretti, come si erano sempre chiamati, erano un’ottantina, non conoscevo nessuno in grado di elencarli tutti. Però quando i confini del Paese erano stati ridefiniti e ratificati ufficialmente, ciascuno di questi, dal piú piccolo al piú esteso, aveva mantenuto il nome e anche un’autonomia, seppur limitata. Anzi, su alcune questioni legate alla particolarità dei territori e alle necessità della popolazione che li abitava, i consigli locali avevano autorità assoluta e non dovevano temere ingerenze da parte della capitale. I crimini, però, gli omicidi, erano di nostra competenza.
– Agli ordini, – risposi.
Stavo per chiedere che cosa fosse successo, avevo fretta di sapere e andarmene.
– Zitto, – mi fermò, anticipandomi.
Mi feci forza, tacqui.
– Non sarà un caso complicato, – disse.
Abbozzai un sorriso.
– Non c’è da ridere.
– Non stavo ridendo.
Era vero, tentavo di controllare un mezzo conato, inoltre sentivo le gambe sempre piú molli. Sarei stato meglio se avessi potuto sedermi, ma il Maiale non mi aveva invitato ad accomodarmi, e se avessi preso l’iniziativa me lo avrebbe di sicuro fatto notare.
– Il colpevole è un minorato, – disse.
Aveva ucciso la sorella. Perlomeno cosí sembrava dalla relazione che la guardia distrettuale aveva mandato quella mattina. L’omicida non era ancora stato catturato, ma sembrava essere solo questione di ore.
– Facile che quando arrivi te lo trovi già pronto per la consegna, – disse il Maiale.
Dovevo studiare per bene la relazione, aggiunse, e avrei capito un sacco di cose. Comunque, stante la gravità del fatto, un ispettore del dipartimento centrale doveva andarci, la regola era quella.
– Perché io? – domandai con intento provocatorio. Volevo sp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il metodo del dottor Fonseca
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. 33.
  37. 34.
  38. 35.
  39. 36.
  40. 37.
  41. 38.
  42. 39.
  43. 40.
  44. 41.
  45. 42.
  46. 43.
  47. 44.
  48. 45.
  49. 46.
  50. 47.
  51. 48.
  52. 49.
  53. 50.
  54. 51.
  55. 52.
  56. 53.
  57. Epilogo
  58. Il libro
  59. L’autore
  60. Dello stesso autore
  61. Copyright