Riflessioni sulla questione antisemita
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Riflessioni sulla questione antisemita

  1. 120 pagine
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Riflessioni sulla questione antisemita

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Sartre aveva mostrato nelle Riflessioni sulla questione ebraica come l'ebreo sia definito in forma inversa attraverso lo sguardo dell'antisemita. Delphine Horvilleur sceglie qui di fare il contrario: esplorare l'antisemitismo attraverso i testi sacri, la tradizione rabbinica e le leggende ebraiche. Horvilleur analizza la particolare coscienza che gli ebrei hanno di ciò che abita la psiche antisemita nel corso del tempo: l'ebreo è di volta in volta rimproverato di impedire al mondo di fare «tutto»; di confiscare qualche cosa al gruppo, alla nazione o all'individuo; di mancare di virilità e di incarnare il femminile, la manchevolezza, il «buco», la ferita, la faglia identitaria che minaccia l'integrità della comunità. L'esegesi di questa letteratura è a maggior ragione piú rilevante in quanto i motivi ricorrenti dell'antisemitismo sono oggi rivitalizzati nel discorso dell'estrema destra e dell'estrema sinistra. Questo libro offre gli strumenti di resilienza per sfuggire al ripiegamento identitario: la tradizione rabbinica non si preoccupa tanto di venire a capo dell'odio verso gli ebrei (fatica sprecata...) quanto di offrire armi per premunirsi. Esso inoltre, per chi lo sappia leggere, rappresenta una via d'uscita dalla competizione vittimistica che caratterizza i nostri tempi di odio ed esclusione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858433041
Capitolo secondo

L’antisemitismo è un conflitto di civiltà

Un giorno un ebreo incrociò l’imperatore Adriano. L’ebreo lo salutò.
L’imperatore gli chiese: «Chi sei?»
L’uomo rispose: «Un ebreo».
«Come osi rivolgermi la parola?» sbraitò l’imperatore, prima di farlo impiccare.
Un altro ebreo passò di lí e non lo salutò.
«Chi sei?» domandò l’imperatore.
«Un ebreo», rispose il tizio.
«Come osi non salutarmi?» sbraitò l’imperatore, prima di farlo impiccare.
Il consigliere chiese allora all’imperatore: «Qual è la tua logica?»
«Vorresti tu spiegarmi come liberarmi dei miei nemici?» replicò Adriano1.
La letteratura rabbinica mette ben presto in luce la palese assurdità del movente antisemita e la sua portata irrazionale. Lo descrive non di rado con quel sarcasmo tipico della rassegnazione.
Se l’odio verso gli ebrei sfugge a qualsivoglia logica, allora forse è vano e immorale cercarvi delle modalità esplicative, analizzare il ragionamento dei suoi soggetti. Inutile, sí, a meno di interpellare quel che l’odiatore precisamente esecra attraverso l’ebreo, a meno di dare un nome a ciò che detesta. Di quale nemico deve insomma sbarazzarsi a ogni costo?

Esperienza empirica.

L’Impero, come figura centrale dell’odio antiebraico: il tema è assai presente nella letteratura rabbinica dei primi secoli. Nulla di che stupirsi. All’epoca della redazione del Talmud gli ebrei vivono sotto la dominazione dei Romani. Sono alla mercé di quel potere e dei suoi organismi. Il potere romano diviene cosí la figura del dominio, della potenza che controlla, che può decidere vuoi la prosperità vuoi l’annientamento dei sudditi.
Questa realtà diviene particolarmente pregnante dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C. Privato di qualsivoglia sovranità geografica, senza piú il suo luogo di culto centralizzato e dunque orfano del sacerdozio, il giudaismo rabbinico diventa il modello organizzativo di riferimento, nel mondo ebraico. Che a poco a poco s’impone su tutto il popolo in modo pressoché egemonico. Tale modello farà del Libro l’equivalente di un nuovo centro di culto, e dell’esegesi il nuovo luogo d’incontro con il divino.
Dopo la distruzione del Tempio, sono le narrazioni a offrire modelli di collaborazione o confronto piú o meno violento con il potere romano. Alcuni di questi racconti sono chiaramente inventati, altri attingono a fatti reali. Fra i piú celebri si trova, ad esempio, quello della battaglia di Masada. Un gruppo di ribelli ebrei si rifugia in una fortezza in cima a un’altura della Giudea e oppone una dura resistenza alle legioni romane. Dopo svariati mesi di assedio, nel 73 d.C. i ribelli optano per un suicidio collettivo pur di non arrendersi all’Impero romano. Questo episodio incarnerà da allora la resistenza ebraica portata all’estremo, la scelta del sacrificio piuttosto che qualsivoglia compromesso con il nemico.
Ma i maestri dei primi secoli, coloro che disegnano l’ebraismo di cui siamo gli eredi, finiranno per prendere le distanze da questa narrazione e dall’ideologia che porta con sé. I modelli che elogiano, infatti, non sono certo quelli di un forzismo irriducibile, e s’incarnano invece in un altro genere di eroi della letteratura talmudica, come il leggendario Yochanan ben Zakkai. Nella Gerusalemme sotto assedio del 70 d.C. e dintorni, questo capo spirituale capisce bene che il Tempio sta per soccombere e scappa dalla città fingendosi morto. Cosí sfugge all’assedio, esce dalle mura della cittadella di Davide dentro una bara portata a braccia dai suoi discepoli.
Il morto, che tale non è, si presenta davanti al comandante delle legioni romane, tal Vespasiano, e riesce a estorcergli un favore. «Dammi la città di Yavneh e i suoi sapienti»2, supplica: sarà proprio lí che fonderà una casa di studio e un tribunale rabbinico. Queste due istituzioni diventeranno il nucleo per la ricostruzione del pensiero ebraico. «Perché Yavneh?», si domanda Elie Wiesel. «Non certo per rimpiazzare Gerusalemme: Gerusalemme resterà insostituibile per sempre. Ma per poter sognare Gerusalemme, vivendo lontano. Poter vivere la Legge diversamente che in passato. Apprendere o ri-apprendere a vivere nell’attesa»3.
La storia è quasi sicuramente leggendaria, ma questa invenzione letteraria simboleggia di fatto un giudaismo capace di rinascere dalle proprie ceneri senza cercare di ricostruire ciò che è andato distrutto, e che in questo modo crea le nuove condizioni dell’attesa religiosa, il cuore del pensiero ebraico rabbinico in (ri)costruzione.
La distruzione del Tempio e la bara di rabbi Yochanan ben Zakkai raccontano apparentemente la morte e la fine del giudaismo ma celano in realtà la svolta che proprio in quel momento avviene nella storia ebraica: la mutazione cioè di un sistema religioso centrato sul sacrificio e sulla centralità geografica del culto in un testo vissuto come il bagaglio di una «nazione portatile»4 e una linea centrata sull’erudizione, su un adattamento paziente. Tale scelta di compromesso politico, tale rivoluzione teologica hanno per i maestri un costo evidente: il riconoscimento di una dipendenza nei confronti del potere vigente, perché non v’è altra scelta che quella di stare sotto la sua protezione. I rabbini di Yavneh sono perfettamente consapevoli che il loro progetto religioso dipende dalla disponibilità dell’Impero. Il legame con Roma e i suoi rappresentanti diventerà da allora un tema centrale della letteratura rabbinica5. Attraverserà il pensiero ebraico nei secoli: la sopravvivenza del popolo d’Israele dipende sempre dai legami con il potere in carica.

Le mani di Esaú e le azioni di Roma.

Poco dopo la distruzione del Tempio fa la sua comparsa nella letteratura rabbinica una espressione ricorrente che finirà per diventare una sorta di nome in codice. A partire dall’inizio del II secolo i Romani sono denominati «figli di Esaú» e questa identità diventa poi nel Talmud sinonimo di Impero6. Facendo dei loro oppressori la reincarnazione di Esaú, è come se i maestri della tradizione riproponessero la leggenda di Romolo e Remo nella Giudea del I secolo, in cui il confronto ebraico-romano diventa una lotta fratricida. Perché mai scegliere un personaggio biblico che altro non è se non un fratello gemello, per incarnare proprio il nemico?
Forse per intravedere nel testo stesso l’annuncio di una liberazione futura: l’Esaú biblico riceve dal padre la promessa di un regno potente, che il testo condanna a inevitabile caduta. Fare della potenza di Roma la realizzazione di una profezia biblica significa convincersi del suo crollo futuro, cosí come il testo promette.
A meno che tale analogia letteraria non abbia una portata piú ampia: rendendo il popolo ebraico il nemico archetipico dell’Impero romano si dice in fondo che il loro confronto è essenziale e non congiunturale. Descrivere le civiltà ebraica e romana sotto spoglie di fratelli nemici significa affermare il loro eterno antagonismo e catalogarlo alla stregua di un confronto fra due tipi di umanità opposti già letteralmente in utero. L’odio di Esaú per Giacobbe ricondurrebbe dunque a un vero e proprio conflitto di civiltà: altro che opposizione territoriale o politica. Rancore verso un mondo antagonista, piuttosto. Per Roma, dunque, l’ebreo sarebbe (quasi) l’unico destinatario dell’odio. Che sarebbe intrinseco alla civiltà romana. C’è un celebre passo del Talmud che sembra andare proprio in questa direzione ermeneutica.

Il rabbino e l’imperatore.

Nel trattato Avodah Zarah il Talmud racconta la storia della sorprendente amicizia fra un imperatore e un rabbino. C’era una volta un notabile romano che sognava di diventare amico di un saggio… Il racconto comincia come una favola tanto simpatica quanto improbabile. Storicamente irrealistica: come si fa a immaginare un notabile dell’Impero entrare in confidenza con un modesto maestro ebreo?
Nel discorso romano tradizionale non mancano certo i passi che testimoniano inequivocabilmente odio e disprezzo verso il popolo d’Israele. In svariate occasioni l’esercito romano e le sue legioni schiacciano pesantemente i ribelli di minoranze religiose insediate nelle loro province, e gli ebrei non fanno certo eccezione. La piú celebre delle rivolte ebraiche, quella detta di «Bar Kokba», nel II secolo, fu oggetto di una violentissima repressione.
E tuttavia molti passi del Talmud presentano scene di relazioni amichevoli, di simpatia reciproca, discussioni e pacati dibattiti fra notabili romani ed ebrei. In alcuni episodi compare anche un imperatore o un generale, curiosi di cogliere il segreto della saggezza d’Israele, dei suoi riti, della sua longevità.
Un mondo romano che corteggia un mondo ebraico è lo specchio della turba di un gruppo accerchiato, della potenza del suo immaginario che cerca di far da contrappeso all’impotenza politica inventandosi una relazione diversa con il potere vigente. «Proviamo a immaginare un mondo dove Roma ci consulti», sembrano dire questi racconti.
Nasce dunque una narrativa di invenzione che non è soltanto di conforto per i suoi autori o lettori, ma rivela a volte veri e propri tratti di filosofia politica e un sottile affondo nella presunta psicologia dell’avversario.
La legge orale del giudaismo, codificata nella tradizione talmudica fra il II e il VI secolo della nostra era, è spesso assimilata dai saggi a un oceano che si attraversa in immersione, nella consapevolezza che nasconde in sé degli abissi e che va esplorata umilmente. Addentriamoci dunque passo a passo, sino a perderci.

L’imperatore che mi voleva bene… indagine rabbinica.

Eccoci in prossimità di un celebre episodio talmudico. La scena si trova in un trattato che porta il nome di Avodah Zarah, cioè «idolatria», dove ci si confronta con il mondo pagano, che per i maestri è incarnato da Roma e dai suoi imperatori. L’eroe del racconto si chiama rabbi Yehudah Ha-Nasi, cioè «il Principe». Altri non è se non il principale autore di tutta la prima parte della legge orale, cioè la Mishnah, nel II secolo dell’era volgare. Quest’uomo è un tale gigante di erudizione che nel testo viene chiamato «il Maestro» per antonomasia. Ogni volta che si trova detto «Rabbi» senza precisare il nome di qualcuno, significa che si parla di lui.
Nel passo che segue viene descritto il legame fra Rabbi e l’imperatore che regnava a quell’epoca, un tale Antonino che potrebbe essere Antonino il Pio, padre di Marco Aurelio Severo. Cosí comincia il racconto:
Ogni giorno Antonino si metteva al servizio di Rabbi. Gli serviva da mangiare e da bere, e quando Rabbi voleva coricarsi sul suo letto, Antonino si stendeva ai piedi del letto e gli diceva: «Usami come scala». Rabbi diceva allora: «No, non è questo il modo di comportarsi, disprezzare la regalità!» Antonino rispondeva: «Magari fossi un giaciglio sotto di te, nel mondo a venire!»7.

ATTO I: Nella camera del Rabbi.

Le prime righe di questo passo talmudico sanno vagamente di scherzo grottesco. Giocano e si prendono gioco di tutto ciò di cui vengono spessissimo accusati gli ebrei: voler dominare il mondo, sovvertirlo, mettere in ginocchio i potenti, farne degli zerbini. La situazione qui descritta è una sorta di fantasma rabbinico pieno di humour ma è anche una ammissione di impotenza. Come succede sovente, la finzione serve a confortare chi sa che non potrà mai viverla e che sogna una perfetta inversione dei ruoli in vigore nel suo mondo. Questo passo sembra domandare: se il grande imperatore di Roma, capo politico dell’Impero, si mettesse al servizio di uno dei nostri, se noi avessimo il potere di dominare i potenti, che cosa faremmo?
La devozione di Antonino è descritta con dovizia di particolari, nessuno dei quali è casuale: serve da mangiare e da bere al maestro, fa da gradino ai piedi del letto, sogna di farsi calpestare nel mondo a venire, vale a dire per l’eternità.
Per un lettore accorto del Talmud queste immagini sono estremamente suggestive. Evocano un servizio di tipo particolare: una sottomissione quasi di ordine sessuale. In un altro trattato del Talmud si trova detto, ad esempio, che esattamente queste mansioni domestiche (versare da bere e fare il letto) sono quelle che una moglie compie per il suo sposo nella consapevolezza che cosí rischia di risvegliare in lui un desiderio incontrollabile. Nelle fonti talmudiche si trovano anche delle descrizioni dell’atto amoroso in cui una donna è descritta alla stregua di un «giaciglio» per il suo sposo8, non senza la promessa che potrà fargli da «scalino»...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. «Gli ebrei eccedono…»
  4. Riflessioni sulla questione antisemita
  5. I. L’antisemitismo è un conflitto di famiglia
  6. II. L’antisemitismo è un conflitto di civiltà
  7. III. L’antisemitismo è una guerra fra i sessi
  8. IV. L’antisemitismo è una battaglia elettorale
  9. V. L’ecceSion ebraica
  10. Note
  11. Il libro
  12. L’autrice
  13. Copyright