La neolingua dell'economia
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La neolingua dell'economia

ovvero come dire a un malato che è in buona salute

  1. 192 pagine
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La neolingua dell'economia

ovvero come dire a un malato che è in buona salute

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Questo libro nasce da una contraddizione: le parole piú semplici di cui credevamo di conoscere a perfezione il significato ora ci sfuggono. Altro che le élite, è il linguaggio che ci prende in giro. 1984 è finalmente arrivato, con un po' di ritardo! Tutti ormai parliamo questa lingua impoverita e condivisa, con scarsi contatti con la realtà. Invece di controllare il linguaggio, siamo noi a esserne controllati. Lo stesso discorso si applica all'unica grammatica che ottiene consenso in economia, quella legata all' homo oeconomicus. Il procedimento è questo: inventiamo un linguaggio basato su una teoria immaginaria e ce ne serviamo per piegare la realtà ai nostri bisogni, per limitare la nostra comprensione al frammento piú improbabile del reale. Per esempio esaltiamo la concorrenza perché efficace o vantaggiosa per il consumatore, ma senza dire che potrebbe essere disastrosa per il produttore, né che le forme piú comuni del mercato sono degli oligopoli (se non dei monopoli) ancora peggiori per il lavoratore.

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Informazioni

Capitolo settimo

Le ragioni del torto

PIERANTOZZI La neolingua è solo dei liberali e degli ortodossi?
FITOUSSI La neolingua è la nostra lingua. La parliamo tutti perché difficilmente possiamo parlarne una diversa che gli altri siano disposti ad ascoltare. Il cosiddetto politicamente corretto, l’economicamente corretto, il socialmente corretto esercitano su di noi una pressione tale da portarci all’autocensura. Abbiamo paura di essere accusati delle peggiori nefandezze, che finiscono per squalificare le nostre posizioni. La lista delle possibili critiche è lunga e molti potrebbero divertirsi a fare la lista delle parole dell’Accusa. Essere antieuropeo è uno dei rimproveri piú correnti. Abbiamo anche paura di renderci ridicoli, di essere trattati da teorici (come fosse una vergogna), arcaici, ingenui… Troppi dibattiti intellettuali o politici sono arbitrati da giudici, come se fosse possibile imparare soltanto quando si ha ragione. O come se non si avesse niente da dire quando si ha torto. Basta il buonsenso per capire che molto spesso nessuno ha completamente torto o ragione, che è bene cercare le soluzioni che danno i risultati migliori, non quelle che sono frutto della migliore applicazione della dottrina degli uni o degli altri. Purtroppo a organizzare la neolingua è una logica binaria: sí o no al Fiscal compact, sí o no alla globalizzazione, sí o no all’Europa cosí com’è. Non si può non avere l’impressione che i paesi in cui le cose vanno meglio sono quelli che rifiutano di sottostare a questa ingiunzione di rispondere sí o no. La neolingua imprigiona i dibattiti in questa logica binaria che aumenta la violenza del dibattito politico dovunque. È quello che accade negli Stati Uniti, dove c’è una rincorsa a estremizzare sempre piú la propria posizione dottrinale. E cominciamo a capire che questa violenza non sta risparmiando l’Europa. Non c’è dunque un monopolio liberale della neolingua. Quelli che si autoproclamano economisti eterodossi hanno adottato la logica binaria della neolingua. Per i liberisti dottrinali, gli eterodossi sono degli arcaici, che giustificano ancora di piú l’uso della neolingua, e gli eterodossi continuano a criticare la dottrina liberale utilizzando la sua stessa lingua.
PIERANTOZZI Lei è eterodosso?
FITOUSSI Sarebbe molto comodo per me esserlo. Ma visto quello che ho appena detto, non posso affermare di essere un eterodosso solo per far piacere ai miei interlocutori. Mi dispiace, ma non entro nello stampo del linguaggio binario. Rifiuto di rispondere alla domanda: «Cos’è lei, imputato Fitoussi, ortodosso o eterodosso?» E devo dire che non ho mai capito bene che significano queste parole: non stiamo parlando di fede, cerchiamo solo di spiegare quello che succede. L’economia non è una guerra di religione in cui si affronta una moltitudine di sette! Quello che m’interessa è, se non trovare, almeno provare a cercare soluzioni ragionate ai problemi che ci troviamo davanti. Purtroppo a causa dei nostri dibattiti gestiti in neolingua, affermiamo di avere tutte le soluzioni, dimenticando di verificare se poi queste soluzioni risolvano davvero i problemi, o invece li aggravino oppure ne facciano addirittura nascere di nuovi. L’unica cosa che possiamo purtroppo dire è che le politiche europee non portano sollievo alla sofferenza sociale, che al contrario contribuiscono ad aggravare, e fanno rinascere i nazionalismi in popolazioni che ne erano immuni (gli italiani per esempio). È questo che m’interessa, non il dibattito sui sussidi di disoccupazione. È un esempio non casuale: se i disoccupati sono dei fannulloni – come si dice – non bisogna concedere sussidi. Nessun sussidio di disoccupazione, nessun disoccupato. Ed ecco risolto il problema della disoccupazione!
PIERANTOZZI Allora né ortodosso, né eterodosso, né di destra né di sinistra?
FITOUSSI Sulla prima parte della domanda mi sono spiegato, sulla seconda, ho una risposta chiara: sono di sinistra, senza se, senza ma e senza esitazione. Ciò che distingue le diverse teorie dell’economia è a mio avviso il peso che si attribuisce all’intervento dello Stato. Sono convinto – da sempre – che lo Stato abbia un ruolo molto importante da svolgere nella gestione dell’economia e della società. E che in particolare non debba tollerare le sofferenze sociali come la disoccupazione o la precarietà. Le confido un segreto: non ho mai visto sul pianeta Terra uno Stato che non cerchi di darsi da fare. Non sono liberista, semplicemente perché non penso che l’intervento dello Stato porti sempre al disastro. L’esperienza storica ci dimostra invece che sono spesso i mercati a portare il caos. Basta pensare alle due ultime crisi mondiali, senza parlare delle tante crisi locali.
PIERANTOZZI Mi perdoni, ma dobbiamo tornare indietro. La buona politica è far vivere meglio la gente, però lei riduce tutto a un problema di linguaggio.
FITOUSSI È vero il contrario: quello che mi chiedo è perché abbiamo dimenticato che la buona politica sia far vivere meglio la gente. La mia risposta è che abbiamo imbrogliato la gente con la lingua. Io non credo alla teoria del complotto: se la confusione è aumentata, è in parte perché c’è un’intenzione dietro e molto perché regna una grossa incomprensione del mondo in cui viviamo. La lingua di Trump è un buon esempio.
Ne sono convinto, è una cosa a cui penso da tempo e che mi spaventa per la sua ampiezza. Non è soltanto una moda quella di concentrarsi sul linguaggio, e non soltanto perché gli esseri umani sono esseri parlanti.
Due sono le lingue che usiamo: quella per essere ascoltati, e quella per dialogare. La lingua del dialogo dovrebbe essere quella della democrazia, ma con l’emergere di una classe dirigente ben educata e ben formata, si è imposta l’idea e la pratica che la lingua debba servire solo a farsi sentire, a essere ascoltati. Ho già detto che non mi piace la parola élite perché si presta a confusione. Per esempio i populisti, cosí come li intendiamo oggi, appartengono alle élite, mentre la parola dovrebbe indicare le masse. Con la loro demagogia i populisti cercano di portare la società su strade pericolose, in particolare facendo leva sulla paura. La lingua diventa un modo di comunicazione piú che d’informazione. È il motivo per cui le classi dirigenti, e in particolare i media, discutono piú sul modo di comunicare che sui contenuti.
Quante volte le reazioni dei cittadini contrari a misure che non condividono sono messe sul conto di una «cattiva comunicazione», sono imputate a «errori di comunicazione». Guarda caso, gli errori di comunicazione accompagnano sempre le brutte notizie, mai quelle buone. È come se la politica fosse ormai soltanto una questione di messa in scena. Questo uso delle parole – élite, populismo, comunicazione – rinvia a qualcosa di piú profondo. Si parla di errore di comunicazione perché non si riesce nemmeno a immaginare che la misura proposta sia sbagliata in sé, o almeno imperfetta. Sempre che, peggio ancora, non si creda che una buona comunicazione possa far passare qualsiasi misura. Si tratterebbe allora di uno strumento di manipolazione della società: per il suo bene (con una venatura di disprezzo) nel migliore dei casi, per gli interessi dei potenti nel peggiore.
A forza di comunicazioni, di promesse non mantenute, ma la cui validità è difesa a spada tratta da media e intellettuali, la società perde fiducia nelle sue istituzioni. La sfiducia si estende, spinge a chiudersi in se stessi o nei gruppi ai quali si crede di appartenere. Si è costruito e si continua ad alimentare un fenomeno di cui si parla molto ma che abbiamo reali difficoltà a definire, che fa sí che non siamo piú convinti di quello che dice la gente, non ci crediamo piú, abbiamo l’impressione che tutti mentano, raccontino favole, imbastiscano teorie fumose e molto generali. È inevitabile se si parla con l’unico scopo di essere ascoltati, senza prendere in considerazione la parola degli altri. Tutti raccontano, nessuno ascolta il racconto degli altri. Le élite parlano soltanto per essere ascoltate, sono incapaci di cogliere la realtà degli altri, e finiscono inevitabilmente per mentire, o perché sono convinte di detenere la verità, o perché fa loro comodo.
Questa spirale aumenta la propensione a credere in qualsiasi cosa. Anzi: piú la lingua diventa volgare, piú diventa credibile. Volgare non nel senso di politically incorrect, ma di logica binaria: questo è il male e questo è il bene. Su questo terreno, si affrontano due coalizioni. Da una parte ci sono i partiti cosiddetti estremisti. Secondo la loro dottrina, dalla parte del male ci sono gli immigrati, i neri, gli ebrei, l’euro, l’Unione europea, la globalizzazione, mentre sono il bene il protezionismo, la nazione, la sovranità. Trump ne è un bell’esempio. L’altra coalizione non è del tutto chiara su ciò che ritiene male, e resta troppo silenziosa, in particolare nei riguardi di alcune categorie come gli immigrati, i neri, gli ebrei. Forse lo fa per mancanza di coraggio, forse per scarsa convinzione: devo ammettere che questo silenzio nel campo avverso agli estremisti mi sorprende.
È possibile anche che la divisione su migranti o razzismo attraversi i due campi, come il sovranismo, per esempio. Ma quello che dice di importante la coalizione anti-estremisti è che l’Europa, cosí com’è, rappresenta il nostro fulgido avvenire. Ricordiamo di nuovo le parole del generale De Gaulle: «Possiamo pure saltare su una sedia come un capretto e urlare: l’Europa! L’Europa! L’Europa!, ma questo non porterà a niente e non significa un bel niente».
Si dice che la Costituzione europea può essere corretta ai margini ma che per l’essenziale è quello che ci vuole. Dicono anche che se c’è un problema italiano, è perché l’Italia non obbedisce alla lettera alle regole e deve essere punita. Ho fatto questa lunga digressione per rispondere meglio alla sua domanda: la buona politica deve servire a far vivere meglio la gente? La risposta che dà l’Europa a questa domanda è sbilenca: prima soffrire, poi gioire. Gli italiani a quanto pare non hanno sofferto abbastanza. Questa visione ha un aspetto religioso che la maggior parte della gente capisce spontaneamente e al quale crede. Alla fine ci troviamo sempre di fronte a un fatto di linguaggio, a questa neolingua. Si ricorre alla lingua religiosa per legittimare le politiche di austerità. Ma queste politiche fanno stare meglio le persone? Forse fanno stare meglio alcuni, i soliti happy few, ma certo non la maggioranza della popolazione. Ecco come il linguaggio si mette al servizio di una politica stupida. Sí, stupida, come dimostrò benissimo a suo tempo Bernard Mandeville nel poemetto La favola delle api.
PIERANTOZZI Non è da oggi che le élite usano un linguaggio, se non divino, diciamo “alto”.
FITOUSSI È vero, e per questo ancora piú preoccupante. Le classi dirigenti aspettano forse che sia Dio a risolvere i problemi al posto loro, o usano il linguaggio per manipolare la popolazione? Io non credo che le élite usino da sempre un linguaggio divino, credo che ne facciano ricorso solo quando sono travolte dalla violenza e dalla gravità delle crisi che si trovano ad affrontare. Negli anni Trenta e nell’Europa di oggi, per esempio. Negli anni Trenta però il New Deal infranse la politica di austerità e la teoria della nemesi che l’accompagnava. Oggi, almeno per ora, nessun fenomeno del genere si profila, le autorità europee raddoppiano la volontà punitiva e l’Italia si trova per il momento isolata nel concerto europeo.
PIERANTOZZI Anche il suo linguaggio economico però è un linguaggio divino: se non altro perché promette la salvezza.
FITOUSSI Lo prendo per un complimento, non sapevo di avere una tale forza di persuasione! Battute a parte, non capisco perché dica cosí. Se vedo una città piena di negozi con molta merce da vendere e gente che non ha abbastanza soldi per comprare, io dico che c’è un problema di domanda. Le sembra un linguaggio sacerdotale? Che gli economisti abbiano cercato di aumentare l’esoterismo della loro disciplina è un’evidenza che proviene da un uso smodato della matematica. Cosa che tra l’altro ha reso, per esempio durante la crisi del 2008-2009, la finanza incomprensibile agli stessi finanzieri… Sulla matematica – lingua non parlata da tutti – la finanza ha costruito un linguaggio “derivato” che è diventato un linguaggio che poteva favorire le bugie. Per esempio far credere alla gente che il rendimento delle azioni può essere sul lungo periodo maggiore del tasso di crescita: cosa impossibile. Non mi riferisco soltanto ai subprimes negli Stati Uniti, ma a una pratica ben piú vasta. Una grande banca francese per esempio tappezzava i muri di Francia con pubblicità che promettevano un rendimento del 13 per cento, impossibile quando il tasso di crescita del Pil è del 2 per cento. Quando Madoff ha cominciato a vendere titoli promettendo il 10 per cento di rendimento e tutti hanno cominciato a comprare, si è diffusa la fede in un fenomeno impossibile, irreale, che ha portato a un crollo in cui, come per caso, sono state le categorie piú fragili a perdere tutto. È quella che ho definito «la grande menzogna».
PIERANTOZZI Lei sa bene che si avventura in un territorio minato: la critica delle élite prima era il cavallo di battaglia di alcuni, da Marine Le Pen a Beppe Grillo, ormai è il leitmotiv di quasi tutti. Con un corollario raramente evocato: il popolo ci fa la figura dello sprovveduto se non dello stupido, dell’ignorante, del manipolabile, dell’irresponsabile. Siamo sicuri che le non-élite siano destinate a essere solo capri espiatori?
FITOUSSI È vero, il termine élite non è appropriato per definire un gruppo umano. Per definizione siamo tutti diversi e abbiamo identità multiple. E inoltre ci sono state élite nel passato dedite all’interesse generale che hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo del benessere delle nostre società. La connotazione peggiorativa del termine si è sviluppata nel periodo recente con l’apparizione di un fenomeno che ritengo specificamente europeo, quello del «pensiero unico»: su qualsiasi argomento o quasi le élite si sono messe a pensare o a dire le stesse cose. Mi pare che sia la prima volta che questo fenomeno si produca, almeno con queste proporzioni.
Esistono sempre eccezioni alla regola, esistono sempre dei «devianti», quasi in senso psichiatrico, quelli che perdono il senno. Che paesi di un livello intellettuale come la Francia e l’Italia abbiano perso a tal punto la dialettica per me è un mistero. Com’è stato possibile? Non ho una risposta, a meno di supporre ancora una volta che la neolingua avesse già cominciato la sua opera, che il dizionario abbia cominciato da tempo ad avere dei termini proibiti che hanno impedito ai contraddittori di esprimersi. Mi sembra anche che siamo passati da una categoria di élite dedita all’interesse generale a un’altra piú individualista e preoccupata di trasformare il suo status in vitalizio. In questo contesto il termine élite definisce un gruppo con un potere forte la cui priorità è conservare il potere e non badare al bene comune. Nel gruppo ci sono intellettuali, giornalisti, tutti quelli che hanno un potere d’influenza, ai quali bisogna naturalmente aggiungere quelli che hanno potere di decidere. Ma non ci metto gli scrittori: mi pare che restino i soli a parlare di realtà.
Mi dice che la critica alle élite mi porta su un terreno minato, perché gente poco raccomandabile ha fatto della critica alle élite il suo cavallo di battaglia. Ebbene le rispondo che questo è un tipico stratagemma da neolingua: non criticare l’Europa, sennò ti prendono per antieuropeo; non criticare le élite, anche se magari lo meritano, sennò ti prendono per un populista o uno di estrema destra. Meglio autocensurarsi, meglio tacere. Alla fine cadiamo tutti nella trappola della neolingua: accettiamo di limitare il vocabolario ai termini che non disturbano chi governa. Cosí ci costruiremo un’autostrada che porta al pensiero unico, limitando sostanzialmente, e non solo formalmente, lo spazio della democrazia. È una cosa su cui si deve riflettere molto. Non sono le élite in sé a essere un problema. Il problema è che le élite lavorano e si giustificano ormai per garantire la propria sopravvivenza, il proprio posto, il potere nella società. Tutte si sono convertite alla globalizzazione e all’Europa come fossero nuove religioni, al servizio del loro profitto. Sono le élite che ricavano il maggior profitto dalla globalizzazione e dall’Europa. Lo dicono tutti? Non per questo è meno vero. Anche il popolo ha le sue responsabilità, certo: è l’accettazione passiva di questo potere illegittimo. L’unico potere legittimo è quello dei governi eletti. Perché attenzione: quando parlo di élite non parlo dei governi.
PIERANTOZZI Cioè: lei salva i politici? Non sono loro l’avanguardia delle élite? E allora chi sono?
FITOUSSI Penso che il termine non sia appropriato per definire chi ci governa e ha un mandato elettivo. Il rischio è di essere sempre meno precisi, sempre piú sfumati. I politici sono legittimi, responsabili e possono essere sanzionati e rispediti a casa dagli elettori. La politica è l’unica categoria di élite a essere legittima. Che sia ben chiaro. Chi governa è eletto, significa che è responsabile davanti agli elettori, che hanno la possibilità, se non sono soddisfatti, di non rieleggerlo. Le élite politiche sono in una situazione precaria, proprio come la società. Anzi, direi di piú: c’è stato un contagio della precarietà della società verso le élite politiche e gli esempi recenti in Francia e in Italia lo dimostrano ampiamente. In compenso le altre categorie di élite, quelle senza legittimità se non quella che dà la meritocrazia dei ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le domande. di Francesca Pierantozzi
  4. Le risposte. di Jean-Paul Fitoussi
  5. La neolingua dell’economia
  6. I. Né Pierre né Paul
  7. II. Il lavoro c’è
  8. III. Whatever it takes
  9. IV. Lo yin e lo yang
  10. V. Venditori di mele
  11. VI. Il rumore della felicità che se ne va
  12. VII. Le ragioni del torto
  13. VIII. Il mercato siamo noi
  14. Per concludere
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright