Il richiamo della tribù
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Il richiamo della tribù

  1. 264 pagine
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Il richiamo della tribù

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«La dottrina liberale ha rappresentato dalle sue origini la forma piú avanzata della cultura democratica e ciò che piú ci ha consentito di difenderci dall'inestinguibile "richiamo della tribú". Questo libro cerca di contribuire con un granello di sabbia a questo indispensabile compito». Cosí scrive Mario Vargas Llosa spiegando il titolo di questo libro. Ad essere protagoniste qui sono le letture che hanno forgiato il suo modo di pensare e vedere il mondo negli ultimi cinquant'anni. È una cartografia dei pensatori liberali che lo hanno aiutato a sviluppare un nuovo corpus di idee dopo il grande trauma ideologico determinato dal disincanto verso la Rivoluzione cubana e dall'allontanamento dalle idee di Sartre. Adam Smith, José Ortega y Gasset, Friedrich von Hayek, Karl Popper, Raymond Aron, Isaiah Berlin e Jean-François Revel furono di enorme aiuto a Vargas Llosa durante gli anni del suo disagio intellettuale, mostrandogli altre tradizioni di pensiero che privilegiavano l'individuo di fronte alla tribú, alla nazione, alla classe o al partito, e che difendevano la libertà di espressione come valore fondamentale per l'esercizio della democrazia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858432099
Capitolo quarto

Sir Karl Popper (1902-1994)

Una vita nel suo secolo.

Senza Hitler e i nazisti Karl Popper non avrebbe mai scritto il libro chiave del pensiero democratico e liberale moderno, La società aperta e i suoi nemici (1945), e probabilmente sarebbe vissuto come qualunque altro oscuro professore di Filosofia della scienza, confinato nella sua Vienna natale. Si conosceva molto poco dell’infanzia e della giovinezza di Popper – la sua autobiografia, La ricerca non ha fine (Unended Quest, 1976), testimonianza esclusivamente intellettuale, sorvola quasi del tutto su di esse – prima dell’uscita del libro di Malachi Haim Hacohen, Karl Popper. The Formative Years 1902-1945 (2000), esaustiva ricerca su quelle tappe della sua esistenza, nella cornice sfolgorante della capitale dell’impero austro-ungarico. La Vienna di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento era una città multiculturale e multirazziale, cosmopolita, dalla creatività letteraria e artistica effervescente, che offriva un grande spazio allo spirito critico e a dibattiti intellettuali e politici intensi. Probabilmente fu lí che prese forma, a livello embrionale, l’idea popperiana della «società aperta», contrapposta alle società chiuse del totalitarismo.
Poiché con l’occupazione nazista dell’Austria, nel marzo 1938, la vita culturale del Paese entrò in una fase di oscurantismo e di decadenza da cui non si riprese mai del tutto – i suoi migliori talenti emigrarono, furono sterminati o messi a tacere dalla censura e dal terrore –, si fatica a immaginare che la Vienna in cui Popper cominciò a studiare, scoprí la sua vocazione per la ricerca, la scienza e la dissidenza, imparò il mestiere di falegname, fu maestro di scuola e militò nel socialismo, era probabilmente la città piú colta d’Europa. Un mondo dove cattolici, protestanti, ebrei integrati e sionisti, liberi pensatori, massoni, atei coesistevano, dibattevano e contribuivano a rivoluzionare le forme artistiche: la musica soprattutto, ma anche la pittura e la letteratura, le scienze sociali, le scienze esatte e la filosofia. In The Austrian Mind. An Intellectual and Social History 1848-1938 (1972), William Johnston ricostruisce con rigore la Torre di Babele nella quale Popper imparò precocemente a detestare il nazionalismo: lo definí «orribile eresia» (a dreadful heresy) della civiltà occidentale, considerandolo sempre una bestia nera, il nemico mortale della cultura della libertà. In compenso fu un deciso difensore delle minoranze, dei poveri e dello «scontro fra culture» che, a suo parere, apportava un arricchimento come quello prodotto dal «miracolo greco» all’epoca di Pericle.
La famiglia Popper, di origini ebraiche, si era convertita al protestantesimo due generazioni prima che nascesse Karl, il 28 luglio 1902. Il nonno paterno aveva una biblioteca eccezionale di quindicimila volumi nella quale, da bambino, Popper contrasse la passione della lettura e dei libri dal momento in cui, secondo la sua confessione, lesse – o gli lessero – una storia di Selma Lagerlöf. Non si consolò mai di essere stato costretto a vendere quella biblioteca quando si esaurirono le finanze della sua famiglia che, durante la sua infanzia, era ancora molto agiata. Nella vecchiaia, quando ricevette per la prima volta del denaro per i diritti d’autore, cercò ingenuamente di ricostruirla, ma non ci riuscí. Ricevette un’educazione protestante e stoica, puritana e, sebbene avesse sposato una donna cattolica, Hennie, sua compagna di studi all’università, quella morale rigida, calvinista, di rinuncia a ogni sensualità, all’insegna di un’autodisciplina e di un’austerità estreme, lo accompagnò per tutta la vita. Secondo le testimonianze raccolte da Malachi Hacohen, ciò che Popper rimproverava maggiormente a Marx e a Kennedy non erano gli errori politici, bensí le amanti che avevano avuto.
Nella Vienna della sua gioventú – la Vienna rossa – prevaleva un socialismo liberale e democratico che favoriva il multiculturalismo, e molte famiglie ebree integrate come la sua occuparono posizioni privilegiate nella vita economica, universitaria e persino politica. Il rifiuto precoce verso ogni forma di nazionalismo – di ritorno alla tribú – lo portò a opporsi al sionismo, e a pensare sempre che la creazione di Israele fosse «un tragico errore». In una prima versione della sua autobiografia scrisse questa frase durissima, citata da Hacohen: «Inizialmente mi opposi al sionismo perché ero contro ogni forma di nazionalismo. Ma non avrei mai creduto che i sionisti sarebbero diventati razzisti. Questo mi fa vergognare delle mie origini, poiché mi sento responsabile delle azioni dei nazionalisti israeliani».
Pensava che gli ebrei dovessero integrarsi all’interno delle società in cui vivevano, come aveva fatto la sua famiglia, perché l’«idea di popolo eletto» gli pareva pericolosa: preannunciava, a suo parere, le moderne visioni della «classe eletta» del marxismo o della «razza eletta» del nazismo. Fu senz’altro terribile per chi la pensava in questo modo vedere come, nella società austriaca che presumeva aperta, l’antisemitismo cominciasse a montare come la schiuma sotto l’influenza ideologica della Germania, e sentirsi all’improvviso minacciato, soffocato e costretto all’esilio. Poco dopo, ormai in esilio nella remota Nuova Zelanda dove, grazie agli amici Friedrich von Hayek ed Ernst Gombrich, aveva ottenuto un modesto lavoro come lettore presso il Canterbury College, a Christchurch, sarebbe venuto a sapere che sedici suoi parenti prossimi – zii, zie, cugini, cugine – oltre a innumerevoli colleghi e amici austriaci di origine ebraica che, come lui, si credevano perfettamente integrati, erano stati annientati o uccisi nei campi di concentramento, vittime del razzismo demenziale dei nazisti.
In una lettera privata che nel 1984, quattordici anni dopo averla scritta, avrebbe reso pubblica con il titolo Contro i paroloni, Popper sintetizzò in questo modo le convinzioni giovanili che lo avevano portato dal socialismo al liberismo:
Esordii alla scuola media come socialista: trovai la scuola media poco stimolante e mi ritirai dalla sesta classe; esame di maturità come privatista. A diciassette anni (nel 1919) ero ancora socialista, ma nemico di Marx (come conseguenza delle esperienze fatte con i comunisti). Esperienze ulteriori (con burocrati) mi portarono, già prima dell’avvento del fascismo, a vedere nel crescente potere della macchina dello Stato la minaccia piú grande per la libertà personale e a riconoscere pertanto la necessità di combatterla senza tregua. Tutto ciò non era solo pura teoria: imparai il mestiere di falegname (in contrasto con i miei amici intellettuali socialisti) e sostenni l’esame da apprendista; lavorai negli asili infantili; diventai maestro elementare; non avevo intenzione di diventare professore di filosofia prima di aver terminato il mio primo libro […] Logica della scoperta scientifica apparve nel 1934; nel Natale del 1936 fui chiamato a Neuseeland […] Sono liberale e avverso al marxismo1.
Il nazismo, l’esilio e la guerra furono il contesto che portò Popper ad allontanarsi per alcuni anni dalle ricerche scientifiche, per prestare quello che avrebbe definito il suo «contributo intellettuale» alla resistenza contro Hitler e la minaccia totalitaria. Prima di abbandonare l’Austria aveva già pubblicato nel 1934 Logica della scoperta scientifica, che sarebbe stato rieditato, molto ampliato, un quarto di secolo dopo, nel 1959. In questo saggio confutò la conoscenza induttiva – che un’ipotesi scientifica possa essere convalidata mediante l’accumulo di osservazioni che la confermano – e sostenne che le verità scientifiche, sempre impugnabili, sono tali soltanto finché resistono alla prova della «falsificabilità», cioè finché non possono essere confutate obiettivamente, tesi che avrebbe elaborato e affinato nel corso di tutta la sua vita.

«La società aperta e i suoi nemici».

In esilio scrisse prima Miseria dello storicismo (1944-45), poi la sua opera maggiore: La società aperta e i suoi nemici (The Open Society and Its Enemies, 1945). Malachi Haim Hacohen traccia una minuziosa e avvincente storia delle condizioni pressoché eroiche – imparò il greco classico per leggere Platone e Aristotele in lingua originale – in cui Popper lavorò a questi due libri di filosofia politica, rubando ore alle lezioni e agli impegni amministrativi imposti dall’Università, chiedendo supporto bibliografico agli amici europei e vivendo in ristrettezze che a tratti rasentarono la miseria. Poté contare sull’aiuto della leale e dedita Hennie, che decifrava il manoscritto, lo dattilografava e, in piú, lo sottoponeva a severe critiche.
Il libro scandaglia, nelle loro origini e nel loro sviluppo storico, le idee che dànno impulso e sostegno alle teorie e dottrine nemiche della libertà umana. Dopo cinque anni di lavoro indefesso, nel 1945 uscí il saggio che avrebbe reso Popper il pensatore liberale piú coraggioso del suo tempo. Si tratta di una ponderosa descrizione e di una formidabile argomentazione contro la tradizione definita dall’autore «storicista», che comincia con Platone, si rinnova nel XIX secolo e si arricchisce con Hegel, per raggiungere il suo apice con Marx. Popper vede nel cuore di questa corrente, madre di tutti gli autoritarismi, un terrore inconscio della responsabilità imposta dalla libertà all’individuo, che tende dunque a sacrificarla per sbarazzarsene. Da qui il desiderio nostalgico di tornare al mondo collettivista, tribale, alla società immobile e priva di cambiamenti, all’irrazionalismo del pensiero magico-religioso che precede la nascita dell’individuo, il quale si emancipò dalla placenta gregaria della tribú e ne ruppe l’immobilismo mediante il commercio, lo sviluppo della ragione e la pratica della libertà. La messa in discussione sistematica di tutte le previsioni di Marx è impietosa, ma nel libro questi è trattato dal suo avversario piú implacabile con rispetto, e talvolta con ammirazione. Le sue buone intenzioni nel voler eliminare lo sfruttamento e le ingiustizie sociali sono riconosciute, cosí come la sua serietà di studioso e la sua onestà intellettuale. Popper dice che l’avere liberato la sociologia dallo «psicologismo» è uno dei maggiori meriti di Marx e arriva persino ad affermare che, senza saperlo, l’autore del Capitale fu un segreto sostenitore della società aperta. Il suo grande errore fu quello di cedere allo storicismo, di pensare che la storia ubbidisse a leggi inflessibili e potesse essere prevista dallo scienziato sociale. Mette anche in discussione la tesi di Marx secondo la quale «le condizioni materiali di produzione» (la struttura sociale) spieghino e precedano sempre le idee (la sovrastruttura culturale). E mostra come, a volte, le idee anticipino i cambiamenti sociali e le condizioni materiali di produzione. Fa l’esempio della Rivoluzione russa, che difficilmente si sarebbe realizzata e avrebbe intrapreso la direzione che seguí senza le idee marxiste che mossero Lenin, la sua guida iniziale. Anche se tali idee avevano ormai abbandonato la rotta concepita da Marx, convinto che il comunismo sarebbe arrivato prima di tutto nei Paesi capitalisti piú sviluppati come l’Inghilterra e la Germania, e non in una società arretrata e semifeudale come la Russia.
Il grande malvagio della Società aperta e i suoi nemici è Hegel, che Popper disseziona e scredita con una durezza per lui inconsueta (lo definisce «ciarlatano», «opportunista», «verboso» e «oscurantista», come aveva fatto in precedenza Schopenhauer). Perché quest’uomo buono e semplice, dall’umanità sensibile, fu sempre intransigente in fatto di libertà.
Non soltanto Platone è oggetto di una critica frontale nel libro. Lo è anche Aristotele, il cui «essenzialismo» – dice Popper – è il vincolo piú diretto fra l’antica Grecia e la filosofia di Hegel. Aristotele, capostipite della «verbosità», il linguaggio pomposo che non dice nulla, secondo La società aperta e i suoi nemici trasmise questa tradizione a Hegel, che la potenziò portandola a estremi spaventosi. Dentro la ragnatela di parole che Hegel usò per costruire il suo sistema, si trovano le fondamenta dello Stato totalitario – collettivista, irrazionale, autocratico, razzista e antidemocratico – concepito originariamente da Platone. Per Hegel lo Spirito, fonte della vita, sempre in movimento, progredisce con la storia incarnandosi nello Stato, forma suprema della modernità. Questo Stato, manifestazione dell’essenza di tutto ciò che esiste, è superiore all’insieme di esseri umani che formano la società; il vertice dello Stato è il monarca, sovrano assoluto al quale si devono obbedienza e sottomissione totali. Lo Stato si rafforza tramite l’azione, come è accaduto nel caso dello Stato prussiano. E la forma superiore dell’azione è lo scontro, la guerra contro gli altri Paesi, che lo Stato deve vincere per giustificare se stesso. La vittoria militare consacrerà la sua supremazia rispetto agli altri. Il progresso umano è segnato da eroi, uomini che compiono azioni gloriose, attraverso le quali lo Stato si realizza e si ingrandisce. Il monarca – leader o condottiero – è un essere superiore. Può ingannare, mentire e manipolare le masse, come secondo Platone erano autorizzati a fare i guardiani della Repubblica, per mantenerle sottomesse, ed essere implacabile verso coloro che osano ribellarsi, poiché il crimine piú grande che può commettere un cittadino è quello di sollevarsi contro lo spirito incarnato dallo Stato di cui, a sua volta, è proiezione e quintessenza il sovrano o dittatore supremo. Non è forse una descrizione perfetta dei superuomini che furono Hitler, Stalin, Mussolini, Mao, Fidel Castro?
La grande novità di questo libro, un capolavoro assoluto, fu che Popper individuò l’origine e la radice di tutte le ideologie verticali e antidemocratiche nella Grecia e in Platone. Ossia nella cultura che gettò le fondamenta della democrazia e della società aperta. La paura della libertà nasce quindi con essa, e fu nientemeno che Platone, l’intellettuale piú brillante del suo tempo, il primo a mettere la ragione al servizio dell’irrazionalismo (il ritorno alla cultura chiusa della tribú, all’irresponsabilità collettivista e al dispotismo politico, schiavista e razzista del capo supremo). Tra razionalismo e irrazionalismo, Popper porta avanti una difesa serrata del primo e afferma che il secondo conduce, prima o poi, al crimine e che, pur essendo cominciato con Platone, è la «velenosa malattia intellettuale del nostro tempo»2.
È esatto identificare l’irrazionale con il collettivismo e con la nostalgia per l’unità perduta della tribú? Non rientrano nell’irrazionale anche aspetti costitutivi dell’essere umano come il mondo dell’inconscio, dei sogni, dell’intuizione, degli istinti e delle passioni? È vero che da questi derivano, come afferma Popper, manifestazioni distruttive quali il fanatismo e il dogmatismo politico e religioso, che conducono all’oppressione e al terrore. Ma l’irrazionale, sublimato, ha prodotto anche creazioni artistiche straordinarie come la poesia mistica di san Giovanni della Croce e quella modernista di Rimbaud e Lautréamont, e buona parte dell’arte moderna si nutre almeno parzialmente di questa fonte non razionale dell’umano.
Quella di Popper fu un’interpretazione fedele del pensiero platonico? Molti ellenisti, filosofi e saggisti politici lo mettono in dubbio. Ma, anche se Popper ha calcato le tinte nella critica alle idee di Platone e di Aristotele, il suo libro rimarrà per sempre un’analisi corretta dei meccanismi psicologici e sociali che inducono l’individuo sovrano a rifiutare i rischi che implica la libertà, preferendo un regime dittatoriale.
Malachi Haim Hacohen deve aver lavorato sul giovane Popper tanto quanto l’autore alla ricerca sulle origini del totalitarismo nella Grecia classica. Poiché, a tratti, si ha l’impressione che gli anni segnati da una dedizione intensa abbiano trasformato l’ammirazione devota e quasi religiosa verso Popper in disillusione, via via che Hacohen scopriva nella sua vita privata difetti e manie inevitabili, intolleranze, mancanza di reciprocità verso coloro che lo avevano aiutato, depressioni, scarsa flessibilità nell’accettare l’avvento di nuove forme, idee e mode della modernità. Alcune di queste cri...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il richiamo della tribú
  4. Il richiamo della tribú
  5. I. Adam Smith (1723-1790)
  6. II. José Ortega y Gasset (1883-1955)
  7. III. Friedrich August von Hayek (1899-1992)
  8. IV. Sir Karl Popper (1902-1994)
  9. V. Raymond Aron (1905-1983)
  10. VI. Sir Isaiah Berlin (1909-1997)
  11. VII. Jean-François Revel (1924-2006)
  12. Ringraziamenti
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright