Saggio sui potenti
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Saggio sui potenti

  1. 144 pagine
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Saggio sui potenti

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Gli uomini divinizzano troppo spesso il potere. Attribuiscono ai capi una facoltà pressoché illimitata di modificare la storia del mondo. Immaginano che i governanti esercitino un pieno controllo sulla politica, sull'economia, sulle burocrazie, sugli apparati militari. Ma si ingannano. La realtà del potere è diversa dalle apparenze. Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo. Quanto piú grandi sono le responsabilità che si assume, tanto piú grandi sono gli ostacoli che egli incontra nel conoscere e nell'agire. Con una scrittura chiara, brillante e tagliente Piero Melograni ha vivisezionato il potere non solo politico ed economico, ma anche quello che risiede fuori dai palazzi, quello che viviamo ogni giorno all'interno delle piccole dinamiche che regolano le nostre vite quotidiane.«Il rispetto dell'autonomia di ciascuno trova il suo fondamento nel rispetto verso gli altri. Non soltanto perché ciascuno di noi è "altro" rispetto a tutti, ma anche in base a una constatazione che possiamo spesso fare: che i movimenti politici desiderosi di restringere l'autonomia dei cittadini, ottengono questo risultato additando la minaccia esercitata da veri o da supposti nemici. La presenza di nemici reali o immaginari rischia sempre di comprimere la libertà. Lo si vede bene durante le guerre, almeno finché la maggioranza dei cittadini continua a pensare che il nemico sia davvero esecrabile. Da tali premesse deriva che tutti coloro i quali desiderano limitare gli abusi dei capi, debbono essere estremamente cauti nell'accettare che a qualcuno sia attribuita la qualifica di nemico. Debbono trovare il modo di difendersi e di contendere imparando a distinguere tra i nemici e coloro i quali invece appaiono o sono diversi».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858431344
Capitolo decimo

Antologia di classici

L’idea che il potere dei capi sia oltremodo limitato non è affatto nuova. Filosofi e storici, romanzieri e poeti, politici e politologi l’hanno piú volte espressa. Nelle pagine che precedono sono già state offerte testimonianze al riguardo. Questo capitolo conclusivo vuole offrirne alcune altre: una breve e assai incompleta antologia di giudizi, composta in base a un criterio assolutamente soggettivo.
Fra il 1572 e la morte, avvenuta venti anni piú tardi, Montaigne lavorò attorno ai suoi Saggi. Nel capitolo XLII del libro I (Dell’ineguaglianza che esiste fra noi) Montaigne dichiarò che gli uomini attribuiscono troppa importanza alle apparenze e che il potere è molto spesso apparenza:
Se consideriamo un contadino e un re, un nobile e un villano, un magistrato e un uomo qualsiasi, un ricco e un povero, si presenta subito ai nostri occhi un’enorme differenza, mentre, per cosí dire, son differenti sol per le brache1.
I potenti ci ingannano nascondendoci la loro miserevole natura, cosí come ci ingannano a teatro gli attori delle commedie:
Li vedete [gli attori] assumere sulla scena l’atteggiamento di duca e di imperatore; ma, subito dopo, eccoli diventati servi e facchini miserabili, che è la loro nativa e originaria condizione: cosí l’imperatore, la cui pompa vi abbaglia in pubblico, guardatelo dietro la tenda, non è altro che un uomo comune e, forse, piú vile dell’ultimo dei suoi sudditi. La codardia, l’irresolutezza, l’ambizione, il dispetto e l’invidia agitano lui come un altro. La preoccupazione e il timore lo tengono per la gola in mezzo ai suoi eserciti. La febbre, l’emicrania e la gotta risparmiano forse lui piú di noi? Quando la vecchiaia gli graverà le spalle, gli arcieri della sua guardia potranno forse liberarlo? Quando il terrore della morte lo agghiaccerà, sarà egli forse rassicurato dalla presenza dei gentiluomini della sua camera? Quando sarà còlto da gelosia e da capriccio, lo calmeranno le nostre scappellate? Quel baldacchino del letto, tutto ornato d’oro e di perle, non ha alcun potere di calmare le fitte di una colica di fegato2.
Non solo, ma proprio per il fatto di essersi assunto l’arduo compito di governare, il potente va incontro a disagi e sofferenze tutte sue, che i sudditi non conosceranno:
Sí, egli sarà forse del parere del re Seleuco: che se uno conoscesse il peso di uno scettro, non si degnerebbe di raccoglierlo se lo trovasse per terra; lo diceva a proposito dei grandi e penosi compiti che toccano a un buon re. Certo, non è poco dover governare gli altri, poiché già a governare se stessi s’incontrano tante difficoltà. Quanto al comandare, che sembra essere tanto dolce, considerando la debolezza del giudizio umano e la difficoltà della scelta nelle cose nuove e dubbiose, io sono proprio di questo parere, che è molto piú facile e piú piacevole seguire che guidare, ed è un gran riposo per lo spirito non dover far altro che seguire una via tracciata e non rispondere che di se stesso3.
Gli uomini che conoscono i palazzi del potere soltanto dall’esterno invidiano i potenti che vi abitano, immaginandone gli agi e i lussi. Ma si ingannano: i potenti incontrano gravi difficoltà a godere i piaceri della vita:
Pensiamo forse che i fanciulli del coro prendano gran piacere alla musica? La sazietà la rende loro piuttosto noiosa. I festini, le danze, le mascherate, i tornei rallegrano coloro che non li vedono spesso e che hanno desiderato di vederli; ma per coloro che li frequentano abitualmente, il gusto ne diventa scipito e spiacevole; né le dame allettano chi le gode a sazietà. Chi non si dà agio di aver sete, non può provar piacere nel bere. Le farse dei buffoni ci rallegrano, ma sono faticose per coloro che le rappresentano. E che sia cosí lo prova il fatto che è una delizia per i principi, è una festa, poter qualche volta travestirsi e abbassarsi a un modo di vita vile e popolare4.
Montaigne osserva argutamente come i potenti vivano «troppo in luce e troppo in mostra» per godersi in pace perfino i dolci piaceri dell’amore. I cerimoniali li affliggono, impedendo loro di muoversi e viaggiare liberamente. I potenti non possono neppure stare a tavola senza essere assediati da tanti parlatori sconosciuti:
Alfonso XI, re del León e della Castiglia, diceva che in questo gli asini erano in condizioni migliori dei re: i loro padroni li lasciano pascolare a loro agio, mentre i re non possono ottenere la stessa cosa dai loro servitori5.
Non esistono, per i potenti, neppure le gioie dell’amicizia, poiché essi non possono mai dirsi sicuri che gli omaggi ricevuti siano sinceri e disinteressati. L’intera esistenza dei capi, insomma, appariva a Montaigne affannosa, irrazionale e vuota:
Quando il re Pirro si accingeva a venire in Italia, Cinea, il suo saggio consigliere, volendo fargli sentire la vanità della sua ambizione, gli domandò:
– Ebbene, Sire, a che fine preparate questa grande impresa?
– Per impadronirmi dell’Italia, – egli rispose subito.
– E poi, – proseguí Cinea, – fatto questo?
– Passerò, – disse l’altro, – in Gallia e in Spagna.
– E dopo?
– Me ne andrò a sottomettere l’Africa; e infine, quando avrò assoggettato il mondo al mio potere, mi riposerò e vivrò contento e a mio agio.
– Per Dio, Sire, – replicò allora Cinea, – ditemi, da che cosa dipende che non siate fin d’ora in questa condizione, se lo volete? Perché non vi ponete, fin da questo momento, nella situazione a cui dite di aspirare, e non vi risparmiate tanta fatica e tanti rischi che volete frapporre tra voi e questo fine?6
Un altro scrittore francese, Jean-Jacques Rousseau, si occupò del potere nell’Emilio, del 1762. Rousseau denunciò con ardore la servitú del potere quando esso dipende dall’opinione, e tutti i poteri dipendono in misura piú o meno grande dall’opinione:
Anche la dominazione è servile quando dipende dall’opinione; infatti tu dipendi dai pregiudizi di quelli che governi coi pregiudizi. Per guidarli come ti piace bisogna che tu stesso ti conduca come piace a loro. Basta che loro cambino maniera di pensare e bisognerà bene per forza che tu cambi modo d’agire. [...] I miei popoli sono i miei sudditi, tu dici fieramente. Sia. Ma tu chi sei? Il suddito dei tuoi ministri. E i tuoi ministri, a loro volta, che cosa sono? I sudditi dei loro funzionari, delle loro amanti, i valletti dei loro valletti. Prendete tutto, usurpate tutto e poi spargete il denaro a piene mani; piazzate batterie di cannoni, innalzate forche e ruote, emanate leggi, editti, moltiplicate le spie, i soldati, i carnefici, le prigioni, le catene: poveri omuncoli, a che vi serve tutto ciò? Non sarete per questo né meglio serviti, né meno derubati, né meno ingannati, né piú assoluti. Direte sempre: vogliamo, ma farete sempre ciò che vogliono gli altri7.
L’enorme influsso esercitato dalla pubblica opinione sulle azioni dei potenti fu piú volte sottolineato da Tocqueville nell’Ancien Régime et la Révolution (1856):
Il Re [Luigi XVI] continuava a parlar da padrone [negli anni precedenti la rivoluzione], ma in realtà già obbediva a un’opinione pubblica che lo guidava o lo trascinava ogni giorno, opinione ch’egli doveva consultare, temere, lusingare senza tregua; Re assoluto secondo la lettera delle leggi, ma detentore di un potere limitato e frenato nel modo di applicarle8.
Tutta l’opera di Tocqueville è volta a dimostrare i limiti del potere dei capi: non solo del re, che finí ghigliottinato, ma anche dei capi rivoluzionari, protesi verso l’instaurazione del nuovo. La tesi fondamentale di Tocqueville è infatti che la rivoluzione francese innovò ben poco: si limitò a distruggere ciò che stava già morendo:
La Rivoluzione distrusse subitamente, con un convulsivo e doloroso sforzo, senza transizione, senza circospezione, senza riguardi, ciò che sarebbe lentamente finito da sé. Tale fu la sua opera9.
La rivoluzione distrusse tutto ciò che in qualche modo si ricollegava al decrepito mondo aristocratico e feudale. Ma conservò ed anzi rafforzò norme, costumi e istituzioni che facevano parte integrante dell’ancien régime:
Molte leggi, molti principî politici dell’antico regime spariscono d’un tratto nel 1789 per riapparire qualche anno dopo, come certi fiumi sprofondano sotterra, per riaffiorare poco lungi e mostrare a nuove rive le loro acque10.
Lo Stato centralizzato, già affermatosi con l’ancien régime, proseguí e celebrò il suo trionfo grazie alla rivoluzione:
Non sono affatto, come fu troppo detto e ridetto, i principî del 1789 in materia d’amministrazione pubblica che trionfarono a quell’epoca e in seguito, ma quelli dell’antico regime, che furono allora tutti ripristinati, e che rimasero pienamente in vigore11.
Il fatto che le grandi rivoluzioni rivelino la loro impotenza n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Saggio sui potenti
  4. Premessa
  5. I. L’ignoranza dei potenti
  6. II. La società frazionata
  7. III. Gli apparati burocratici
  8. IV. Il potere dell’economia
  9. V. La presenza delle masse
  10. VI. Nominare, destituire, uccidere
  11. VII. L’edificazione dei templi
  12. VIII. L’irrazionale collettivo
  13. IX. Vizi e malattie dei potenti
  14. X. Antologia di classici
  15. Epilogo
  16. Indice dei nomi
  17. Il libro
  18. L’autore
  19. Copyright