Almarina
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Almarina

  1. 136 pagine
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Può una prigione rendere libero chi vi entra? Elisabetta insegna matematica nel carcere minorile di Nisida. Ogni mattina la sbarra si alza, la borsa finisce in un armadietto chiuso a chiave insieme a tutti i pensieri e inizia un tempo sospeso, un'isola nell'isola dove le colpe possono finalmente sciogliersi e sparire. Almarina è un'allieva nuova, ce la mette tutta ma i conti non le tornano: in quell'aula, se alzi gli occhi vedi l'orizzonte ma dalla porta non ti lasciano uscire. La libertà di due solitudini raccontata da una voce calda, intima, politica, capace di schiudere la testa e il cuore.Esiste un'isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull'acqua, ed è lí che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant'anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l'altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze». Questo romanzo limpido e intenso forse è una piccola storia d'amore, forse una grande lezione sulla possibilità di non fermarsi. Di espiare, dimenticare, ricominciare. «Vederli andare via è la cosa piú difficile, perché: dove andranno. Sono ancora cosí piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858431801

Almarina

Mi chiamo Elisabetta Maiorano, e non è che me lo stia chiedendo qualcuno: sono io che me lo ripeto in testa ogni volta che arrivo al varco di Nisida (come mi ripeto in testa il codice del bancomat mentre sto ancora camminando verso lo sportello). Ogni volta che entro mi sento in colpa. Alla sbarra, quando mi fermo per farmi riconoscere, mi viene da abbassare gli occhi, mostro il viso senza davvero guardare in faccia l’agente, come se avessi la macchina carica di cocaina. E la vedo alzarsi con uno sforzo enorme, quella sbarra, come se la dovessi sollevare io, fosse colpa mia che Nisida è un carcere minorile, le avessi scavate con le mie mani le strade di tufo che fanno arrampicare su la macchina. Come se mi stessero facendo un favore.
Appena arrivo davanti a quella sbarra perdo ogni diritto civile, ogni sostanza acquisita nel tempo, non sono piú nessuno, né una laureata, né un’insegnante che ha vinto concorsi, che ha fatto anni di supplenze al nord e sa rispondere male a chi non rispetta la fila. Quella che va a denunciare lo specchietto scassato, le gomme bucate, lo sportello rigato dalla chiave. («Perché signora, lei sa chi è stato?» «Sí lo so: un parcheggiatore abusivo sotto San Pasquale, che voleva i soldi e che gli ho detto che invece li davo a un musicista». «Mi sa che pure il musicista era abusivo»).
All’angolo della guardiola di Nisida mi lascio vivisezionare, ma è impressione solo mia, mi dico: ché tanta gente sale sopra alla mattina, educatori, insegnanti e maestri dei laboratori, e io ho pure la targa registrata, infatti mai che mi chiedano il perché. E forse manco lo sanno, loro, messi in servizio un giorno lí e il mese dopo dove, che saliamo la montagna del purgatorio, e quando scenderemo non saremo piú gli stessi.
Elisabetta Maiorano. Da tre anni vado in giro con il passaporto invece che con la carta d’identità, perché sul passaporto non c’è scritto lo stato civile, e io ho ancora la carta su cui stamparono «coniugata» e non ho nessuna voglia di tornare all’anagrafe per farmela aggiornare.
(C’era un sacco di polvere che rendeva l’atmosfera ironica, mentre facevo la carta d’identità: impossibile crederci davvero. Gli impiegati erano indistinguibili dai cittadini, o forse no: erano piú consunti, avevano maglioni che non sarebbero mai tornati di moda.
«Ma non si può mettere “omesso” a stato civile e lavoro?» «Signò, quando non volete far sapere che siete sposata usate il passaporto».
Io non ebbi la prontezza di rispondergli, né di ridere. Arrivo molto tempo dopo a capire cosa penso di quello che mi accade, sono piú pronta all’azione che alla riflessione: solo, me ne andai frustrata. Poi, con la vedovanza, il consiglio si è rivelato utile).
Richiusa la sbarra alle spalle, mi sento piú libera. Ho avuto il mio lasciapassare di occhi, ho superato il limite invalicabile altrimenti, e per il primo tratto ascolto il sollievo. È un sollievo da ogni cosa. Se voi sapeste cosa significa potersi girare un momento, nella tirata che anticipa il tornante. Fermarsi mentre il corpo continua, scala la marcia, gioca con la frizione, prepara la curva nel volante, mentre il corpo sale: trovarsi dopo la sbarra e prima del carcere, lasciando tutta la città sotto con le sue ansie: che sono le mie. Se voi sapeste, quando camminate per i decumani, pregate nella chiesa del centro direzionale isola E accanto al Palazzo di giustizia. Voi che state in vacanza, quelli che avete appena finito di parlare al convegno: io vi vorrei chiamare tutti verso ovest, farvi girare e dirvi che quella donna piena di angoscia che sta ascendendo Nisida non è una detenuta. È una donna che ha cinquant’anni e si è sposata tardi. È successo per tanti motivi, ma soprattutto perché è andata in giro a fare supplenze. È salita a Treviso, ha imparato a bere il vino bianco alla mattina, a guidare nella neve. Ha imparato a far passare il tempo, a ballare il tango a Frosinone, ha aiutato il bidello a stendere un lenzuolo, nel fine settimana, per proiettarci sopra un film. E quando è tornata si era fatto tardi assai.
Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è che prima del carcere e già oltre la sbarra se voi guardate bene lo vedete, che lei prova uno strano sollievo. Forse quelli che viaggiano sempre provano lo stesso sentimento quando l’aereo si alza in volo. E qui invece ad alzarsi in volo c’è qualche gabbiano, e uno scoglio come un pinnacolo nel punto in cui la strada svolta. Intanto c’è silenzio. Il silenzio che non si sente mai: fuori dalle rotte, lontano da qualunque strada, e mare inaccessibile tutto d’intorno, che a destra finisce dentro il Vesuvio, e a sinistra dentro l’Italsider. Ma oggi è tutto spento: vulcano e acciaieria.
Il momento del conforto è nel tempo della svolta, poi già mi si parano davanti gli edifici della ceramica, i laboratori. Dentro la sbarra ma ancora fuori dal carcere, nella mattina fredda, l’aria fredda, io il bagagliaio ingombro della vita faticosa: vedo ragazzi chiusi nei loro cappucci, nelle loro giubbe fumano ai lati del viale. Non ricordo le loro facce, non ne riconosco nessuno, loro mi salutano: una macchina, un insegnante, un cane, un ospite da salutare sempre. Riconosco le loro funzioni: questi sono gli «articolo 21», persone in semilibertà che tornano dentro solo per dormire. All’interno dello stesso carcere esistono dei gironi, e i detenuti vi appartengono al punto da mutuarne il nome. Si formano, non detti da nessuno, rispetto al tipo di detenzione, quale la lunghezza della condanna, da quanto tempo stanno dentro, il modo di condurla. «Il quarto reparto», dicono di quelli che possono mangiare in camera senza scendere al refettorio. Gli articolo 21 mi guardano attraverso il parabrezza, e io devo riposizionarmi al loro sguardo. Non devo lasciar spegnere la macchina, devo trovare subito parcheggio, saper fare la manovra. Devo essere competente, perché mi stanno guardando e il loro giudizio mi sfianca.
Scelgo il parcheggio basso, quello piú lontano che sicuramente è vuoto. Ed ecco di nuovo la tregua: sale da una zona d’ombra che il promontorio di Posillipo getta sul Vesuvio, nascondendone una gobba. E dal fatto che laggiú, oltre tutta quell’acqua, si vede Capri. Capri è un posto dove la gente sta bene, i turisti salgono con la funicolare, si fermano in piazzetta. Ci vivono gli stranieri tutto l’anno, nel liceo classico si parla inglese, russo e greco antico, quattro bistecche 150 euro. Capri d’inverno dà il suo meglio: da qui si vede, è chiaro. E poi tra poco devo lasciare il cellulare, e non sarà colpa mia.
Mentre avanzo verso i vetri antiproiettile, sento che finalmente mollerò gli ormeggi da quella vita di usura che mi è capitata. È il regolamento, io non c’entro: per le prossime cinque ore non sarà responsabilità mia: come ciascuno che entri a Nisida torno libera, torno bambina.
La guardia mi chiede nome e cognome, è scontrosa, non sorride, il suo fare non è in alcun modo accomodante. Altre volte, altri giorni, guardie migliori, un sorriso in piú.
Mi chiamo Elisabetta Maiorano, credo che ci fosse un’ambizione monarchica da qualche parte nel mio passato. Del resto, l’unica cosa che ho ereditato è una scatola da scarpe piena di posate d’argento. Stavo preparando il concorso, vivevo in pigiama la maggior parte del tempo e a intervalli regolari mi infilavo giú per il cortile delle statue e sbucavo sulla biblioteca universitaria. Mentre stavo fotocopiando qualcosa, mentre avevo le polacchine ai piedi, mentre a via Mezzocannone pioveva, i ladri entrarono nella mia casa di studente e quella scatola fu l’unica cosa che non portarono via.
(«Sono stati gli zingari: gli zingari odiano l’argento», disse con certezza la vicina.
E poi, il poliziotto: «Ma tu perché vivi da sola?»
«Ma lei perché mi dà il tu?»)
Mi danno una chiave che corrisponde a un piccolo armadietto. Della mia borsa faccio un sacco, l’ammacco, la schiaccio, ce la faccio entrare, do la mandata e vado. Dentro ci lascio la solitudine della figlia unica, l’orecchio dolente di una malattia esantematica, l’ombra che mi terrorizzava al pomeriggio, proiettata sul muro della stanzetta. Quella risposta inopportuna per cui mia madre non mi parlò per giorni. Tenersi le mani addosso quando non le vuoi davvero, volere di piú le mani addosso e non saperle chiedere. Il primo attacco di panico una notte in albergo a Parigi, dopo la maturità. E la vacanza con un uomo piú adulto di me, nella quale piansi tutti i giorni.
Eppure stamattina dopo vestita, vinto il freddo della casa, ho nascosto le occhiaie sotto una striscia di correttore, spazzolato i capelli a testa in giú. L’ho fatto per essere scrutata dagli alunni, perché le femmine potessero vedere in me qualcosa che conoscono, che affinano nelle celle. Perché i maschi potessero riconoscere un’immagine di donna che rispettano. Ma poi queste sono idee mie, chissà per dove passa il rispetto: non è di loro che parlo, io di loro non so nulla. Parlo di me. Di come mi faccio forte per non crepare. Quando mi sono guardata allo specchio ho visto una donna stanca. Una vecchia stanca in pieno hangover che non poteva tener su troppo il mascara perché piangere le era piú naturale che truccarsi. Una vecchia: cosí non pensavo di essermi portata dietro tutta quell’infanzia da stipare nell’armadietto.
Le guardie all’ingresso sono impenetrabili come il loro ufficio. Non sono mai state scortesi, poco fiato per dire buongiorno. Hanno un tratto sovietico nelle palpebre, qualcosa che le difenda da me e dal vento degli Urali. A volte chiedono il documento. Altre volte controllano il nome su una lista: ELISABETTA MAIORANO. Chi sono? Perché sto entrando qui? Sono pericolosa per i minori detenuti? Sono pericolosa per me stessa? Che penso di fare, dove credo di andare? Altre volte: «Gli armadietti sono occupati». E allora si deve tornare in macchina e lasciare tutto nel cruscotto.
Per oltrepassare il cancello grande si deve bussare a un campanello, il campanello sta a dieci passi piccoli dalla guardia che mi ha controllato i documenti. Ma è il protocollo: io arrivo sotto al cancello, dieci passi piccoli dopo, e devo suonare come se fossi arrivata ora. La stessa guardia che mi ha controllato i documenti, dieci passi piccoli fa, aziona l’apertura del cancello.
C’è, in questa prassi, tra il casotto delle guardie e quel cancello, un’atmosfera diversa di ossigeno rarefatto. È la stessa che si trova nelle sale d’attesa degli uffici pubblici, quella creata dai monitor che elaborano il tuo referto mentre fai la mammografia. È l’atmosfera che esala dalle buste di Equitalia, che ti accelera il cuore mentre firmi in banca. La forza di gravità aumenta, rende pesanti i piedi, e si annaspa nell’aria densa di anidride carbonica. Regina reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello?
L’inferriata scorre su un binario, dentro rivela la luce: pure se piove, c’è sempre piú luce che da dove sono arrivata. Non ho piú niente, sono io vestita, e se qualcosa ho da prendere o da giocare deve essere già con me, nei cromosomi, in quello che dirò, che so già, nel modo in cui alzerò gli occhi e cosa e dove saprò guardare. C’è tutto questo pezzo da fare a piedi, una passeggiata che costeggia il campo di pallavolo, e sgrana sulla sinistra le celle del femminile, che hanno le fioriere ai lati delle scale, tenute bene. Fioriere e fiori, non fioriere e cicche di sigaretta. E poi il lungo murale giallo. Cosí sono libera nel tempo di questo cammino, dentro le mura, oltre il cancello, prima dei detenuti, tasche svuotate. Sono io e nessuno può farci niente. Marito che te ne sei andato non puoi farci niente, città non puoi farci niente, e neppure voi cognate che passate l’aspirapolvere sotto i letti.
È presto, i cortili sono vuoti, le oche sole nel recinto della pet therapy. E ci sono questi uomini giovani, vestiti di scuro. Dentro i jeans femori lunghi, gambe allenate: uomini alti che mi ricordano tempi migliori in cui non sapevo guardare. Epoche in cui la giovinezza era prestanza e io non la vedevo in maniera cosí chiara. Davanti a corpi cosí, quando avevo la loro stessa età, non avrei saputo cosa fare. Adesso è un poco meglio, un poco diverso, ma è merito loro: mi guardano, e chi guarda ingaggia sempre una partita. Allora drizzarsi nelle spalle, gonfiare il petto, guardare a propria volta diritto, increspare parte delle labbra in un sorriso. Ancora guardie. Hanno trent’anni, una radio in mano, chiavi attaccate con i moschettoni ai passanti del jeans, e un tempo seduttivo nel passo. Mi salutano senza tante cerimonie, non le conosco una per una, e loro forse sanno chi sono, e a loro importa solo questo: se sto là sono stata autorizzata. Sono io che mi trasfiguro nel passaggio, che guardo se stanno fumando, e spero che compaia una donna prima o poi. È in me l’idea che le guardie sono sbirri, che gli sbirri fanno male, che sei colpevole perché appena ne incontri uno ti nasce una pietra in tasca. Come possiamo stare tutti e due dentro Nisida stamane se io ho scelto di fare l’insegnante e tu la guardia carceraria? Se tu credi alla repressione, perché sto cercando la tua approvazione? E tu invece non mi chiedi manco dove vado, mentre io mi avvio ai laboratori.
– Professoressa Maiorano, – mi viene incontro di passo veloce, elastico, ha gli occhi scuri scuri. – Professoressa, ma io ve lo devo proprio chiedere: voi avete qualcuno nella vostra famiglia che insegnava all’istituto Della Porta?
– Certo, mio nonno Luigi, insegnava italiano.
– E voi siete tale e quale, proprio vostro nonno con i capelli ricci. C’è ancora?
– Eh, no, è morto negli anni Novanta… ma voi siete stato suo alunno?
– Maronna professorè e chi se lo scorda, ci ha fatto vedere i sorci verdi vostro nonno, era un carabiniere.
– Era severo?
– Grande preparazione, per carità, però teneva dei modi che noi… erano altri tempi, capite?
– Cioè?
– E cioè, posso dirlo? Vostro nonno era p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Almarina
  4. Prologo
  5. Almarina
  6. Epilogo
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autrice
  10. Della stessa autrice
  11. Copyright