La parola Dio
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La parola Dio

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La parola Dio

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Pensare che Dio sia "soltanto" una parola non significa ridurne il valore nella storia. Al contrario, può significare dare contenuto di realtà alle radici profonde che hanno indotto, nei secoli, comunità di esseri umani a lavorare intorno a questa immagine, costruendo una foresta di simboli, tracciando cammini di conoscenza e di relazione tra gli uomini. Ma poiché ogni pensiero deve fare i conti con la contemporaneità, è necessario capire se la parola «Dio» sia oggi sfibrata, svuotata di senso oppure se sia possibile rinvenirne un significato nuovo, in cui al di là della narrazione mitologica si possa intravedere l'ossatura di una inesausta ricerca. Potremmo allora considerare la parola «Dio» come il punto di intersezione tra le piccole vicende umane di ogni tempo e le vorticose dimensioni della ricerca intorno all'universo. Forse è in questo incrocio di strade che la parola «Dio» è stata formulata. E forse si può tentare oggi di immaginare una nuova mappa. Interrogando la vita, ma anche le scienze, la poesia, la storia e le Scritture stesse.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858432228
Capitolo secondo

Settanta sensi piú uno

Il tempo del dicibile.

A essere in questione non è solo la parola «Dio». Anche quella che nelle Scritture e poi nei commenti, nella teologia, nel linguaggio dei fedeli viene chiamata la «Parola di Dio» non può essere assunta alla lettera, sine glossa, senza essere soppesata. Che cosa significa che «Dio parla»? Non è una prerogativa esclusiva dell’umano quella di parlare, comunicare, emettere suoni significanti attraverso i quali ci si comprende, ci si esprime, si vive? Che cosa ha significato attribuire anche a Dio questa potenzialità dell’umano? Si tratta di miti, leggende, racconti, o possiamo arrivare a ipotizzare qualcosa di piú interessante?
Il linguaggio non è solo qualcosa che abbiamo ricevuto in eredità e che ci serve a organizzare comunicazioni utili alla sopravvivenza. Ha una capacità affettiva, sapienziale, creativa che incide sulla realtà stessa del mondo. Per questo riflettere sul linguaggio umano comporta anche riflettere sulla storia dell’uomo, sul suo destino, su quello che possiamo chiamare il suo «compito». Dare nome a ciò che incontriamo, a ciò che sentiamo, a ciò che conosciamo e anche a ciò che vorremmo conoscere fa parte del «compito» dell’umano di dare forma al mondo in cui vive. Per questo le parole devono essere precise, belle, devono costruire bene un discorso. Non ci possono essere dimensioni del «bene» se non sono espresse attraverso un linguaggio bene articolato, essenziale, pulito.
… Forse noi siamo qui per dire: casa
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al piú: colonna, torre… Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose cosí, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo,
mai intendevano d’essere. […]
… E queste cose che vivon di morire,
lo sanno che tu le celebri; passano
ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo piú di tutto1.
È una responsabilità grave e feconda quella a cui Rilke ci invita. «Qui è il tempo del dicibile. Qui la sua patria». Questa terra, questo tempo sono il luogo della parola. Ogni terra. Ogni tempo. Per provare a dire ogni cosa. Ma «qui». Non in un altrove. Qui, ora, siamo chiamati a dar vita alle cose, nominandole. Farle esistere, salvarle, chiamandole per nome. Non è per questo che ciascuno di noi ha un nome? Non è per questo che quando un bimbo sta per venire al mondo si pensa un nome per lui, lo si comincia a chiamare prima ancora che sia nato? Ma possiamo pensare di «dar vita» anche a Dio chiamandolo per nome? Possiamo «salvare» cosí la sua presenza?
Che nel linguaggio stia la particolarità dell’umano è cosa nota. E anche se oggi si è portati a studiare il linguaggio degli animali, quello dei vegetali e le impressionanti evoluzioni dell’intelligenza artificiale, nulla ancora riesce a scalfire l’insostituibile complessità del linguaggio umano. Con la parola l’uomo crea. Con la parola fa intelligenza del mondo. Con la parola stabilisce relazioni d’amore o di odio o di indifferenza. Con la parola costruisce dimore di sapienza. Con la parola anche inganna. Edifica santuari alla menzogna. Con la parola esegue condanne a morte e distruzione, fonda civiltà o inciviltà, applica cura o dissoluzione. Per questo occorre condurre la parola – con pazienza, con sollecitudine, e mettendo in conto inciampi ed errori, ma sempre correggendola – verso una pulizia dell’espressione, verso una eleganza della forma, verso una responsabilità nel pronunciarsi, nell’affermare o nel negare. È un grande rischio la parola, ma è un rischio che l’essere umano, in quanto tale, quotidianamente si assume e prende in carico.
Del resto, già nel secondo racconto della creazione, a pochi versetti dalla prima grande cosmogonia, uno dei primi atti «pedagogici» che il Signore Dio compie nei confronti di Adamo è quello di indurlo a dare un nome a tutti gli esseri viventi: «In qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello sarebbe stato il loro nome» (Gn 2, 19). In questo modo l’Adàm – che poco oltre darà un nome anche alla donna – è tenuto a imporre la propria «autorità» su ciò che abita la terra. Nel bene come nel male. Nel dominio come nella responsabilità.
Anche un livello minimale di linguaggio è prova di esistenza. «Chi parla non è morto», dice un verso di Gottfried Benn.
Da quando comincia a fare esercizio di linguaggio l’essere umano fa esercizio anche di coscienza. È cosí che procede. È cosí che edifica il mondo.
In moltissimi luoghi della Bibbia si sottolinea la cura che è dovuta al linguaggio. In particolare nel libro dei Proverbi, un libro di «educazione» dell’uomo retto e di fede, si raccomanda un uso consapevole e prudente del parlare: «Morte e vita sono in potere della lingua e chi ne fa buon uso ne mangerà i frutti» (18, 21). «Le parole della bocca dell’uomo sono acqua profonda, la fonte della sapienza è un torrente che straripa» (18, 4). «Favo di miele sono le parole gentili, dolce il palato e medicina per le ossa» (16, 24). «Chi è saggio di cuore è ritenuto intelligente; il linguaggio dolce aumenta la dottrina» (16, 21). «Una risposta gentile calma la collera, una parola pungente eccita all’ira» (15, 1-2).
Anche Gesú in molti passi dei vangeli esorta a una particolare vigilanza sul linguaggio: quando sale sul monte, a pronunciare quello che è ritenuto il suo grande sermone, quello piú inquietante e «scandaloso» in cui rovescia i valori del mondo, prescrive di non pronunciare mai giuramenti. Certo, per rispetto alla legge degli antichi. Ma anche per mettere in rilievo l’aleatorietà delle parole umane. Chi potrebbe mai farsi garante fino in fondo della verità di ciò che dice? Suggerisce piuttosto di limitarsi a un semplice «sí» o a un semplice «no», alzando cosí un recinto di protezione intorno alla sconsiderata esuberanza del parlare. Esuberanza che può portare anche a salvare o cancellare una vita umana. Quante vite sono state stroncate da una parola, e quante invece liberate!
«Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai […] Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido” dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo” sarà destinato al fuoco della Geènna» (Mt 5, 21-22). Il recinto si stringe anche intorno alle «parole vane» di cui ciascuno dovrà dar conto nel giorno del giudizio (Mt 12, 36). Quanto questo ci possa essere di monito oggi, ognuno lo può constatare da sé.

La Parola «di» Dio.

Proviamo a dire cosí: la stirpe umana ha «pensato» Dio. Per dargli «forma», per dargli «presenza», è stato necessario non solo trovargli un nome, ma anche far sí che quel nome avesse una voce: dargli la Parola. Tutte le tradizioni religiose – o quasi – si aggrappano a un testo, a delle parole. Non sempre sono parole di un dio. La tradizione ebraica ha invece costruito la propria identità proprio intorno alla Parola di Dio. Cosí come quella cristiana, tanto piú che si è diffusa molto presto nell’Occidente, terra del Lógos, oltre che del tramonto. Il linguaggio, materia del pensiero umano, viene trasferito, per cosí dire, anche nell’articolazione di una Parola divina, per distillarne l’essenza, per far sí che lasci un’impronta meno fuggevole nelle insicure menti dei viventi.
Per questo il Dio biblico viene narrato soprattutto attraverso la sua Parola. È Parola. In che modo, se non attraverso la Parola, si poteva far vivere un Dio che incessantemente insegna, giudica, mette alla prova, guida, promette, consola? La narrazione «impone», si può dire, che Dio abbia Parola. Una Parola che in primo luogo va ascoltata. Che le creature devono accogliere dentro le proprie viscere, per farla crescere, lievitare, per convertirla in gesto, atto, coscienza. La prima preghiera, la piú importante, quella fondativa per ciascuno dei figli di Israele è: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stanno fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli…» (Dt 6, 4-7). Solo dall’ascolto – e dunque dall’accoglienza della Parola – nascono l’attenzione, la fiducia (e dunque la fede), la coscienza di dover fare i conti con una voce che interpella, inquieta, obbliga a vagliare i comportamenti, i gesti, le parole: tutto ciò che conta per fare comunità.
La Parola di Dio, cosí potente da «creare» il mondo, è materia che plasma l’umano, lo fa germogliare, lo trasforma. Tanto piú la Parola scritta nel rotolo della Legge è cibo che nutre, come il latte, come il miele. Cosí ha inizio la missione del profeta Ezechiele: «Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va e parla alla casa di Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3, 1-3).
Ma, appunto, la Bibbia stessa rivela che questa Parola non sta nella profondità dei cieli o negli abissi del mare, ma nel cuore stesso dell’uomo, nel cavo della sua bocca. Nella sua coscienza, potremmo dire, nata da un parto travagliato, da una lunga elaborazione collettiva. «Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nei cieli perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo? Non è di là dal mare perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30, 11-14).
La Parola è lo strumento principe con cui, nella Bibbia, il divino va incontro all’umano, lo penetra, lo scuote, lo feconda. «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Cosí, nel racconto delle tentazioni nel deserto, Gesú risponde a Satana che lo tenta con i poteri del mondo (in Mt 4, 4), ricalcando un versetto antico (Dt 18, 18), come accade tante volte nei vangeli, costruiti proprio sull’asse di una continuità incancellabile tra l’antico mondo giudaico e i nuovi tempi che si affacciavano alla storia.
Va anche precisato che questo primato della Parola non spetta solo al Dio biblico. In molte tradizioni religiose le divinità parlano, interloquiscono con gli uomini e con le donne, intervengono nei loro destini con apparizioni o messaggi. Penso ad esempio al mondo greco del mito, dove gli dèi sembrano quasi giocare con le sorti degli umani. È vero che la grecità conosce aspetti diversi del divino. Non ci sono solo gli dèi dell’Olimpo. Si dà anche un inafferrabile «Uno», inaccessibile, infinito. «Qualcosa c’è, e ci trascende», è detto in Euripide. Ma di fatto c’è una dialettica costante, tramite i vari «messaggeri» che popolano l’Olimpo, tra il mondo umano e quell’Uno indecifrabile, invisibile, proprio come il Dio biblico: «Uno che non vediamo», dice Prometeo.
Penso anche a una cultura molto distante da noi, come quella dei Ṛgveda, la piú antica fonte di sapienza dell’India, tramandata per secoli in forma orale, e messa per iscritto soltanto verso il 300 prima della nostra era, considerata dagli indiani la forma piú alta di ogni conoscenza e sorgente di ogni principio religioso e sociale. Vi si legge:
Io, Vāc [la Parola] ho pervaso il cielo e la terra.
Io genero il padre alla sommità di questo mondo.
La mia origine è nelle Acque in mezzo all’oceano.
Da lí mi diffondo su tutti gli esseri
e con la mia sommità tocco il cielo lassú.
Io spiro come il vento, impossessandomi di tutti gli esseri.
Con la mia grandezza ho varcato i confini del cielo e di questa terra2.
Il soffio della parola pervade ogni testo fondativo di sapienza. Però è vero che forse solo nel testo biblico assistiamo a quell’intreccio di parole tra l’umano e il divino, quel dire e ascoltare e replicare, e contendere, e fraintendere, e supplicare e promettere, e concedere, o negare che è caratteristico di un vero dialogo. Dia-logare è gettare parole, ragionamenti, pensieri in mezzo a due soggetti, per far sí che essi trovino un modo di comunicare, di intendersi, di recedere o di affermarsi, fino a dar luogo a una piattaforma verbale dove la tensione del dire non sia svilita, ma produca una conquista, o almeno una tregua, in attesa di un passo successivo. Forse è superfluo precisare che nessuno può mai aver udito materialmente la voce di Dio. Ma ci sono richiami che vanno al di là della percezione sensoriale. Non penso neppure che quella voce la si possa identificare tout court con la «coscienza» del soggetto, strumento quanto mai labile, impreciso, volubile. Piuttosto, la si può pensare come un appello che da qualche parte arriva a chi si ponga in uno stato di attenzione. O come il risultato di una lunga, faticosa, corale elaborazione di pensieri, commenti, chiarimenti fino ad arrivare alla formulazione di una Parola, che finalmente può proporsi in forma dialogica, interrogante, dubitativa, per entrare cosí nella storia degli individui e dei popoli. Acquistando un’autorevolezza tale da poter mettere uomini e donne di fronte alla responsabilità delle loro scelte: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30, 19).

Un punto interrogativo.

Teologi, biblisti, predicatori, semplici fedeli usano spesso ripetere, per timore che la Bibbia sia strumentalizzata in senso fondamentalistico, che la Bibbia non «è» Parola di Dio, né, ovviamente, è stata «scritta» da Dio; bensí «contiene» la Parola di Dio, il quale ha «ispirato» gli uomini (forse anche le donne!) che hanno trascritto nei secoli quelle parole. Mi sembra però che, in questo modo, non ci si discosti molto da una visione cosí «materialistica» della Parola di Dio – o di Dio stesso – da ritenere che davvero essa sia stata pronunciata, o sussurrata, in maniera tale da essere udita da orecchi umani. Si continua cosí a dare di Dio una visione – ripeto – troppo «oggettivata», troppo «realistica». Dando un volto, un corpo, un timbro di voce, o un pensiero in forma di parole a quel Dio che a nessun costo – se vogliamo tenere per buona la narrazione, e usando noi un velo di ironia – vuole essere oggetto di identificazioni troppo precise. Quella Parola esiste, anzi, sarebbe meglio dire «quelle parole» esisto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La parola Dio
  4. I. Umano, troppo umano
  5. II. Settanta sensi piú uno
  6. III. Che cosa resta?
  7. IV. Pregare
  8. Nota al testo
  9. Il libro
  10. L’autrice
  11. Copyright