Insieme ma soli
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Insieme ma soli

Perché ci aspettiamo sempre piú dalla tecnologia e sempre meno dagli altri

  1. 424 pagine
  2. Italian
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Insieme ma soli

Perché ci aspettiamo sempre piú dalla tecnologia e sempre meno dagli altri

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La vita intima di tutti noi dipende sempre piú dalla tecnologia. Navigando sui social, ci illudiamo di far parte di un gruppo di amici, che troviamo a centinaia su Twitter e Facebook, confondendo le miriadi di messaggi con la comunicazione autentica. Ma questa continua connessione produce solo una nuova solitudine. Secondo Sherry Turkle, l'aumento vertiginoso delle nostre interazioni con i supporti tecnologici mette gravemente in crisi le nostre vite emotive. Basato su centinaia di interviste raccolte in anni di ricerche sul campo, Insieme ma soli descrive le recenti, preoccupanti trasformazioni dei rapporti con amici, persone amate, genitori e bambini, e tutta la precarietà delle nostre certezze relative a privacy e comunità, intimità e solitudine. Un libro fondamentale per comprendere in tutta la sua complessità l'impatto psicologico, percettivo e sociale del mondo digitale sulle nostre vite. Con una nuova prefazione alla terza edizione americana.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858432051
Categoria
Anthropology
Parte prima

Il momento robotico

Nella solitudine, nuove intimità
Capitolo primo

Vicini piú prossimi

Il mio primo contatto con un programma per computer che offriva compagnia avvenne a metà degli anni Settanta. Ero tra gli studenti del Mit che usavano ELIZA di Joseph Weizenbaum, un programma che intraprendeva colloqui con lo stile di uno psicoterapista. Cosí un utente scriveva un pensiero ed ELIZA lo rifletteva in un linguaggio che offriva sostegno o chiedeva chiarimenti1. A una frase come: «Mia madre mi sta facendo arrabbiare», il programma poteva rispondere: «Parlami ancora di tua madre», o magari: «Perché nutri questi sentimenti cosí negativi verso tua madre?» ELIZA non aveva un modello di madre, né un modo per rappresentare il sentimento della rabbia. Ciò che sapeva fare era prendere delle stringhe di parole e trasformarle in domande o riformularle come interpretazioni.
Gli studenti di Weizenbaum sapevano che il programma non era in grado di sapere o capire; eppure volevano chattare con lui. E, soprattutto, volevano stare da soli con lui. Volevano raccontargli i propri segreti2. Di fronte a un programma che sembra provare empatia, benché minima, la gente desidera dire qualcosa di vero. Ho visto centinaia di persone scrivere la prima frase nel programma ELIZA. In genere cominciano con: «Come va?» O: «Ciao». Ma dopo quattro o cinque scambi, molti passano a «La mia ragazza mi ha lasciato», «Ho paura di essere bocciato all’esame di chimica organica» o «Mia sorella è morta».
Poco dopo, sempre al Mit, Weizenbaum e io stavamo tenendo un corso su computer e società. Le lezioni erano vivaci. In classe lui si lamentava di quanto potesse essere ingannevole il suo programma, mentre io non ero altrettanto preoccupata: consideravo ELIZA una specie di Rorschach, il test psicologico con le macchie di inchiostro. Le persone usavano il programma come uno schermo proiettivo su cui esprimere se stesse. Sí, pensavo, intraprendevano conversazioni personali con ELIZA, ma lo spirito era «come se»: parlavano come se ci fosse stato qualcuno ad ascoltare, ma sapevano di essere il proprio stesso pubblico. Si facevano coinvolgere dall’esercizio. Pensavano: Adesso parlo a questo programma come se fosse una persona. Mi sfogo, mi arrabbio, mi tolgo un peso. E mentre alcuni, conoscendo sempre meglio il programma, riuscivano a indurlo in errore, molti altri usavano questa stessa conoscenza dall’interno per dare a ELIZA delle risposte che l’avrebbero reso piú vivo: si davano da fare per tenere in gioco il programma.
Weizenbaum trovava preoccupante che i suoi studenti venissero in qualche modo ingannati dal programma, credendo – contrariamente a tutto ciò che sapevano essere vero – di trovarsi di fronte a una macchina intelligente. Si sentiva quasi in colpa per aver creato una macchina ingannevole. Ma i suoi smaliziati studenti non si facevano ingannare: conoscevano benissimo i limiti di ELIZA, ma erano entusiasti di «riempirne gli spazi vuoti».
Arrivai a chiamare questa complicità umana rispetto a una fantasia digitale «effetto ELIZA». Fino agli anni Settanta ritenevo che la complicità con la macchina non fosse niente di piú preoccupante che voler migliorare il funzionamento di un diario interattivo, ma in seguito mi resi conto di avere sottovalutato ciò che tali connessioni lasciavano presagire: nel momento robotico, piú che mai, la nostra disponibilità a interagire con l’inanimato non è dovuta a un inganno, bensí alla voglia di riempire gli spazi vuoti.
Oggi, oltre quarant’anni dopo che Weizenbaum scrisse la prima versione di ELIZA, le intelligenze artificiali note con il nome di «bot» si presentano come una compagnia ai milioni di utenti di videogame in internet. In questi mondi di giochi sembra ormai naturale «conversare» con i bot su svariati argomenti, che siano romantici o di routine. E, come si vede, dal farsi salvare la «vita» da un bot conosciuto in un mondo virtuale si può passare facilmente al provare per lui un certo affetto, e non lo stesso tipo di affetto che si potrebbe nutrire per uno stereo o un’auto, per quanto questi possano essere amati. Intanto, nella realtà fisica, la situazione evolve rapidamente. I popolari criceti robot Zhu Zhu escono dalla scatola in «modalità coccole». La biografia ufficiale dello Zhu Zhu di nome Chuck dice: «Vive per sentire l’amore». Per gli anziani è da poco in vendita Paro, un cucciolo robotizzato di foca da abbracciare; dopo il successo ottenuto in Giappone, si rivolge al mercato delle case di riposo americane. Gli esperti di robotica sostengono che gli anziani abbiano bisogno di un robot da compagnia per la mancanza di risorse umane. Quasi per definizione, affermano, i robot miglioreranno le nostre vite.
Mentre alcuni esperti di robotica sognano di riprodurre artificialmente l’amore, altri si accontentano del sesso3. A febbraio 2010 ho cercato in Google l’espressione «sex robot» trovando 331 000 risultati, il primo dei quali collegato a un articolo intitolato Inventor Unveils $7,000 Talking Sex Robot («Inventore svela robot sessuale parlante da 7000 dollari»). Roxxxy, ho saputo, «potrebbe essere il piú sofisticato robot sessuale parlante al mondo»4. Le truppe d’assalto del momento robotico, vestite in lingerie, si starebbero avvicinando piú di quanto molti di noi abbiano mai immaginato; e, grazie all’effetto ELIZA, non perché siano pronti i robot, ma perché lo siamo noi.
In un servizio del telegiornale su un robot giapponese progettato con l’aspetto di una donna sexy, un giornalista spiega che, sebbene oggi il robot funzioni solo come receptionist, i suoi progettisti sperano che un giorno possa fare da insegnante o compagna. Il giornalista, tutt’altro che scettico, colma il divario tra il goffo robot che ha davanti e l’idea di qualcosa di simile a una moglie robot, parlando della «singolarità». Chiede all’inventore del robot: «Quando arriverà la singolarità, nessuno può immaginare dove lei [il robot] potrebbe andare. Non è cosí?… E come saranno questi robot dopo la singolarità? Non sarà la singolarità a darci i robot che un giorno ci sorpasseranno?»
La singolarità? Questo concetto è passato dalla fantascienza all’ingegneria. La singolarità è il momento – leggendario, in quanto richiede un atto di fede – in cui l’intelligenza delle macchine supera il punto critico5. Dopo questo punto, sostengono coloro che ne sono convinti, l’intelligenza artificiale andrà oltre qualunque cosa possiamo concepire oggi. Poco importa se attualmente i robot non sono ancora presentabili neanche come receptionist; al momento della singolarità tutto diventerà tecnicamente possibile, compresi i robot in grado di amare. Anzi, potremo fonderci con il robotico e raggiungere l’immortalità. La singolarità è un’estasi tecnologica.
Quanto alle preoccupazioni di Weizenbaum che le persone fossero aperte alla psicoterapia con i computer, la sua impressione che stesse accadendo qualcosa era giusta. Verso la fine degli anni Settanta c’era una notevole reticenza nei confronti della psicoterapia con i computer, ma ben presto le opinioni cambiarono6. L’arco di questa storia non riflette le nuove capacità delle macchine di capire le persone, bensí il cambiamento di idee in merito alla psicoterapia e al funzionamento della propria mente, entrambi visti in termini piú meccanicisti7. Trent’anni fa, quando la psicoanalisi occupava un ruolo piú centrale nel dibattito culturale, molti percepivano l’esperienza della terapia come un contesto in cui riuscire a vedere la storia della propria vita in termini differenti. Questo si otteneva acquisendo un’intuizione e sviluppando una relazione con un terapista, il quale offriva un luogo sicuro per affrontare problemi complicati. Oggi molti considerano la psicoterapia non tanto un’indagine sul significato della propria vita, quanto un esercizio finalizzato a ottenere un cambiamento comportamentale o a lavorare sulla chimica del cervello. In questo modello il computer diventa rilevante in vari modi: può contribuire alla diagnosi, essere impostato con programmi per la terapia cognitiva comportamentale e fornire informazioni su medicinali alternativi.
La precedente ostilità verso l’idea di un computer come psicoterapista rientrava in una reazione «romantica» alla presenza del computer; la sensazione che ci fossero luoghi dove esso non sarebbe mai potuto, né dovuto, andare. In sintesi, la reazione romantica suggeriva: «Un pensiero simulato potrebbe essere un pensiero, ma un sentimento simulato non è un sentimento: l’amore simulato non è mai amore». Oggi quella reazione romantica ha sostanzialmente lasciato il posto a un nuovo pragmatismo. I computer continuano a non «capire» l’esperienza umana, per esempio che cosa significhi invidiare un fratello o una sorella, o sentire la mancanza di un genitore deceduto. Però sono piú bravi che mai nel rappresentare la comprensione, e noi siamo soddisfatti di recitare la nostra parte. In fondo tutta la nostra vita online è una questione di rappresentazione: è ciò che facciamo nei social network, e nei mondi virtuali dirigiamo la rappresentazione del nostro avatar. Nel momento robotico il valore della rappresentazione è di importanza fondamentale: viviamo il momento robotico non tanto perché nella nostra vita ci siano robot da compagnia, quanto perché il modo in cui li contempliamo all’orizzonte la dice lunga su chi siamo e chi siamo disposti a diventare.
Come siamo arrivati a questo punto? La risposta alla domanda si nasconde bene in vista, nel disordine della cameretta dei giochi, e nelle reazioni dei bambini di fronte ai giocattoli robot. Da adulti possiamo sviluppare e cambiare le nostre opinioni; durante l’infanzia stabiliamo la verità del nostro cuore.
Da tre decenni osservo bambini con giocattoli computerizzati sempre piú complessi. Ho visto che la definizione di questi giocattoli è passata da «piú o meno vivi» ad «abbastanza vivi», nel linguaggio della generazione che nell’infanzia ha giocato con i robot sociali (sotto forma di animali o bambole digitali). L’arrivo ad abbastanza vivi segna uno spartiacque. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta i bambini cercavano di operare distinzioni filosofiche sull’essere vivi per classificare i computer; oggi, quando i bambini definiscono i robot abbastanza vivi «per scopi specifici», non cercano di risolvere questioni astratte, ma sono pragmatici. Robot diversi vanno considerati nel giusto contesto, caso per caso: è abbastanza vivo da essere un amico, un babysitter o un compagno per i tuoi nonni?… E a volte la questione diventa piú delicata: se un robot vi fa innamorare di sé, è vivo?

La vita riconsiderata.

Tra gli anni Settanta e Ottanta i bambini conobbero i loro primi oggetti computazionali: giocattoli come Merlin, Simon e Il Grillo Parlante. Questa prima generazione di computer nella cameretta dei giochi sfidava i bambini in gare di memoria e ortografia, battendoli regolarmente a tris e a Hangman8. I giocattoli, reattivi e interattivi, trasformavano i bambini in filosofi; in particolare, i bambini si chiedevano se qualcosa di programmato potesse essere vivo.
Qui il punto di partenza dei bambini è la loro rappresentazione animistica del mondo; cominciano a capirlo nei termini di ciò che conoscono meglio, cioè se stessi. Perché la pietra rotola giú per il pendio? «Per arrivare in fondo», risponde il bambino piccolo, come se la pietra avesse una volontà propria. Ma col tempo l’animismo lascia spazio alla fisica: il bambino impara che una pietra cade a causa della gravità, e che le intenzioni non hanno niente a che fare con tutto questo. Si costruisce cosí una dicotomia: proprietà fisiche e psicologiche si contrappongono in due grandi sistemi. Il computer è un nuovo tipo di oggetto: è psicologico, ma è una cosa. Gli oggetti ibridi come i computer, ponendosi ai confini che delimitano le categorie, indirizzano l’attenzione sul modo in cui abbiamo tracciato quei confini9.
Lo psicologo svizzero Jean Piaget, a colloquio con dei bambini negli anni Venti, scoprí che stabilivano se un oggetto fosse vivo o meno in base al suo movimento fisico10. Per i piú piccoli tutto ciò che era in grado di muoversi era vivo; in seguito, solo ciò che si muoveva senza spinta o trazione esterna. Classificare persone e animali era facile; mentre le nuvole, che sembravano muoversi autonomamente, erano classificate come vive finché i bambini non si rendevano conto che le spingeva il vento, una forza esterna ma invisibile. Le automobili venivano riclassificate come non vive quando i bambini capivano che i motori erano da considerare una spinta «esterna». Infine, l’idea del movimento autonomo si focalizzava su respirazione e metabolismo, i movimenti piú peculiari della vita.
Negli anni Ottanta, di fronte agli oggetti computazionali, i bambini cominciarono a rivalutare la questione dell’essere vivi, passando dalla fisica alla psicologia11. Quando consideravano un giocattolo in grado di batterli nell’ortografia, ciò che interessava loro non era se potesse muoversi da solo, bensí se potesse pensare da solo. I bambini chiedevano se questo gioco «sapeva». Aveva imbrogliato? Sapere faceva parte dell’imbroglio? Erano affascinati dal fatto che giochi e videogame dimostrassero una certa autonomia. Quando una prima versione di Speak & Spell, che comprendeva giochi linguistici e di ortografia, ebbe un bug di programmazione e non si poteva spegnere durante il gioco Say it, i bambini gridavano in preda all’entusiasmo, togliendo infine le batterie del gioco per «ucciderlo» e poi (reinserendo le batterie) «resuscitarlo». Nelle loro animate conversazioni su vita e morte dei computer, i bambini degli anni Ottanta imposero un nuovo ordine concettuale a un nuovo mondo di oggetti12. Negli anni Novanta quell’ordine fu deformato fino all’estremo. I mondi della simulazione, per esempio i giochi Sim, pulsavano con forme di vita in evoluzione; mentre la cultura dei bambini, dai film ai cartoni fino ai modellini (action figure), era sommersa di immagini di oggetti computazionali (da Terminator ai virus digitali) che cambiavano forma. I bambini venivano incoraggiati a pensare che la materia dei computer fosse la stessa materia della vita. Una bambina di otto anni definiva la vita meccanica e quella umana «tutta la stessa cosa, soltanto uno stupido plasma-pasta di computer». Tutto questo portò a parlare dell’essere vivi in un modo nuovo: ora, nel considerare la computazione, i bambini parlavano degli aspetti evolutivi oltre che cognitivi. E parlavano di una nuova mobilità, di tipo speciale. Nel 1993, una bambina di dieci anni si chiedeva se le creature nel gioco SimLife fossero vive: decise di sí, nel caso fossero riuscite a «spostarsi dal tuo computer fino ad America Online»13.
Qui il racconto di Piaget sul movimento si è ripresentato con un nuovo aspetto. I bambini spesso attribuivano alle creature nei giochi di simulazione un desiderio di uscire dai loro confini ed entrare in un piú vasto mondo digitale. E quindi, a partire dalla fine degli anni Novanta, arrivarono creature digitali che cercavano di impressionare i bambini non con l’intelligenza, bensí con la socievolezza. Cominciai un lungo studio sulle interazioni dei bambini con queste nuove macchine. Naturalmente, dicevano che il movimento e l’intelligenza di un robot sociale erano i suoi segni di vita; ma i bambini erano piú preoccupati di ciò che potessero sentire questi nuovi robot. Come criterio per giudicare se un robot fosse vivo, niente era paragonabile al suo aspetto affettivo.
Prendete in considerazione quanto i pensieri si trasformino in sentimenti, quando tre bambini delle elementari discutono se un Furby, una creatura simile a un gufo che gioca e sembra imparare l’inglese con la guida di un bambino, sia vivo. La prima, una bimba di cinque anni, può solo paragonarlo a un Tamagotchi, una piccola creatura digitale su uno schermo a Led che a sua volta chiede di essere amata, assistita e fatta divertire. Si chiede «[Il Furby] è vivo?», e risponde «Beh, gli voglio bene. È piú vivo di un Tamagotchi perché dorme con me. Gli piace dormire con me». Un bambino di sei anni crede che qualcosa di «vivo come un Furby» abbia bisogno di braccia. «Magari vuole raccogliere qualcosa o abbracciarmi». Una bambina di nove anni considera la questione commentando: «Mi piace molto occuparmi di lui… è vivo per quanto si può essere vivi senza mangiare… non è vivo come un animale».
All’inizio dei miei studi su bambini e computer, verso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota dell’autrice. Punti di svolta
  4. Prefazione all’edizione 2017
  5. INSIEME MA SOLI
  6. Introduzione
  7. Parte prima. Il momento robotico. Nella solitudine, nuove intimità
  8. Parte seconda. Tutti connessi. Nell’intimità, nuove solitudini
  9. Conclusioni. Conversazioni necessarie
  10. Epilogo. La lettera
  11. Indice analitico
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright