Storia senza perdono
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Storia senza perdono

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Storia senza perdono

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La Shoah, lo sterminio degli ebrei d'Europa da parte del nazismo, è una vicenda la cui efferatezza non ha precedenti. Ma per rendere conto di questa tragedia, quanto è importante il ruolo dei testimoni e quanto quello della storiografia? È il tema di questo intenso libro di Walter Barberis. Esso inizia con una frase di Primo Levi: «La memoria è uno strumento meraviglioso, ma fallace», che subito individua l'universo concettuale del libro. Di fronte alla scomparsa, giorno dopo giorno, dei testimoni oculari, di fronte al pericolo di una caduta nell'oblio, si rende necessario un nuovo vaglio delle testimonianze acquisite e dei loro limiti. Ma soprattutto, un ricorso deciso alla storia, disciplina chiave per la trasmissione del sapere e per una solida comprensione di ciò che è stato. Il testo rende conto dei diversi aspetti della ricezione della Shoah, da un iniziale disinteresse e incredulità nei confronti dei sopravvissuti, a una successiva "ipertrofia" della memoria - l'«era del testimone» - fino a non isolati e clamorosi casi di impostura.

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Informazioni

Storia senza perdono

Alla memoria di Giuliana Tedeschi
testimone e maestra di vita
Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che valesse la pena di documentare queste cose perché erano finite. Adesso non sono piú finite: bisogna parlarne di nuovo.
PRIMO LEVI, 1973.
«La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace». In questa affermazione di Primo Levi, pulita e precisa come sempre, sono gli aggettivi che fanno riflettere. Perché sottolineano tutta la aleatorietà dei nostri sforzi per ricordare avvenimenti e tempi trascorsi; e perché sottraggono a ogni meccanismo fisico o psichico la possibilità di una esattezza, cioè di una verità che è difficile da scoprire e da comunicare.
Levi, divenuto con gli anni testimone eccellente, oltre ogni supposizione originaria, sapeva bene che qualsiasi ricerca pretende di giungere alla verità, in una tensione costante quanto vana. O almeno, parzialmente vana. Anche i matematici piú rigorosi, anche i metrologi, devono aggiornare i loro calcoli, rettificare una rotta, verificare una misura. Figurarsi le persone che vogliano ricordare una esperienza vissuta in un laboratorio irripetibile. E cosí carico di conseguenze traumatiche.
E, tuttavia, la memoria è indispensabile, anche nella sua fragilità; è materia di prova, non esclusiva, neppure decisiva, ma necessaria. Nel caso della Shoah imprescindibile e terribile, fondamentalmente utile e al tempo stesso instabile.
Fare storia, in questo caso, cioè capire cosa sia successo e come e perché, è stato ed è talmente difficile che persino i modi con cui è stata riattivata la memoria hanno avuto una loro storia, dei momenti diversi e successivi, con i loro relativi perché.
È noto che alla fine della guerra, per quasi un decennio, a prevalere fu il silenzio.
Per molte ragioni.
Intanto, la guerra contro la memoria concepita dai nazisti aveva e avrebbe continuato ad avere un certo successo. Il fatto era troppo grande per essere subito messo a fuoco: non un omicidio, ma un genocidio. Non esisteva neppure un termine per definire ciò che era successo. Non l’eliminazione, per quanto abominevole e su enorme scala, di nemici stranieri o avversari politici; ma un piano di sterminio di un intero popolo.
A quel crimine contro l’umanità avevano collaborato in molti, in Germania e altrove. In Francia, in Italia e in molti altri Paesi. Tantissime persone, e gli Stati, alla fine della guerra, preferivano occultare un passato compromettente e cupo immaginando e promettendo nella pace ritrovata un miraggio di benessere. I conti col passato si dovevano chiudere assai presto, e non solo sul piano giudiziario. I piú, non solo i collaborazionisti, ma i tantissimi inerti, la maggioranza dimissionaria da qualunque responsabilità morale e civile, si adoperarono perché i cattivi ricordi si estinguessero in una dissolvenza notturna. Affinché amnesia e amnistia consolassero in primo luogo le loro mezze coscienze.
E poi, proprio nei Paesi che avevano conosciuto l’onta dell’intesa con i nazisti, quelli dove i fascisti di varie specie avevano dovuto soccombere ai movimenti popolari di resistenza, era cresciuto un nuovo racconto nazionale, quello dell’epica antifascista; del tutto giustificato, per quanto destinato a irrigidirsi col tempo in una formula retorica. Fu il caso dell’Italia, soprattutto al Nord, mai cosí inebriata dall’orgoglio di essersi liberata da un regime e da occupanti criminali. Come non era successo prima, neppure nel Risorgimento.
La memoria fu da subito quella della Guerra di liberazione. Quella di coloro che potevano riprendere voce in un contesto che rapidamente era diventato repubblicano e regolato da una lungimirante Costituzione democratica. La letteratura ne era buona testimone. Con rarissime eccezioni, i racconti dei sopravvissuti dai Lager furono considerati un grumo memoriale informe, un doloroso rendiconto di un danno collaterale della guerra; esperienze tutte uguali, tremende, ma senza venature epiche capaci di contendere l’attenzione del pubblico alle prove letterarie dei resistenti. Si pensi a Levi, per l’appunto, trascurato da Pavese, da Vittorini, da Natalia Ginzburg, e da Giulio Einaudi naturalmente. Frainteso e respinto, ricondotto a un suo angolo, mentre il grande spazio e le luci di scena esaltavano il giovane Calvino, e a seguire Cassola, Pratolini, Viganò, Meneghello, fino a Fenoglio e oltre. Anche chi aveva indossato la camicia nera riceveva l’onore delle armi e il riconoscimento di una ragione, da Giuseppe Berto a Giose Rimanelli. In fondo, quella generazione aveva vissuto la difficile esperienza della scelta, e il minimo scarto delle storie familiari o locali aveva determinato l’appartenenza alla parte buona o lo scivolamento in quella cattiva. Vincitori e vinti riportavano comunque l’aria di momenti esaltanti, crudeli, fratricidi; ma emozionanti e gonfi di significati. Il vento che soffiava era quello. Persino fra i reduci dai Lager, quelli riconosciuti come politici, quelli di Mauthausen, mettevano in ombra i salvati per caso, gli ebrei e basta, quelli di Auschwitz.
Come collocare il lamento dei pochi superstiti di uno sterminio epocale, senza eroi riconoscibili e con una massa imprecisabile di vittime? Come fare a dare senso all’aria stagnante che spirava dai campi dove avevano trovato la tortura e la morte buona parte degli ebrei d’Europa? I nazisti e i fascisti avevano perso. Era un’ottima premessa per guardare avanti e non soffermarsi sulle piú varie e opposte recriminazioni.
In fondo, anche il nemico aveva cambiato volto e simboli; e quello era adesso il terreno su cui contendere le sorti del mondo. Che avessero preso Berlino e lasciato sui campi di battaglia venti milioni di morti aveva ormai poca importanza; i sovietici erano i nuovi, vecchi nemici della democrazia occidentale, e la loro storia evocava sí la suggestione della rivoluzione proletaria, ma anche e soprattutto agli occhi dei piú, una povertà diffusa e l’aria gelida e sinistra dei gulag siberiani. Da subito, o comunque ben presto, l’ombra dell’orso russo poteva ben dirsi analoga, nella categoria generalizzante e relativista del totalitarismo, a quella dell’aquila nazista. Vi era del male non solo nelle file dei vinti; anche i vincitori avevano storie da non raccontare, capi e comprimari da dimenticare.
Ma vi era dell’altro. Il silenzio, appena incrinato da qualche voce, degli stessi ebrei reduci dalla Shoah era qualcosa di strano e per lungo tempo trascurato. Tacevano per pudore, per l’incredulità degli interlocutori, perché sopraffatti dal dolore delle molte perdite, per una afasia insuperabile e incapace di trasformarsi in grida? Perché?
Uno dei cantori piú rispettati della Resistenza, Piero Calamandrei, aveva indirizzato al feldmaresciallo Kesselring, responsabile delle piú feroci stragi in Italia, le seguenti parole:
Lo avrai,
camerata Kesselring
il monumento che pretendi […]
Non con i sassi affumicati
Dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
Non colla terra dei cimiteri
Dove i nostri compagni giovinetti
Riposano in serenità […]
Ma soltanto col silenzio dei torturati
Piú duro d’ogni macigno.
Anche il silenzio aveva due diverse dignità. L’uno che riconduceva all’estremo coraggio di chi aveva resistito alla tortura, di chi non aveva parlato, di chi non aveva compromesso i suoi compagni di lotta: e perciò era morto, lasciando mogli, figli e genitori. E dunque, a giusto titolo, era entrato nel memoriale dei condannati a morte della Resistenza.
Ma il silenzio di chi era accidentalmente scampato allo sterminio nazista sembrava non avere meriti né ragioni, anzi pareva adombrare uno smarrimento, un sentimento di vergogna, se non un vero e proprio senso di colpa.
Fra le voci talvolta altisonanti di chi aveva combattuto contro il nazifascismo e il sordo rumoreggiare dei tanti che sostenevano l’opportunità politicamente terapeutica dell’oblio, l’ebreo che avesse raccontato la sua storia correva anche il rischio di apparire come chi vede ciò che gli altri non vedono, cioè di apparire sconvolto da allucinazioni. E non era forse del tutto fuori luogo questa immagine. Perché l’esperienza di chi era passato attraverso il Lager non era simile a nessun’altra e il peso della memoria era difficile da sostenere; ancor piú da trasformare in un possibile racconto, o elaborare in una lezione di storia e di vita civile. Primo Levi lo sapeva bene, lui che non aveva toccato il fondo dello sterminio, ma lo aveva visto con chiarezza: il ricordo di quei momenti e di quei luoghi era spesso confuso, alleggerito dalle rimozioni, corroso dal tempo, deviato da versioni consolatorie, instabile fra la sensazione di aver patito la piú grande delle ingiustizie e «la colpa» di una sopravvivenza immeritata.
Grandi filosofi ed esponenti della tradizione ebraica, d’altronde, avevano sostenuto che dimenticare era una risorsa benefica, mentre viceversa il ricordo del passato era una forma permanente di inquietudine e di disturbo. Anche la tradizione religiosa richiamava a un atteggiamento mentale che non andasse alla deriva nella depressione; poiché la fede in Dio non può compatire la disperazione, la malinconia, la sfiducia in se stessi e nel prossimo.
Ma poi, piú concretamente, il reduce da un Lager aveva visto venire meno ogni principio di solidarietà, aveva conosciuto la perdita della dignità della persona, aveva dovuto assistere ad atrocità e affrontare il buio di situazioni che ora, alla luce abbagliante di una vita ritrovata, gli facevano socchiudere gli occhi e tremare la voce. Ecco perché la memoria, pur meravigliosa, era difficile da districare nel groviglio di immagini infernali che il sopravvissuto, il salvato, portava con sé.
Né si poteva immaginare di trasformare quella materia del proprio passato in una realtà romanzesca, in una autobiografia che andasse oltre i fatti; erano quelli che andavano raccontati, perché erano quelli che avevano dato e tolto senso alla vita di chi li aveva vissuti. Quei fatti avevano aggiunto un lineamento particolarissimo all’identità ebraica. Erano fatti storici, di interesse collettivo, e al tempo stesso profondamente incisivi sulla personalità individuale; doverosamente memorabili per il bene di ogni comunità e al tempo stesso difficili da mettere a fuoco dalla precaria memoria della persona. Come elaborare insieme un lutto individuale e un lutto collettivo? Persino una figura robusta culturalmente e politicamente come Marek Edelman, già animatore della rivolta del ghetto di Varsavia ed eminente rappresentante del Bund, avrebbe taciuto per decenni. Anche la resistenza ebraica non era entrata a pieno titolo nell’epopea della Resistenza. E gli ebrei resistenti erano stati riconosciuti in quanto appartenenti a formazioni partigiane politicamente connotate, territorialmente organizzate. Laici e non credenti, molti di loro avevano messo in secondo piano il fatto di essere ebrei. Ma questo non era possibile, non era piú possibile, per chi era stato preso e fortunosamente uscito dal turbine della Shoah.
È però un dato di fatto che questa congerie di fattori ridusse per anni al silenzio non solo i possibili testimoni, ma intere comunità; quelle ebraiche della diaspora e gli stessi ebrei di Israele, sopravvissuti o figli, parent...

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  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Storia senza perdono
  4. Nota tematica e bibliografica
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright