La fine del mondo
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La fine del mondo

Contributo all'analisi delle apocalissi culturali

  1. 640 pagine
  2. Italian
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La fine del mondo

Contributo all'analisi delle apocalissi culturali

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La fine del mondo di Ernesto De Martino va ormai annoverato tra i classici del pensiero europeo contemporaneo. La presente edizione offre numerosi elementi di sostanziale novità rispetto a quella pubblicata da Einaudi nel 1977, e consente ai lettori di gettare nuova luce sul capolavoro del grande studioso. Il lavoro collegiale di valutazione critica dei materiali preparatori dell'ampio saggio rimasto incompiuto si è proposto di far emergere in tutta la sua portata un pensiero complesso, situato al punto d'incrocio tra antropologia, filosofia e storia, in cui convergono stimoli intellettuali di varia provenienza, rielaborati dall'autore in modo del tutto personale. A tale scopo i tre curatori hanno deciso sia d'inserire nel testo una selezione degli scritti filosofici piú rappresentativi, non presenti nell'edizione italiana, sia di porre in risalto i nessi strutturali tra le varie sezioni in cui si articola il progetto dell'opera: ciò ha comportato la revisione dell'intera architettura del volume, nel rispetto delle intenzioni dell'autore. Alla base dell'indagine sulle diverse declinazioni storiche del tema della «fine del mondo» vi è il bisogno di fare luce sul presente della civiltà occidentale, attraversata da una crisi che sembra corroderne le fondamenta dall'interno, avviandola verso un assai probabile declino. De Martino s'interroga sulle motivazioni profonde di questo complesso fenomeno, volgendo lo sguardo alla psicopatologia, alla filosofia, all'arte e alla letteratura. Lo studioso affronta una serie di nodi cruciali, che vanno dal senso di «spaesamento» dell'uomo d'oggi allo sfaldamento della memoria storica, in cui sono sedimentate le scelte culturali che contraddistinguono una determinata civiltà.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858432037
Categoria
Antropologia
Capitolo secondo

Le apocalissi psicopatologiche

1. Le esperienze vissute di fine del mondo.

1.1. A. Storch, Tod und Erneuerung in der schizophrenen Daseins-Umwandlung [Morte e rinnovamento nella conversione esistenziale schizofrenica]1, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten»2, 181 (1949), pp. 275-93.
L’esperienza di essere-agito-da.
Nel caso riferito alle pp. 276 sgg. una donna si sente, rispetto al proprio marito, asservita, spossessata, carpita della vita: «Essa non può piú essere in vita per forza propria», in quanto il marito (e la madre) gliela hanno sottratta (p. 278). La distruzione del proprio Dasein è vissuta sotto la specie dell’atrofizzarsi delle sue possibilità di maternità, e questo atrofizzarsi è avvertito come un Lebensraub, come un furto della vita. «Con uno sguardo possono prendersi il mio io come il mio mantello» (a proposito della energia lavorativa impiegata dalle infermiere sfruttando la sua propria) (p. 279). Gli uomini la possono usare come strumento inerte per i loro impulsi sessuali: i loro semplici «sguardi ipnotici» la costringono al commercio (p. 278). I valori affettivi naturali le sono carpiti, onde essa è «vuota e senza interessi». Il corso dei suoi pensieri è interrotto e sconvolto dalla infermiera. I suoi pensieri sono «impediti», «la conversazione la esaurisce» (p. 279). «Io mi perdo negli altri, come dovessi darmi come vittima» (ibid.).
Il mondo ostile possiede su di lei una forza demoniaca perché «una parte della mia vita è troppo fortemente legata a quella degli altri». È costretta a odiare e a difendersi. Non possiede piú un essere per se stessa delimitato. «Non posso piú avere per me nessun pensiero, e nasconderlo agli altri». Gli altri «compensano» ciò che essa pensa, ascoltano e le rispondono. Storch parla di partecipazione magica in rapporto con la mutata struttura dell’esistenza.
Deflusso dell’io nel mondo: essa è costretta a trasformarsi in altro: ritrova la propria esistenza «al di fuori» (di sé), negli uomini negli animali nelle cose. La sua gioia di vivere è «fuori nella vacca», e «invece dei bambini» che avrebbe dovuto avere «di fuori corrono qua e là galletti». Questa continua proiezione in altro, cui è esposta, la svuota, e la sua esistenza vivente diventa «mera figura». «Io non sono piú una creatura completa, ma solo un minimum, interamente spossessata (spesa) a profitto di altri soggetti inutili». «Il sentimento primitivo per eccellenza del “trovarsi” è andato perduto, e al di fuori della collera l’originario sentire non esiste piú». «Io non sto piú nell’interno della vita, ma al di là».
La perdita di sé, «la negazione dell’esistenza» procede nella duplice direzione di reificazione dello spirituale e di una smaterializzazione del corporeo. La reificazione vale come scissione in parti: l’io reificato è spossessato, diventa inesistente, un «conglomerato». L’unità chiusa della sua esistenza di prima è andata perduta. Anche le altre persone sono conglomerati. E come lei trapassa in parte in altro, gli altri trapassano in lei. Atomizzazione, disarticolazione del reale. Essa è una «non-cosa, ogni giorno rimodellata» (ibid.).
La smaterializzante evaporazione vale come risoluzione del proprio corpo in aria, in soffio, in alcunché che ondeggia. Gli uomini sono fantasmi, i fantasmi si vedono. I fenomeni si compenetrano come soffio, quelli degli altri vanno attraverso di essa, come essa attraverso quelli. Essa è fuori nel vento. La ricostruzione magica: multipresenza, ecc. Forza, ecc. Disegni che creano: non imitazioni ma modelli del reale. Catasterismi3 della persona (p. 283). «Ma tutti i suoi tentativi di sollevarsi corporalmente o col pensiero verso l’alto, sino al mondo delle stelle, sono esposti allo scacco. La direzione fondamentale della sua vita colpita dalla malattia precipita verso il basso. Ciò che essa pensa “verso l’alto” è di nuovo carpito, “de-pensato” (abgedanken). È tappata nel monte». In quanto esposta alla reificazione e alla ripartizione, «si indebolisce la forza delle stelle». «Il sole non riscalda piú; la luna non appare piú; l’immagine della stella, questa è la mia vita». Solo per momenti può compiere il suo conato sempre rinnovato di essere irraggiungibile alla distruzione materiale nel mondo delle stelle (ibid.). Invece di riposare in Dio essa «è sciolta nel nulla» (p. 286).
Storch: «Il processo schizofrenico significa per l’esistere dell’uomo una progressiva perdita di esistenza, una “negazione di esistenza” – per parlare nel linguaggio della nostra malata, un annientamento del poter essere con se stesso e con gli altri, un decadere dal vivente divenire. Questa perdita di sé (Selbstverlust) può modellarsi in diverse forme; nel caso presente, tipico per un determinato gruppo di schizofrenie –, l’annientamento viene esperito come distruzione che procede da un sovrapotente, ostile mondo che sta di fronte, il non-piú-possedersi come spossessamento, la impotenza come depotenziamento, l’essere esposto allo smembramento come spostamento malefico e spossessamento da quelle controforze. L’essere sottratto e strappato a sé appare qui come svuotamento, spoliazione e furto della esistenza. Gli altri uomini e il mondo materiale sono esperiti non piú come viventi, ma come morenti. L’essere insieme si risolve nell’essere l’uno contro l’altro. Il mondo umano e delle cose sono vissuti non piú come viventi ma morenti. Lo stare insieme si risolve in uno stare l’uno contro l’altro, la partecipazione dell’uno all’altro si risolve nell’uno che prende parte dell’altro. Le forze avverse hanno strappato la forza ai processi corporei e psichici. Tutto ciò significa dissociazione dell’esistere vivente, che divenuto cosa le si frantuma in parti permutabili, sottraibili, componibili in nuovi conglomerati. Ciò significa anche una svaporizzazione che scioglie il Dasein corporeo in una compenetrazione reciproca, di tipo come aria o soffio... La disarticolazione del tempo vissuto, nel senso che la continuità del divenire è frantumata nella discontinuità e nella fluidità di continue metamorfosi, nelle quali il Dasein non perviene piú a una autentica presenza, ma solo a immagini momentanee sorgenti e trapassanti senza sosta. In un tale mondo viene meno uno sviluppo vivente, storico, il Dasein ha perduto la sua storicità. Nella continua sempre di nuovo esperita perdita dell’essere, l’esserci non può diventare né futuro né passato» (pp. 286 sgg.).
Per questa forma di perdita del Dasein è riconoscibile la caduta in un mondo ostile sovrapotente, una esteriorizzazione coatta, uno spossessamento del proprio: la coscienza è proiettata al di fuori. Il malato è separato da se stesso, il suo Dasein gli è sottratto e incorporato nel mondo ostile. In questa Gegenwelt è tutto ciò che della sua vita resta irrealizzato, non plasmato, il non vissuto e il fuori della vita, il rimasto-escluso dal suo Dasein. Questa esteriorizzazione si compie come dematerializzazione e svaporizzazione, come materialeggiante corporificazione e come spiritualizzazione svaporizzante (p. 287). L’irrealizzato nella sua vita storica del suo Dasein gli si contrappone dall’esterno della sua Umwelt e della sua Mitwelt4 (ibid.). Sono le proprie interne contraddizioni che hanno distrutto originariamente l’equilibrio del suo sviluppo di vita, impedendo la possibilità dell’unità, di pervenire al proprio centro. Invano ha cercato di enucleare il centro fra Selbstbehauptung e Selbsthingabe (ibid.).
La malata si esperisce sempre di nuovo come morto, immerso nel regno dei morti e degli spiriti e di nuovo ritornante in esso. Essa vive un breve rinnovarsi terreno e un rinnovamento cosmico attraverso l’ingresso in un mondo di luce sopraterreno (pp. 289 sgg.). Questa condizione di esistenza della malata ricorda per parecchi rispetti le metamorfosi dei «misteri», le iniziazioni mistiche, in cui è vissuto un passaggio attraverso la morte, e ricorda anche le descrizioni della condizione post mortem, della condizione intermedia quale è esposta nel tibetano libro dei morti (cfr. commento di Jung)5. Questo vale anche per le iniziazioni dei popoli cosiddetti primitivi, in cui il giovane che sta diventando uomo e deve sacrificare la sua fanciullezza, viene reso partecipe di un rinnovamento (p. 290). Ma mentre nelle iniziazioni si tratta di un evento illuminato dalla sapienza di tradizioni antichissime, un evento attraverso il quale il singolo raggiunge una vita piú larga e piú piena, nella malata le molteplici morti hanno luogo come un destino violento e coatto, il quale annienta sempre di nuovo le nuove nascite terrene e cosmiche. Invece della enucleazione di un se stesso piú atto, la malata invece di riposare in Dio piú e piú si risolve nel nulla (ibid.).
La malata è come un alchimista che non può compiere il solve et coagula: la via verso il «centro» è perduta, ancorché sempre di nuovo cercata. La malata è impegnata in un agone che somiglia al processo di metamorfosi e di rinnovamento dell’alchimia: ma nella malata questo processo si ferma ai gradi intermedi e per cosí dire torna sempre indietro. Come nella situazione intermedia di cui parla il libro tibetano dei morti, nella condizione post mortem o «fra morte e nuova corporificazione», la malata non sa se è viva o morta, se tornare nel vecchio corpo o se assumerne uno nuovo. In questa condizione, nel tibetano libro dei morti, sorge a questo punto un corpo di desiderio, mentalmente plasmato, che quando non raggiunge l’ultimo fine della unione con la luce primordiale, cede il luogo a un ricadere in nuove corporificazioni «nel circolo delle nascite», nel nostro mondo apparente, e all’incontro con paurosi demoni e spiriti che debbono essere riconosciuti come realizzazione di proprie condizioni psichiche. Anche qui il richiamo alla condizione della malata è evidente (p. 291). «Non era forse la malata stessa diventata un tale demone, affamata di esistenza, svolgimento, realizzazione e luce, sempre fuori di sé e sempre affamata di sé, irresolubilmente legata a sé e tuttavia non piú in condizione di venire realmente a sé?» (p. 292). «Fino all’esaurimento mortale ho pugnato per trattenere la vita piú alta nella fede e nella contemplazione» (Hölderlin) (p. 293)6.
1.2. Jaspers, Vissuti deliranti primari. Varie.
Karl Jaspers, Allgemeine Psychopathologie [Psicopatologia generale], Springer Verlag, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1953, 6a ed. (1a ed. 1913; 5a ed. 1946 e 6a ed. 1953 immutate). Primäre Wahnerlebnisse, esperienze deliranti primarie, pp. 82-877.
Jaspers parte dalla osservazione che il delirio in ogni tempo fu considerato il fenomeno fondamentale della follia, per quanto poi non è facile circoscrivere il concetto di delirio. Posto dunque che «der Wahn ist ein Urphanomen» [il delirio è un’esperienza originaria] (p. 74), e che il vissuto nell’ambito del quale ha luogo il delirio è la esperienza e il pensiero della realtà (ibid.), Jaspers analizza le due teorie interpretative del delirio, la prima delle quali – rappresentata da Westphal8 – ritiene che non si debba parlare di una vera e propria esperienza delirante primaria, e che tutte le idee deliranti sono derivate: secondo Westphal il punto di partenza è la coscienza di un mutamento della personalità, da cui derivano secondariamente le idee deliranti: Jaspers però osserva che se questo serve a comprendere sviluppi paranoici e in generale idee deliranti secondarie, non riguarda l’essenziale del vero e proprio delirio. Altrettanto è da dirsi per la derivazione delle idee deliranti dagli affetti, per esempio dalla sfiducia. La seconda teoria interpretativa ritiene che la causa – o la condizione – del delirio è la debolezza dell’intelligenza (Intelligenzschwäche): ma Jaspers osserva che il paranoico non ha una intelligenza peggiore del sano, e il suo potere critico non è annientato, ma soltanto «messo a servizio del delirio» (p. 81). Il che significa che ancora resta da individuare che cosa sia il delirio, e in che cosa si distingua dalla mente sana. In realtà – dice Jaspers – «non già una debolezza dell’intelligenza, ma un caratteristico mutamento nelle funzioni psichiche» è alla base della convinzione delirante. Da ciò la necessità di analizzare fenomenologicamente queste esperienze deliranti primarie.
Affiorano nel malato innanzitutto sensazioni, vissuti, Stimmungen, consapevolezze: «È accaduto qualche cosa, dimmi dunque che cosa», diceva al marito una malata di Sandberg9. E alla domanda di lui, che cosa era accaduto, la ammalata congetturava: «Non lo so, ma c’è tuttavia qualche cosa». Per i malati questo è non familiare (spaesato, Unheimlich), c’è qualcosa che li concerne, qualcosa che essi sentono. Tutto acquista un nuovo significato. Il mondo circostante è diverso, non già nel senso grossolanamente sensibile – le percezioni sono dal lato sensibile immutate –, ma piuttosto sussiste un sottile cangiamento che tutto penetra e che diffonde una colorazione incerta, spaesata.
Una stanza prima indifferente o amichevole è ora dominata da una Stimmung indefinibile. Qualche cosa è nell’aria, il malato non se ne può rendere conto, una tensione riboccante di sospetto, di disagio e di spaesamento lo riempie (Sandberg)... Nella disposizione d’animo delirante vi è sempre qualche cosa che, per quanto in modo oscuro, costituisce il germe della valutazione e della importanza oggettive.
Questa disposizione delirante senza contenuto determinato è assolutamente insopportabile: i malati soffrono terribilmente, e già l’ottenere una rappresentazione determinata costituisce come un sollievo. Sorge nel malato un sentimento di mancanza di sostegno e di insicurezza che lo sospinge in guisa istintiva a cercare un punto saldo, nel quale si possa sostenere e aggrapparsi. Questa integrazione, questo rafforzamento e sollievo egli li trova solo in una idea, proprio come il sano in circostanze analoghe. In tutte le situazioni della vita in cui ci sentiamo colpiti, angosciati e smarriti, l’improvvisa presa di coscienza di un chiaro sapere, sia questo in realtà vero o falso, possiede in sé già una efficacia serenatrice e il sentimento scatenato in noi da quella situazione perde ceteris paribus la sua forza già per il solo fatto che il giudizio su di essa situazione diventa chiaro: come al contrario nessuno sgomento è maggiore di quello che si scatena davanti a un pericolo indeterminato (Hagen)10. Sorgono quindi convinzioni di determinate persecuzioni, crimini mostruosi, accuse, ovvero in una direzione delirante opposta, di età dell’oro, eredità divine, santificazioni e simili (p. 82).
Cerchiamo di rappresentarci il senso psicologico di questo vissuto delirante della realtà in nuovi significati dell’Umwelt: ogni pensiero è pensiero di significati. La nostra percezione non è mai una riproduzione meccanica di stimoli sensibili, ma contemporaneamente percezione di un significato. Una casa c’è per essere abitata dall’uomo, gli uomini per la strada vanno per i loro affari. Se io vedo un coltello vedo immediatamente uno strumento per tagliare, mentre in uno strumento sconosciuto appartenente a una civiltà estranea alla mia io non vedo certo il suo significato ma un materiale foggiato per assumere un significato. Tali significati sono nelle nostre percezioni non esplicitamente coscienti per noi, ma tuttavia presenti. Ora i vissuti deliranti primari sono analoghi a questa visione di significati. La coscienza di significato subisce una radicale trasformazione. Il sapere di significati immediatamente obbligante è il vissuto delirante primario. Se distinguo il materiale sensibile in cui esperisco questo significato, posso parlare di percezioni deliranti, di rappresentazioni, di ricordi, di coscienze deliranti. Non ci sarebbe ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa. di Marcello Massenzio
  4. La fine del mondo
  5. Introduzioni
  6. Preambolo
  7. Ringraziamenti
  8. Ouverture Domani ci sarà un mondo?
  9. Capitolo primo. Mundus
  10. Capitolo secondo. Le apocalissi psicopatologiche
  11. Capitolo terzo. Il dramma dell’apocalisse cristiana
  12. Capitolo quarto. Apocalisse e decolonizzazione
  13. Capitolo quinto. L’apocalisse dell’Occidente
  14. Capitolo sesto. Antropologia e marxismo
  15. Capitolo settimo. Antropologia e filosofia
  16. L’etnologo al lavoro. L’etnologo al lavoro
  17. Appendici
  18. Bibliografia
  19. Indice dei nomi
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Copyright