The Game Unplugged
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The Game Unplugged

  1. 304 pagine
  2. Italian
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The Game Unplugged

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Indice dei contenuti
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Informazioni sul libro

Dopo il grande successo di The Game, in cui Alessandro Baricco ha raccontato l'insurrezione digitale, prende la parola chi nel Game è nato e cresciuto.01_Raffaele Alberto Ventura
02_Francesco Guglieri
03_Pietro Minto
04_Philip Di Salvo
05_Andrea Zanni
06_Marina Pierri
07_Alessandro Lolli
08_Davide Coppo
09_Matteo De Giuli
10_Elisa Cuter
11_Valerio Mattioli
12_Francesca Coin Una pattuglia di giovani sommozzatori si avventura nelle acque profonde del Game, dove le correnti sono forti e cambiano direzione di continuo. Ognuno di loro illumina una porzione di quest'abisso, tracciando rotte sempre diverse che raccontano un universo complesso, in cui sapersi orientare è piú urgente che mai. Dalla retromania alle serie Tv, dall'inflazione del capitale simbolico alla celebrità di massa, dall'intelligenza collettiva ai bot. Tenetevi pronti: è un viaggio mozzafiato.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858431221

_PLAY THE GAME

05_Andrea Zanni

▸ Il web è un moltiplicatore.
Andrea Zanni è nato a Sassuolo nel 1984. Laureato in Matematica, ha scritto per «Esquire» e «il Tascabile», ed è stato presidente di Wikimedia Italia. Fa il bibliotecario digitale a Modena, e da poco anche il papà.
Aaron Swartz una volta disse:
Ci sono due prospettive opposte: quella per cui Internet ha creato un’enorme libertà, tutto è fantastico e lo diverrà sempre di piú; e quella per cui tutto è terribile, e Internet è uno strumento per l’oppressione e il controllo.
Il punto è che sono vere entrambe: Internet è entrambe le cose, è incredibile e tremendo, e dipenderà da noi capire quale prospettiva vincerà.
Non ha senso chiedersi se una stia facendo meglio dell’altra, perché sono entrambe vere. E dipenderà sempre da noi capire quale coltivare e far crescere, perché ci sono entrambe e ci saranno sempre.
Questa frase fu pronunciata da Aaron nella sua ultima intervista, la si può vedere ancora su YouTube. Dopo una vita incandescente in cui contribuí a creare gran parte dei progetti piú aperti e comunitari della rete (Rss, Wikipedia, Internet Archive, Reddit, Creative Commons, Markdown, SecureDrop e decine di altri), Aaron è stato perseguitato dalla giustizia americana. Aveva violato i Terms of service di un sito, e scaricato troppi articoli scientifici: una roba ridicola, ma il Dipartimento di Giustizia aveva voglia di creare un precedente, e colpire un attivista del suo livello sarebbe stato un ottimo deterrente per la comunità hacker.
Prima del processo in cui rischiava fino a 35 anni di carcere, Aaron si è suicidato. Era l’11 gennaio 2013, e lui aveva 26 anni.

Entusiasti vs pessimisti.

Sembra passato un secolo, ma fino a qualche anno fa, quando si parlava della «Rete», lo si faceva in termini entusiastici, abbagliati dalle «magnifiche sorti e progressive» che questo nuovo strumento ci avrebbe spalancato davanti agli occhi, infinite come le praterie americane davanti ai primi pionieri. Una terra dell’abbondanza, «the land of the free and the home of the brave». Non sapevamo, ingenui, che la cavalcata verso Occidente avrebbe lasciato dietro una lunga scia di sangue.
Studiosi ed esperti digitali (giusto per fare qualche nome: Kevin Kelly, Clay Shirky, David Weinberger, Henry Jenkins, Howard Rheingold, Jeff Howe, James Surowiecki) raccontavano di un potenziale enorme che doveva solo essere raccolto; dell’accesso all’informazione finalmente a disposizione delle masse; dello straordinario incontro fra la figura del consumatore e quella del creatore, strana chimera poi chiamata «prosumer».
Una nuova possibilità – mai vista prima per scala e potenza – di leggere, informarsi ma anche scrivere, esprimersi, creare.
Qualche pessimista in realtà già allora castigava questi «tecnoutopisti», denunciando che l’ampliamento della platea di creatori stava, secondo loro, portando a un appiattimento della qualità ( Jaron Lanier, Andrew Keen), quando non a un vero e proprio sfruttamento neoliberista di lavoro intellettuale gratuito o sottopagato (Evgeny Morozov, Bifo).
Purtroppo per tutti, dopo la sbornia dei primi anni Dieci, è indubbio che negli ultimi anni la rete sia riuscita a esprimere una demenza collettiva senza precedenti. Social network come Twitter o Facebook sono diventati luoghi inquinati quotidianamente dalla frustrazione, dal risentimento, quando non dal vero e proprio odio. Le cosiddette fake news (nuovo termine ombrello per cose vecchie quali disinformazione, propaganda politica, truffe pubblicitarie) sono un serio problema, e una generale sfiducia data anche dalla crisi economica e politica globale ha trasformato l’Eden digitale che ci era stato promesso in una valle di lacrime.
Col senno di poi, di cui notoriamente siamo tutti provvisti, è facile vedere come i piú ottimisti fra gli esperti digitali strizzassero troppo l’occhio ai vantaggi economici che la rete stava portando, non rendendosi conto che il confine fra condividere e sfruttare è davvero sottile, e che le corporation e aziende che ascoltavano questi discorsi stavano prendendo diligentemente appunti, per virare l’apertura della rete a proprio vantaggio.
Ora chiamiamo impropriamente «sharing economy» una economia del noleggio e dell’affitto temporaneo che tende a privilegiare chi piú possiede (grandi proprietari immobiliari su Airbnb, per esempio), e chiamiamo «crowdsourcing» quello che spesso è lavoro gratuito da parte di un pubblico ingenuo oppure sottopagato.
Oggi la maggior parte delle persone vive Internet principalmente attraverso WhatsApp, Facebook, Instagram: tutte piattaforme di proprietà di Mark Zuckerberg, che le «regala» ai propri utenti in cambio di dati. Proprio per questo, studiosi come Morozov amano parlare di «feudalesimo digitale»: quello che era nato come pascolo comune è stato lottizzato e privatizzato, e noi ne siamo spesso gli ignari braccianti.
Ma questo non vuol dire che tutto quello che i tecnoutopisti raccontavano fosse falso.
Il vero problema è che le stesse qualità che permettono alla rete di esprimere il meglio di sé sono le stesse che la rendono un posto pericoloso e inospitale.
Il web è un moltiplicatore, moltiplica tutto ciò che ci mettiamo dentro.
Il web è ancora capace di cose meravigliose: solo che ora tendiamo a darle per scontate.
Una di queste è quella che possiamo chiamare «intelligenza collettiva»: quella che quotidianamente fa crescere Wikipedia, Internet Archive, Stack Overflow, le parti piú luminose di piattaforme come Facebook, YouTube, Twitter, Reddit. I progetti open source, come Linux. Quella presente in milioni di forum di appassionati sparsi per il mondo, che si coagulano naturalmente attorno a un hobby, uno sport, un feticcio, un libro, un autore, una corrente musicale sconosciuta, una malattia rara, una band, una sottocultura di cui ancora non abbiamo sentito parlare.
Dove c’è possibilità di dialogare e collaborare, e gente motivata per farlo, lí accade l’intelligenza collettiva. Magari non per tutto il tempo, ma accade sempre, prima o poi.

La potenza delle reti.

La definizione classica di «intelligenza collettiva» dice: date certe condizioni, un insieme di individui è piú intelligente (o abile, o esperto) della somma degli individui.
È il caso di Wikipedia, ad esempio. Ma è anche il caso di quelle persone che, in maniera completamente scoordinata, selezionano o filtrano i migliori video, i migliori meme, le migliori frasi, i migliori prodotti.
Questo tipo di intelligenza è talmente ubiquo che quasi non ce ne accorgiamo piú, ma senza la rete non esisteva il concetto di filtro collaborativo. E questa cosa ha funzionato talmente bene che il nostro problema, oggi, è che questi sistemi vengono costantemente manipolati.
In realtà, il concetto di intelligenza collettiva viene da lontano: entomologi ed etologi studiano da decenni il comportamento di insetti sociali quali api, formiche e termiti, tanto da parlare di «superorganismi» e «swarm intelligence», intelligenza dello sciame.
Questi insetti, anche se molto limitati nelle loro dimensioni, possono compiere azioni complesse e vastamente superiori alle loro possibilità grazie alla loro organizzazione.
L’intelligenza dello sciame è propria dello sciame intero, non dell’individuo: si afferma dunque come «proprietà emergente» di una rete. La rete diventa piú intelligente dei suoi nodi piú intelligenti.
Questo accade anche nell’oggetto piú complesso che conosciamo, cioè il cervello umano.
I neuroni, presi singolarmente, sono piuttosto stupidi: come degli interruttori, ricevono segnali elettrici e chimici, e quando questi segnali superano una certa intensità, il neurone li lascia passare. È l’intera rete di neuroni che, in maniera straordinaria e assolutamente misteriosa, produce… noi. Secondo vari neuroscienziati (come per esempio Douglas Hofstadter, autore del celebre Gödel, Escher, Bach) la coscienza umana non è altro che una «proprietà emergente» della rete neuronale: l’attività a un livello piú basso di una rete di neuroni genera un livello piú alto di coscienza.
In questo senso, quella della rete è una metafora potentissima, tale da poterci far guardare il mondo con occhi nuovi: la vita diventa una proprietà emergente della rete cellulare, la società e la cultura una proprietà emergente della rete umana.
L’interazione tra nodi connessi fra loro (che siano formiche, neuroni, uccelli, persone, computer) genera qualcosa di nuovo, a un livello piú alto. Questa è la potenza delle reti.

Contare le caramelle in un barattolo.

L’intelligenza collettiva è solo un esempio di proprietà emergente, qualcosa che accade solo in alcune reti particolari, e solo seguendo certe regole.
Secondo James Surowiecki, la «saggezza della folla» accade quando sono soddisfatti quattro principî: ogni persona può avere un’opinione differente (diversità di opinione), le opinioni delle persone non devono venire influenzate da quelle altrui (indipendenza), nessuno deve essere in grado di pilotare la folla dall’alto (decentralizzazione), le opinioni devono poter essere aggregate in modo da ottenere un risultato finale (aggregazione).
La tesi di Surowiecki è interessante, e funziona molto bene in alcuni casi specifici, sperimentati piú volte: per esempio, se si deve indovinare il numero di caramelle presenti in un barattolo, la media delle risposte dei partecipanti sarà piú corretta delle risposte degli esperti. È lo stesso principio per cui, in un gioco televisivo come Chi vuol essere milionario? la risposta del pubblico tende a battere le risposte dei singoli esperti chiamati a casa.
C’è un aspetto che è importante considerare: in questi casi, la saggezza della folla funziona perché esiste una risposta al problema, e questa risposta può essere verificata. Il sondaggio globale può portare dunque a una approssimazione molto vicina alla verità, ma solo se questa verità esiste.
Dal punto di vista matematico, infatti, le risposte si dispongono come la classica «curva a campana», per cui facendo la media le opinioni piú estreme tendono ad annullarsi a vicenda, e quindi la media converge verso la risposta giusta.
Ma non tutti i problemi sono cosí semplici.
Sappiamo tutti che la saggezza della folla, molto spesso, non si realizza in politica: non solo le persone si influenzano l’un l’altra e in alcuni casi la propaganda politica può pilotare l’opinione pubblica. Fondamentalmente, non esiste una risposta giusta che può essere verificata in maniera semplice come contare le caramelle in un barattolo. La risposta giusta alla Tav, ai matrimoni gay o al problema della crisi economica non può che essere una risposta politica, che si basa su valori, idee, opinioni. Nel migliore dei casi, una discussione razionale fra parti diverse può portare a un compromesso: su questo si basa la democrazia rappresentativa. Nessuna democrazia diretta può rendere magicamente semplici cose che sono complesse.
Il computer prima, e la rete poi, nascono per aiutarci ad addomesticare la complessità, non per farla sparire.

Potenziare l’intelligenza umana.

Douglas Engelbart è sempre stato un uomo mite, uno di quegli ingegneri pacifici che hanno la faccia perfetta per diventare nonni. Ma essendo nato nel 1925 fu arruolato in Marina mentre studiava Ingegneria, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra. Dati i suoi studi e il suo eccezionale talento, divenne subito tecnico radar nelle Filippine, dove, su una palafitta di legno, lesse per la prima volta un articolo che gli cambiò la vita: As We May Think, di Vannevar Bush.
L’articolo era uscito nel 1945 su «The Atlantic» e descriveva uno strano oggetto, chiamato «memex»: una scrivania con degli schermi e una serie di bottoni che potevano richiamare e visualizzare dei testi archiviati dentro la scrivania. Una sorta di juke-box con microfilm al posto dei dischi, costruito per scienziati e professionisti, che avevano bisogno di leggere articoli accademici per il loro lavoro di ricerca.
L’autore dell’articolo, Vannevar Bush, era stato anche un dirigente del Progetto Manhattan, quello che portò alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Terrorizzato dalla distruzione che la tecnologia stava rendendo possibile, Bush scrisse un articolo in cui profetizzava una collaborazione scientifica per un tempo di pace, dedicata alla soluzione dei grandi problemi del mondo:
Gli uomini di scienza dovrebbero dedicarsi all’importante compito di rendere piú accessibile la nostra enorme mole di conoscenze. Per anni le invenzioni hanno ampliato i poteri fisici dell’uomo piuttosto che i poteri della sua mente. Presse meccaniche che moltiplicano per mille la forza dei pugni, microscopi che rendono il nostro occhio piú acuto e macchine di distruzione sono i nuovi risultati della scienza moderna. Ora disponiamo di strumenti che, se opportunamente sviluppati, daranno all’uomo l’accesso e il controllo del sapere accumulato nel corso dei secoli. Il perfezionamento di questi strumenti pacifici dovrebbe essere il primo obiettivo dei nostri scienziati, quando la guerra sarà finita.
Engelbart – come un’intera generazione di scienziati, ingegneri, innovatori – non dimenticò mai le parole di Bush. Era la generazione che aveva visto il frutto del proprio lavoro vincere la guerra contro il nazismo, ma anche vaporizzare decine di migliaia di persone con una sola bomba. Il vaso di Pandora della scoperta dell’energia atomica non si poteva forse richiudere, ma l’energia delle persone, e l’enorme potenziale della collaborazione delle migliori menti di una nazione, doveva essere pilotato nella giusta direzione.
Il memex non fu mai costruito, ma l’ideale di una «macchina per pensare» era il seme che sarebbe poi fiorito nella nuova età digitale.
La timidezza di Engelbart si può notare tuttora, guardando su YouTube quella che è stata poi chiamata «la Madre di tutte le demo». Il video mostra Engelbart davanti allo schermo di un computer, registrato da una webcam, che con mouse e tastiera mostra ad una platea ammutolita un sistema di videoscrittura, un ipertesto, il copia e incolla.
È difficile per noi, oggi, capire cosa questo sistema potesse voler dire, ma era il 1968. In confronto, la presentazione dell’iPhone nel 2007 è stata una sciocchezzuola. Perché all’epoca i computer non avevano schermi, il mouse non esisteva ancora, e Engelbart mostrava per la prima volta quella che di fatto sarebbe stata l’impostazione dell’interazione uomo-macchina per i successivi cinquant’anni.
Fu una vera rivoluzione, poi copiata esplicitamente anni dopo da due giovani rampanti che si chiamavano Bill Gates e Steve Jobs. Al contrario di loro, Engelbart non aveva come obiettivo principe quello di fare soldi: le sue idee, figlie del memex, erano concentrate tutte in un lungo documento pubblicato nel 1962, dal titolo leggendario: Augmenting Human Intellect. A conceptual framework.
Con «potenziare l’intelligenza umana» noi intendiamo potenziare la capacità dell’uomo di affrontare una situazio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. The Game Unplugged
  4. _TO BIT OR NOT TO BIT
  5. _PLAY THE GAME
  6. _CHANGE THE GAME
  7. Nota. Scritta dopo aver letto. di Alessandro Baricco
  8. Sample
  9. Outro. di Sebastiano Iannizzotto e Valentina Rivetti
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Copyright