Sospettosi
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Sospettosi

Noi e i nostri dubbi sulla scienza

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Sospettosi

Noi e i nostri dubbi sulla scienza

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Perché non ci credono? Perché sembra che sempre piú persone, anche colte, istruite, ragionevoli, si affidino ai preparati della sedicente medicina alternativa, a rimedi finto-antichi e a nuove pratiche new age? Perché preferiscono il Dr. Google ai medici in carne e ossa e non riconoscono piú la loro autorevolezza? A volte si arriva a prese di posizione radicali e a conflitti, come è successo recentemente per i vaccini o per i casi di cronaca che hanno coinvolto l'omeopatia. Piú comunemente si diffondono credenze pseudoscientifiche, mode e tendenze, spesso spinte dalla pubblicità. Silvia Bencivelli si chiede quali siano le ragioni profonde di questi fenomeni, intervistando persone che hanno fatto scelte contrarie a quelle indicate dalla scienza, e scienziati che ne riflettono con lei. Alla fine viene il dubbio che il problema non sia da cercarsi nei social network o nello spirito dei tempi. Ma nella nostra comune e fragile umanità. I sospettosi, insomma, siamo noi.

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Informazioni

IV.

A proposito di Gino

Storie di oncologia e dintorni
Per la mia tesi di laurea in medicina dovevo valutare la capacità prognostica di un nuovo sistema di classificazione di un tumore raro. Siccome si trattava di un tumore raro, e siccome non potevo passare anni a fare la tesi, si era deciso di fare un lavoro retrospettivo, cioè una valutazione a partire dal passato. In pratica dovevo ricostruire la storia di persone che erano state operate dieci, venti, trent’anni prima, di cui avevo vecchie cartelle cliniche scritte a mano con grafie diverse e vecchi pezzi operatori inclusi in paraffina. Il concetto era che avremmo valutato con i nuovi criteri il tessuto tumorale e lo avremmo messo a confronto con la storia clinica del paziente dal momento della rimozione chirurgica del tumore in avanti: come se l’era cavata? Una lettura moderna del frammento di tessuto malato avrebbe potuto dirlo meglio (e orientare meglio la terapia) rispetto alla lettura di allora?
La parte del vetrino era semplice: dal pezzetto di paraffina veniva tagliata una fettina di tessuto, che veniva fissata su un vetrino, che veniva portato al professore. Il quale, in camice bianco con me accanto, studiava con attenzione l’immagine ingrandita su uno schermo, la confrontava con archivi, libri e vari riferimenti, la studiava scrupolosamente con diversi metodi di colorazione e di visualizzazione (insomma, semplice non era per niente, e ci voleva un sacco di tempo). E poi emetteva un verdetto del tipo: «Questo è di tipo A2». Io prendevo appunti, mi tormentavo nel dubbio se sarei mai riuscita a capirci qualcosa, e poi mi chiedevo che fine avesse fatto la persona dal cui corpo quel pezzetto di tessuto era stato estratto, e soprattutto se mettendo insieme tanti dati sarei stata in grado di dire qualcosa di utile alla medicina.
La logica di questo lavoro mi affascinava. Ne soffrivo sí la quota di empirismo, ma la vedevo in progressiva diminuzione e mi sentivo reclutata proprio per questo. Cioè, mi dicevo: piú la ricerca avanza e piú la medicina rinuncia a romantiche balle come l’«occhio clinico» a favore di dati sempre meno aleatori, sempre piú precisi. Il mio lavoro lo consideravo un contributo a questo progresso.
Peraltro avrei sofferto l’idea di avere la responsabilità di un paziente in carne e ossa, cioè di una persona in quel momento malata. Per questo mi ero scelta una strada grazie alla quale quel paziente, in quanto paziente, probabilmente non esisteva piú, e comunque nemmeno lo avrei visto: non avrei potuto affezionarmici, lo avrei ridotto a immagini, numeri, dati, e, per quanto possibile, oggettività scientifica. Che poi era il mio obiettivo, no?
È andata a finire che con questo lavoro di tesi ho imparato altro. Molto altro. Ma molto comunque.
Era una malattia rara, perciò i pazienti di cui avevamo i dati erano pochi. Per poter mettere su un campione statisticamente ragionevole, la cui analisi fosse in grado di dirci qualcosa di attendibile, bisognava trovarne il piú possibile. Ogni paziente, ogni storia erano preziosi. Perciò mi detti da fare per recuperarli tutti, uno a uno, da tutta la Toscana.
Con i malati piú recenti la cosa era gestibile. Gli si telefonava, e spesso nella cartella clinica il numero di casa era persino giusto: «Pronto, salve, mi scusi se disturbo… Chiamo dall’ospedale… Volevo sapere come sta il signor Gino…» La malattia era rara ma non grave, per cui avevo buone possibilità che la risposta fosse un gagliardo: «Sono io il signor Gino, dica!» O un accogliente: «Un attimo che glielo chiamo: babbooooo… babbooooo… ti cercano al telefono, dice che è l’ospedale!»
A volte però mi andava male: «Gino…? Ma Gino è morto. Subito dopo l’intervento, non lo sa?» E lí cominciavano i guai. «Perché è morto? Di che cosa? In ospedale o dove…?» Mi auguravo, intanto, che il povero signor Gino non fosse morto a causa dell’imperizia dei nostri medici, o che comunque questa non fosse la ricostruzione della moglie, perché sarebbe stato imbarazzante dovermi discolpare di una colpa non mia. Peraltro, avrei dovuto spiegare che io di Gino non sapevo proprio niente, che avevo visto solo quel blocchetto di paraffina, che lei difficilmente avrebbe riconosciuto e amato come il marito. Avrei avuto difficoltà a farle sentire la mia vicinanza, e avrei dovuto confessare di essere a caccia di numeri, e che anche Gino era un numero per me. Ma non potevo mollare l’osso, e continuavo a chiedere.
Non sempre riuscivo a capire esattamente di che cosa fosse morto il signor Gino, e anche se era vivo non sempre riuscivo a capire come stesse davvero e per esempio se avesse avuto complicazioni, malattie associate o comparse insieme per caso. Intanto telefonavo, mi facevo un’idea.
Quanto piú lontano nel tempo era l’intervento tanto piú bisognava usare la fantasia. Intanto si trattava di cercare il numero di telefono. Vale tutto, mi dicevo. Partivo dall’elenco telefonico: facevo un po’ di ragionamenti sulla zona di residenza, l’età al momento dell’intervento, la probabilità di un trasloco, sceglievo un numero corrispondente a quel cognome e chiamavo a tappeto.
«Pronto, salve, mi scusi se disturbo… Chiamo dall’ospedale… Non so se abiti lí il signor Rossi che sto cercando. Si chiama, o si chiamava, Gino, e…»
Se mi andava male: «No, guardi, qui non c’è mai stato nessun Gino». Capitava spesso, allora si ripartiva. Se mi andava bene: «Sí, Gino è mio padre: si è trasferito qui con la badante qualche anno fa. Dica pure a me». Se mi andava benino: «Gino… Ah, lo zio di mio marito. Aspetti che lo chiamo (mio marito) cosí le dice come trovarlo». Se mi andava quasi male: «Gino… Mah… il Gino mio zio è morto cinque anni fa. Può darsi che cerchiate lui?» E rieccomi a chiedere timidamente: «Mi scusi, di che cosa?»
Quando mi andava malissimo o, a seconda del punto di vista, benissimo, trovavo la vedova, pensionata, molto anziana, e con un sacco di tempo libero, tanto libero da provare a farsi consolare da me: «Gino… ah… il mi’ povero Gino… Sa… Fu operato… Era il 1983. O il 1984. Mi pare il 1983. No, aspetti. Il 1985. Sí perché Alberto era appena partito militare. E quindi…» «Signora, glielo dico io: era il 1983, c’è scritto qui». «No, non è possibile. Perché Alberto era appena partito militare… O sta dicendo che a partire militare quell’anno lí fu Enrico?»
Dovevo cercare di ricostruire la vita del signor Gino dopo l’intervento, con piccole domande mirate, senza farmi fregare dall’epica della vedova. E senza farmi fregare nemmeno dalla mia curiosità.
Chi era quella donna? E che tipo d’uomo era stato suo marito? Ma soprattutto: «Dopo l’intervento come si è sentito il signor Gino?» «Male, malissimo… Proprio stette male… Pensi che non mangiava piú, era tutto dimagrito, e io gli facevo la pappa al pomodoro con tanto basilico ma lui…» «Sí, signora, ma le posso chiedere quando ci ha lasciati, esattamente, il signor Gino?» E lí la risposta poteva anche essere «due anni fa», cosa che riapriva l’ipotesi incidente stradale (che poi in tabella diventava «decesso per altre cause») e mandava a monte la mia anamnesi telefonica. Oppure un vago «Eh, poco dopo…» Eh, poco dopo quanto? Raramente arrivava una data esatta, e se arrivava non era certo per aiutarmi: «Il 28 settembre del 1996. Era appena aperta la stagione della caccia e il figlio piccolo di Alberto, o forse quello grande di Enrico…»
A me doveva interessare se Gino avesse avuto altre malattie, se avesse fatto terapie, se si fosse fatto seguire dallo stesso centro, se avesse cambiato medico, se avesse avuto ricadute. Se in quel momento fosse vivo o morto, per farla breve, e morto di cosa. Non mi interessava sapere se amasse andare a caccia o se fosse affettuoso coi nipotini né tantomeno quanto basilico volesse nella pappa al pomodoro.
Però poi finivo per farmelo raccontare, e mi piaceva.
Mi piaceva sentire quelle voci: non era ancora l’epoca del call center, nessuno era diffidente con una sconosciuta che ti chiama nel pomeriggio, e mi allenavo a essere credibile, rassicurante, adulta.
Alla fine della telefonata ci salutavamo con affetto, la vedova e io, e immaginavo un istante dopo il figlio grande di Enrico a dirle: «Oh nonna, ma con chi sei stata al telefono fino adesso?» E lei, sorridente, ad alzare le spalle e a scuotere la testa, per non ammettere di averlo già dimenticato. Ero una voce, per lei. E lei per me era una storia. Anche per questo la mia tesi è stata istruttiva, e non nel senso tecnico per cui ero lí a laurearmi, con il mio camice bianco, in una disciplina scientifica.
Perché anche le storie sono strumenti della scienza. E non c’è motivo di volere solo numeri e dati oggettivi come li cercavo io nella mia ingenua ricerca di rassicurazioni: la malattia è un pezzo della vita, non la vita tutta, e il malato è una persona e non la propria malattia. Evidentemente ciascuno vive la propria malattia insieme alla nascita dei nipoti, alle cene in famiglia, alla ricerca della propria felicità del momento, anche se ha addosso un A2 e davanti un percorso standard di terapie ed esami come stabilito da rigidi (e sacrosanti) protocolli internazionali.
Nel caso mio e di Gino, per di piú, si trattava di storie di malattia non particolarmente grave e comunque in genere ben curabile. Chi aveva avuto la rimozione di quel tumore aveva quasi sempre risolto il proprio problema per sempre, a volte associando altre terapie o inseguendo altre (tutto sommato modeste) magagne. Perciò le storie erano lunghe, qualunque fosse il finale, ma lineari, e mai particolarmente intricate.
Devo confessare che come argomento di tesi mi ero scelta il meno spericolato sulla piazza. Avrei potuto lavorare su altri tumori, su malattie piú importanti, su casi scientifici piú scottanti, ma sono fatta cosí. Per fortuna lo sapevo già, per fortuna anche della vedova del signor Gino.

Alternativa la medicina, non la malattia.

All’epoca non mi saltò nemmeno in mente che Gino avrebbe potuto abbandonare la strada della medicina scientifica per proposte alternative. Nella mia griglia di raccolta dati non avevo previsto la possibilità di cure che non fossero la chirurgia, la chemioterapia e la radioterapia, cioè i pilastri (in certi casi con la ormonoterapia, e oggi con la immunoterapia) della clinica oncologica.
Non so perché.
A ripensarci è strano. Mi facevo raccontare storie, ma avevo già deciso come dovessero svolgersi e non prevedevo colpi di scena. Forse è perché separavo la medicina che si studiava all’università da quella che si viveva nelle nostre case. Eppure era l’anno accademico 2001-2002, avevo quasi venticinque anni: non ero una bambina. Per esempio avevo visto la burrasca del metodo Di Bella, cominciato nel 1997 e chiusosi, teoricamente, a settembre 1998 coi risultati tombali di una sperimentazione a spese dello Stato italiano che per molti non era nemmeno necessaria. L’avevo vista e seguita con curiosità.
Ministro della Sanità era Rosy Bindi, che si era trovata con una bella gatta da pelare. A metà del 1997, in un hotel romano, l’anziano professor Luigi Di Bella aveva presentato pubblicamente la propria terapia anticancro, terapia che gli oncologi «normali» ritenevano scientificamente infondata. L’anziano professore, baffi e capelli bianchi, cominciò a comparire in tv e sui giornali e a raccontare i propri dati con aria pacata (c’è chi ha calcolato piú di trecento articoli di giornale in un anno sui quattro principali quotidiani nazionali).
A quei tempi ero all’università e vivevo tra aspiranti medici o medici veri come mia madre e i suoi amici e colleghi. Ma non era necessario vivere tra i medici: chiunque avesse o avesse avuto un amico o un familiare malato di tumore, ma piú in generale chiunque avesse in casa un televisore e abitasse in Italia, conosceva bene l’immagine del vecchietto coi baffi e l’aria bonaria, professore di Fisiologia all’Università di Modena. Si parlava ovunque della nuova speranza che quell’anziano professore sembrava portare ai malati e alle loro famiglie, del rischio che fosse soltanto un abbaglio, e di come forse, però, in fondo, avesse un senso «provare». Oppure no. Quell’immagine era ovunque in tv e i giornali, che a quei tempi leggevamo tutti, tutti i giorni erano pieni di notizie, commenti, editoriali in cui si discuteva di oncologia clinica. Questo soprattutto dopo che il pretore di Maglie, in provincia di Lecce, aveva ordinato alla Asl di fornire gratis i farmaci della terapia Di Bella a un bambino malato di tumore. E dopo che due regioni, Puglia e Lombardia, avevano deciso di somministrare gratis la somatostatina a chi, malato, ne facesse richiesta.
Me la ricordo come una vicenda piú accesa di quella sui vaccini di questi ultimi tempi, perché là c’erano i malati e le loro urgenze.
All’epoca non avevamo i social network su cui scambiarci le pagine dei giornali stranieri, altrimenti avremmo visto che la storia veniva raccontata con noi italiani nella parte dei soliti superstiziosi un po’ arretrati, mentre la rivista scientifica «Nature» parlava sapidamente di una classica «commedia all’italiana». Nello stesso articolo di «Nature» l’oncologo Umberto Veronesi, allora direttore dell’Istituto europeo di oncologia a Milano, ammettendo di guardare all’«italian drama» con rassegnazione, commentava: «Ci aspettiamo di assistere ad annunci di questo tipo [di cure miracolose, cioè] ogni due o tre anni. Ma alla fine vengono dimenticati».
Purtroppo mi sa che si sbagliava.
Nell’anno della tesi, mentre io telefonavo al signor Gino, un mio amico si ammalava di un tipo di tumore da cui tuttora non si guarisce, e ho avuto l’esperienza diretta di come le famiglie a cui la medicina non può dare speranze trovino dietro ogni angolo proposte pseudoterapeutiche di ogni tipo comprese quelle basate sulle idee, allora già pienamente sconfessate, di Di Bella.
«Sua madre andrebbe a piedi nudi sull’Himalaya, se qualcuno le dicesse che funziona», mi disse un amico. Anche noi saremmo andati a piedi nudi sull’Himalaya per lui, e non escludo che avremmo deciso anche noi di chiedere al nostro amico di «provare», provare qualsiasi cosa, se ci fosse venuto in mente che cosa.
Lui, l’amico, ci confidò quasi sorridendo di buttar giú gli intrugli del metodo Di Bella per lei: «Lo faccio per mia mamma». Anche se li trovava disgustosi e se gli stavano levando prima del tempo il senso del gusto, e la possibilità di godersi le cose buone da mangiare che amici e parenti gli preparavano. Lo faceva per sua mamma, ma a quanto ricordo a un certo punto anche la mamma lasciò perdere. Meglio l’Himalaya, almeno a camminare con fatica sarebbe stata lei.
Non ho fatto domande, e non avrei il coraggio di farle adesso. Nemmeno con gli amici, allora studenti di medicina come me e oggi bravi medici a differenza di me, ne abbiamo piú parlato. Credo che funzioni cosí: a posteriori ci si concentra sul dolore, poi sulle forme del suo sollievo, poi sui ricordi migliori, poi forse si fa tesoro di qualcosa.
Io credo di aver fatto tesoro di quel «lo faccio per mia mamma», che detto a vent’anni e con tutto quel dolore addosso faceva sorridere per la normalità del bene che era capace di raccontare. Per un’espressione banale che nei giorni consueti non avremmo usato: «lo faccio per mia mamma», per chi sennò? Per chi mi vuole bene. Perché non sono solo quaggiú e il mio dolore non è soltanto mio. Il dolore degli altri vivrà piú a lungo di me, e io voglio, e so, prendermene cura anche adesso.
Mi rammarico di non aver saputo far tesoro di una cosa che sarebbe stata semplice da capire: anche se al signor Gino era andata molto molto meglio che al mio amico, anche lui di sicuro aveva parenti, magari una mamma, aveva amici che gli portavano cose buone da mangiare e cari che sarebbero partiti per l’Himalaya a piedi nudi per lui. E allora perché le loro storie pretendevo di scriverle solo con quello che avevo imparato sui libri dell’università? Perché di fronte al mio amico ero una persona ricca di sentimenti e di pensieri, mentre a proposito di Gino non mi veniva neanche in mente di andare oltre i numeri?
Oggi scopro che la vicenda Di Bella non si è chiusa nemmeno in quegli anni, anzi continua a entrare nelle vite dei malati di tumore. In silenzio, sempre a spese loro: spese non solo economiche ma anche in salute e sofferenza.
A cercare in rete, si trovano tante storie da smarrirsi di curiosità, e non è una bella sensazione. Sono stata ore a cercare di dipanarle: mi sono persa dietro a quella di una signora che, con nome e cognome, nel 2012 raccontava a un giornalista di aver avuto tre tumori (a leggere l’articolo si capisce che non è esattamente cosí: la diagnosi era di un tumore solo, con tre focolai nello stesso quadrante della mammella, ma credo che per lei questo cambiasse poco). E di essersi curata, da subito, con la terapia Di Bella. È una terapia che garantisce una qualità della vita migliore rispetto alle terapie convenzionali, spiegava la signora, sebbene richieda di farsi infusioni di farmaci a casa propria, di prendere trenta pastiglie e tre sciroppi al giorno (una combinazione da lei stessa, poche righe sotto, definita «incredibilmente pesante»).
La s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sospettosi
  4. Introduzione. Scienza e antiscienza: esiste davvero una guerra per bande?
  5. I. Il problema di Filippo. Vaccinare: dovere, obbligo, opportunità
  6. II. Brunella torna in piedi. Quando la terapia è anche un po’ magia
  7. III. Una birra per Ivano. Diete vere e diete del Senza
  8. IV. A proposito di Gino. Storie di oncologia e dintorni
  9. V. Fiocco azzurro per Apocatequil. Dalla parte dei genitori
  10. Per concludere. L’eco dell’eco dell’eco
  11. Aggiornamento e ringraziamenti
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright