1. Oggi è il 4 novembre 2003. Siamo in un’aula dell’Università di Basilea. Oltre le finestre scorre il Reno e oltre il Reno si delineano i tetti di klein Basel. Qui sul tavolo, davanti a me, è aperto un libro che è stato scritto circa seicentocinquant’anni fa, e io mi sono assunto il compito di leggere quel libro con l’intento di dimostrarvi – se sarà possibile – che è ancora vitale, pieno di risorse e capace di comunicare, oltre la barriera di tanti secoli, un incorrotto piacere di lettura. Soprattutto vorrei cercare di mostrarvi che quel libro si può ancora leggere, ancora raggiungere: che la nuvola della letteratura secondaria, se davvero (come lamenta George Steiner)1 ha finito per avvolgere i classici e nasconderli alla vista, può essere dissipata.
C’è un’altra nuvola, anche piú spessa, anche piú pericolosa, che minaccia di oscurare i classici italiani ed è l’indifferenza. Per averne conferma basta dare un’occhiata al catalogo delle grandi case editrici e ci si accorge di quanto ristretto sia lo spazio a essi riservato, se lo si paragona a quello di cui godono i classici latini e greci, spesso reperibili in edizioni economiche, con testo a fronte e ottime curatele.
Anni fa, quando fu annunciata la chiusura della collana «I classici Mondadori», non mancarono le proteste e gli appelli all’editore in nome della cultura e della letteratura italiana, che perdeva cosí il piú accreditato dei suoi strumenti di conservazione. Tutto fu inutile, perché contro quei libri si schieravano ragioni di mercato. L’ultimo volume, ad accrescere ulteriormente i rimpianti di chi si occupava di Boccaccio, fu quello dedicato al De casibus virorum illustrium2 a cura di Pier Giorgio Ricci, a cui era subentrato, dopo la morte (1976), Vittorio Zaccaria. Non si poteva sperare di meglio: la collana era diretta da Dante Isella, il curatore generale di «Tutte le opere di Giovanni Boccaccio» era Vittore Branca. Le garanzie sembravano assolute e inattaccabili e lo ribadí lo stesso Branca in una recensione, magari un po’ irrituale, uscita sul «Corriere della Sera».
A Ricci sono dovuti il testo, la traduzione e le note della Dedica, del Proemio, dei primi quattro libri e di parte del nono; il resto è dovuto a Zaccaria, che ha deciso di riproporre il piú fedelmente possibile il testo del suo predecessore per quanto, «impeditone dalla malattia e dalla morte»3, non fosse stato in grado di rivedere il suo lavoro. Cosí, avverte Branca fin dall’inizio, si nota «qualche differenza tra le due diverse parti […] Essa non poteva essere uniformata per il dovuto rispetto all’opera dell’autorevole collaboratore scomparso»4.
Fatto salvo il «rispetto» che uno studioso come Ricci ha meritato con l’insieme del suo lavoro, non credo che si sia trattato di una scelta giudiziosa. Immaginiamo un lettore curioso, non sufficientemente attrezzato per affrontare il latino di Boccaccio e che si sia affidato alla traduzione: non passeranno molte pagine e si imbatterà in diverse soluzioni sconcertanti per quel tanto di competenza che può venirgli dal latino classico, ma soprattutto dal buon senso.
Mi limiterò a un solo esempio. Tutti conoscono la storia di Sansone e Dalila, e grande non può che essere la sorpresa quando troviamo una prostituta che, contrariamente a ogni tradizione e risultanza storica, non è piú corrotta dal denaro (corrupta pecunia), ma del denaro si serve per corrompere Sansone:
Nam dum sibi nimium confideret, et meretriculam – nomine Dalilam – apud hostes degentem adamaret perdite, ab ea corrupta pecunia post lusiones aliquas paucis lacrimulis exortum est in quibus tanti roboris permaneret causa.
[Troppo fidava in se stesso, e perdutamente amava quella puttanella che si chiamava Dalila e che risiedeva dove erano i nemici. Corrompendolo col denaro, dopo alquante moine e con poche lacrimette, ella fece uscire in che consistesse la causa di tanta sua forza]5.
Non è purtroppo la sola «sorpresa»: numerose altre, dove il ridicolo si mescola al grottesco, ci aspettano man mano che avanziamo nella lettura e ci imbattiamo nei cento prepuzi di Filistei «acquistati» da David su richiesta di Saul, con un’imbarazzante distorsione del testo biblico (Samuele, I 18, 21-27). O nella terribile morte di Ioram, che dopo una lunga malattia (egritudine: degenza?) emette etiam viscera per posterius, che diventa incomprensibilmente «emette nelle feci anche le viscere».
Meglio fermarci qui. Bastano questi esempi per mettere in dubbio l’opportunità di una simile forma di «rispetto» nei confronti di uno studioso che può vantare tanti titoli alla riconoscenza dei lettori di Boccaccio. È stato messo in circolazione un lavoro evidentemente frettoloso e bisognoso di ulteriori revisioni, rese impossibili con ogni probabilità dalla malattia.
Se, dopo molte esitazioni, ho posto in rilievo queste sviste, è perché fin dall’inizio ho voluto chiarire un punto di importanza fondamentale: non esistono gli «infallibili», anche se alcuni hanno creduto di potersi tacitamente arrogare tale titolo; non esistono edizioni critiche o studi privi di pecche, anche se è indispensabile fare tutto il possibile per ridurre il margine di errore. Non bisogna mai dimenticare quello che Contini ha detto in anni ormai lontani, vale a dire che «un’edizione critica è, come ogni atto scientifico, una mera ipotesi di lavoro»6. E a maggior ragione lo è uno studio o un saggio dove si propone un’interpretazione che non potrà in alcun caso essere definitiva.
Dunque non lasciatevi mai intimorire e non accettate conclusioni che siano basate sul principio di autorità e non sulla ragione e la lettera dei testi. Non fidatevi prima di tutto delle mie parole, ma controllatele con sguardo equilibrato. Tutto questo, naturalmente, sembra andare da sé, ma c’è stata in Italia una generazione, di cui un grande critico ha stilato la «probabile autobiografia», che è cresciuta all’ombra di Croce e che si sentiva perennemente in obbligo di «rendere conto» a Croce delle proprie iniziative, delle proprie strategie e dei propri risultati, che dovevano essere in sintonia con la soffocante armonia dell’Estetica7. Quella stagione (faticosamente e con molti strascichi) si è chiusa e tuttavia ha lasciato dietro di sé un pericoloso retaggio: la necessità (piú psicologica che istituzionale) di «rendere conto», di coprirsi continuamente le spalle con citazioni non funzionali al discorso che si viene svolgendo, ma difensive, di copertura e di scuola, preoccupate di non scalfire quella «centrale dei divieti» di cui, a suo tempo, Freud sembrava avere scosso definitivamente le fondamenta8.
Quello che vi chiedo è di avere l’audacia di rendere conto solo a quanto stiamo leggendo, solo a quanto è scritto, senza arretrare di fronte alle ingiunzioni, agli sbarramenti e agli imperativi, senza mai mettere a tacere – per difendere le vostre, le nostre conclusioni – alcun segmento del testo. In caso contrario finiremmo, magari senza saperlo, in forma subdola e non appariscente, per essere gli eredi di quei censori che, lo vedremo, tagliavano e sostituivano, quando non rielaboravano, con puntini di sospensione tutto quanto sembrava offendere la loro coscienza di buoni (o almeno di coatti) cattolici. Per essere ancora piú espliciti: nell’avvicinare un classico della letteratura italiana mi propongo, e vi propongo, da un lato uno sforzo per restare continuamente conformi alla lettera del testo e dall’altro di praticare, nel corso della lettura, l’esercizio di una ragionevole e controllata eterodossia.
Bisognerà partire dalla lingua, nella quale molti, non senza ragione, hanno creduto di potere identificare i motivi della disaffezione, fino a spingersi a una proposta drastica e che sembra avere avuto, e avere, qualche fortuna: tradurre quei testi che al lettore non attrezzato presentano difficoltà talvolta insormontabili o tali, comunque, da scoraggiare ogni frequentazione extrascolastica. I risultati sono stati piú o meno felici ma senza evitare, anche nei casi migliori (come la rivisitazione del Decameron da parte di Aldo Busi), un catastrofico danno collaterale, quello di proiettare gli originali nell’iperuranio dell’illeggibile dopo averne soppresso, una volta per tutte, i possibili lettori.
Non credo che si tratti di una scelta oculata, dal momento che al massimo può portare a salvare una serie di fantasmi, cosí come – su un altro piano – non mi sembra condivisibile l’opzione, sempre piú diffusa, di servirsi della letteratura per parlare d’altro, per affacciarsi su universi contigui, ma talvolta anche lontanissimi, senza tenere conto di questa «cosa» che ho qui davanti a me, che ha una sua specificità e unicità e a cui mi sembra eticamente necessario riferire ogni mia parola.
La filologia, ha detto Nietzsche, è «un’arte onorevole», anche se non riesce mai a risolvere in fretta le proprie questioni: «essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardando avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati»9. È un’arte inattuale; i suoi orologi sono artigianali e tarati in modo apparentemente incompatibile con il mondo che ci circonda: per questo bisognerà distruggerli?
Per parte nostra leggeremo lentamente, andremo avanti e indietro e non ci preoccuperemo se alcune (o molte) porte resteranno aperte e se i sentieri si interromperanno bruscamente o saremo costretti ad abbandonarli. La strumentazione di cui ci serviremo sarà deliberatamente leggera e ogni volta andrà sottoposta a verifica, senza per questo rinunciare a possibili azzardi, perché la prudenza, per quanto indispensabile, non è né la sola né la principale virtú di chi si avventura nei labirinti di un testo che ha preso forma attorno alla metà del Trecento. Nel frattempo ci atterremo a un principio inderogabile, enunciato nel modo piú chiaro da Jacques Lacan, che certamente filologo non era, quand...