La lingua di Trump
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La lingua di Trump

  1. 104 pagine
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La lingua di Trump è un esempio eclatante della comunicazione politica del nostro tempo: volgare, imprecisa, menzognera, violenta. Bérengère Viennot, traduttrice per la carta stampata e l'informazione online, si è trovata davanti un compito inedito dopo l'elezione di Donald Trump. Il presidente americano ha fatto esplodere i codici della comunicazione politica. La sua lingua è volgare e confusa, infarcita di errori sintattici e di frasi che non hanno né capo né coda, di sarcasmi e invettive - segni di un rapporto fuorviante con la realtà e la cultura. Con una penna tanto esilarante quanto incisiva, la Viennot racconta i suoi rompicapo di traduttrice e si interroga sul loro significato. Come si scivola dalla violenza delle parole alla violenza politica? In che modo ciò è un sintomo dello stato della democrazia? Perché siamo tutti quanti piuttosto preoccupati? La lingua di Trump è uno specchio implacabile: del presidente in persona, dell'America di oggi, della nostra epoca.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858432464

Per chiudere con Donald Trump

Molti dei suoi oppositori sognano di sbarazzarsi di Trump con un fervore intenso quanto impotente. L’impeachement, ossia la procedura di incriminazione prevista per estromettere il presidente americano in carica, è una speranza accarezzata da numerosi democratici. A metà mandato, mentre scrivo questo libro, niente lascia ancora intendere che questa procedura trovi una giustificazione. Ma non importa piú di tanto.
Perché alla fine il problema non è Donald Trump. E la sua lingua, il suo modo di parlare o di non parlare, il suo linguaggio piú o meno volgare o colorito, sono solo un albero minuscolo che nasconde una foresta gigantesca, piantata nel giorno in cui i Padri pellegrini del Mayflower sono sbarcati e hanno cominciato la loro opera di distruzione/ricostruzione a suon di genocidi e di feroci proselitismi1.
La responsabilità è collettiva. Se la lingua di Donald Trump rispecchia perfettamente il suo modo di pensare e la sua politica, venata di misoginia, di razzismo, di mancanza assoluta di empatia e di sfrenata ricerca del profitto, significa che è il prodotto del suo tempo e della sua società. L’America, quando guarda al suo presidente, si vede in uno specchio che crede deformante ma che riflette una realtà che ha a lungo voluto occultare e che le sta tornando dritta in faccia.
Il sogno americano è sempre stato solo questo, un sogno. Lo slogan di Trump, «Make America Great Again», specula su un fantasma mai destinato a diventare realtà, e di cui si sono avvalsi altri candidati presidenziali prima di lui. Le piú belle promesse dell’America sono sempre scaturite da aspirazioni molto meno brillanti di quelle che la mitologia storica vuole farci credere. Be’, questo non è appannaggio esclusivo degli Stati Uniti: noi stessi, in Francia, che tessiamo le lodi della repubblica democratica invocando l’intoccabile Rivoluzione francese e altre prodezze napoleoniche, dimentichiamo presto o non vogliamo capire che i grandi progressi storici di cui siamo cosí fieri hanno sempre una parte intrisa di sangue, senza contare che sono stati perlopiú guidati da individui che anteponevano il proprio interesse (economico e politico) a quello della collettività, ma che avevano capito come presentare abilmente le cose per far credere a tutti di trovarci un tornaconto2. Agli Stati Uniti, paese costruito sul sangue degli indiani, degli africani e su quello dei pionieri a cui si prometteva la luna, il successo di una minoranza ha occupato l’immaginario nazionale e celato le miserie di un’intera parte della popolazione. Certo, l’America è stato il paese di chi poteva farsi una posizione dal nulla; lo testimoniano i Rockefeller, i Carnegie e i Bill Gates. Ma è stato anche il paese di chi arrivava con la testa piena di sogni e lo stomaco vuoto, e che non ha trovato oro, petrolio o un’idea geniale. Il paese della feccia bianca, della white trash, degli indiani parcheggiati nelle riserve, degli schiavi e dei loro discendenti, dei neri vittime di segregazione, di linciaggio e al giorno d’oggi di un razzismo che non vuole saperne di scomparire.
Il sogno americano è passato sopra la testa di una quantità incredibile di donne e di uomini, nonostante un’iconografia nazionale infarcita di simboli falsi e distorti. Dai Padri pellegrini venuti a trovare la pace religiosa, ai colonizzatori che hanno attraversato allegramente le grandi distese con i loro carri coperti (un saluto a Laura Ingalls), dai saloon western – dove cantavano graziose ragazze per niente facili – ai soldati americani che, nel giorno della Liberazione, andavano a baciare leggiadre fanciulle francesi. Ma la realtà è ben diversa: i Padri pellegrini, quando non morivano di fame o di malattia, hanno massacrato gli indiani (che hanno cercato di rendergli pan per focaccia, ma sappiamo com’è andata a finire); i colonizzatori – a cui il governo faceva promesse strabilianti per scacciare al piú presto gli indiani dalle loro terre e permettere alle compagnie ferroviarie un’espansione pazzesca – sono crepati a migliaia di fame e di fatica respingendo la frontiera verso il West, quando non venivano scotennati prima; la sanguinosa guerra di Secessione, dopo avere finalmente permesso la liberazione degli schiavi, è ugualmente sfociata nella creazione del Ku Klux Klan e delle leggi segregazioniste; i valorosi soldati americani sono andati a morire in Vietnam senza che ancora si sappia esattamente perché…
È una visione binaria della storia degli Stati Uniti, una versione semplicistica di un periodo ben piú ricco di sfumature, mi direte. Sarà, ma è precisamente la visione proposta dall’America di oggi. «Make America Great Again» è un invito a rituffarsi in un passato che non è mai esistito, a vivere in questo universo manicheo a cui rinvia il discorso binario di Donald Trump e dell’America intera, da una parte come dall’altra.
Davanti a questo ritratto di Dorian Gray, l’America si aggrappa con tutte le sue forze alla benda che l’acceca. Finché gli Stati Uniti rifiuteranno di dare un nome all’origine del loro male, finché non faranno una croce su un passato che adorano e che è diventato intoccabile, non riusciranno a tirarsi fuori dal marasma nel quale si sono impantanati dall’elezione di Donald Trump e di cui il presidente è solo un simbolo.
Perché, dopo di lui, potrà venirne un altro. Il malessere non risiede in un solo uomo. Il male è fatto, e ormai tutto è diventato possibile: Trump non è un incidente della storia americana. Sarà impossibile dimenticarlo quando non sarà piú al potere: lascerà la sua impronta non solo nelle politiche che avrà intrapreso e nei giudici della Corte Suprema che avrà nominato, ma nella società intera, collettivamente responsabile di averlo mandato al potere – quelli che hanno votato per lui in primo luogo, ma anche le generazioni di amministratori locali che lo hanno preceduto e gli hanno preparato il terreno. Proprio come le dittature poggiano su un sistema, gli Stati Uniti hanno collocato il loro quarantacinquesimo presidente sulla montagna del rifiuto (di rendere giustizia), e questo rifiuto passa prima di tutto e soprattutto attraverso la comunicazione, attraverso il discorso, attraverso la lingua.
Perché il problema piú grave dell’America non è Trump. Garante dell’ordine morale, super-io emblematico di un intero paese, il presidente dovrebbe essere un modello ma anche il parametro su cui si misura la moralità di una nazione. Quando il presidente s’indigna dopo un atto di odio, è tutta l’America che si solleva. Ma quando sceglie di tenere il silenzio, o peggio di incoraggiare implicitamente la violenza, istituzionale o privata, significa dare allora il via libera agli squilibrati e ai cittadini i cui istinti piú bassi e piú violenti erano fino a quel momento repressi dalla consapevolezza che i loro atti aggressivi sarebbero stati disapprovati dalla piú alta istanza dello Stato, e dunque dalla società intera. Come afferma Jacques Généreux in L’Autre Société:
Negli umani, il controllo dell’aggressività non è genetico, ma sociale: consiste in riti e abitudini trasmessi dall’educazione. I comportamenti violenti e antisociali manifestano quindi una carenza nell’apprendimento del limite e della legge; possono anche risultare o essere aggravati da una carenza culturale, delle convenzioni e delle istituzioni, che enuncia e legittima i divieti3.
Ora, la violenza della lingua di Trump e di quelli che lo rappresentano può essere considerata una legittimazione dal passaggio all’atto in quegli individui che, prima dell’avvento di Trump, erano al limite di questi comportamenti violenti e antisociali. Persone e comportamenti che sopravvivranno al/ai mandato/i di Trump e lasceranno una traccia durevole in tutti gli strati della società americana, per lungo tempo.
L’impostura semantica fondatrice è proprio la Dichiarazione d’indipendenza americana: «Riteniamo queste verità di per sé evidenti: tutti gli uomini sono creati uguali; sono dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili, come la vita, la libertà e la ricerca della felicità». Certo, l’intento è lodevole e il testo è bello, ma bisogna tenere a mente che fu scritto da un proprietario di schiavi che occupava abusivamente con il suo nuovissimo «popolo» una terra rubata ai primi occupanti. Scrivendo il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza, Jefferson scriveva le prime righe del mito americano, del grande sogno menzognero dietro al quale altri milioni avrebbero corso, e descriveva già una realtà che non corrispondeva in niente a quello che lui o i suoi contemporanei vivevano. La Dichiarazione d’indipendenza è la prima ufficializzazione della realtà alternativa. La sua diffusione è la primissima fake news americana.
Il primo emendamento della Costituzione americana protegge tutta una serie di libertà, in particolare quelle religiosa e di espressione. In America si ha il diritto di dire tutto e di esprimere qualunque opinione. Si possono esibire svastiche, augurare la morte a qualcuno ad alta voce, è consentito perfino scriverlo. L’incitazione all’odio razziale non è un reato. Il revisionismo non è un tema scottante come in Francia, dove non è si è autorizzati a mettere in discussione la verità storica. In America, questa verità non appartiene a nessuno. Di conseguenza ognuno ha la propria, e tutti possono raccontare quello che vogliono sull’origine del loro mondo e sulla loro realtà. E il presidente degli Stati Uniti, come gli altri, ha il diritto di dire qualsiasi cosa e di affermare che è la verità. Nessuna barriera/protezione semantico-costituzionale glielo impedisce. Allora perché non affermare che il riscaldamento climatico non esiste, che il carbone è un’energia pulita o che non si sono mai viste folle cosí dense come ai suoi comizi? Non è molto piú insensato di affermare che Adamo ed Eva sguazzavano con i dinosauri ed elevarla a verità storica, insegnata in numerosi istituti scolastici4. Se si risale alla genesi stessa della storia della politica americana, si constata che il via libera è stato istituito dai Padri fondatori, attualmente oggetto di culto nazionale.
Esiste tuttavia una sorta di censura nel linguaggio in America, una sola, straordinariamente pregnante e integrata da tutti gli strati sociali. È forse anche l’elemento piú consensuale della società americana. In realtà, se in America si è liberi di dire o di scrivere che gli ebrei non meritano di vivere, che i neri sono inferiori o che i messicani sono stupratori, esiste un campo semantico escluso dal discorso nazionale. Quello che non si ha il diritto di nominare, in America, è un retaggio di quell’epoca puritana dei primi giorni della nazione americana, è il Male con la maiuscola, quello da cui bisogna proteggere tutta la società: il sesso.
L’America ha un problema tale con il sesso (chiedere a Woody Allen) che ci vorrebbe un libro intero per parlarne, cosa che non farò perché è ormai ora di concludere questo. Ma, in breve, l’epoca fondatrice americana in cui le attività sessuali dovevano essere assolutamente controllate, dalle autorità religiose poi dallo Stato, l’epoca in cui il sesso, per una donna, era ridotto alla funzione procreatrice, mentre per gli uomini era una pratica autorizzata ma da non ostentare, perché serbava traccia del peccato, quell’epoca ha fatto nascere una società in cui, nonostante la rivoluzione sessuale e l’assunzione progressiva, ma mai scontata, del controllo del proprio corpo da parte delle donne, il marchio del male è rimasto impresso a fuoco su tutte le attività sessuali che non s’inscrivono strettamente nell’ambito coniugale e procreativo5.
Ma cosa c’entra? vi chiederete. Ancora un po’ di pazienza, ci sono quasi. In America, nel 2019, tutte le forme di violenza e di guerra sono mostrabili dai media: cinema, televisione, Internet. Non importa chi può comprarsi armi abbastanza facilmente. In compenso, quello che non è permesso, è dire una parola a connotazione sessuale, tipo fuck o vagina, in televisione. Per una forma di protezione. Un po’ come nella Bibbia, che eleva la violenza a valore e il sesso a orrore.
Per scrivere questo libro, ho guardato per ore i video di Donald Trump, naturalmente, ma anche la televisione americana – reportage, telegiornali. Durante le mie ricerche sulla reazione di Trump a Charlottesville, mi sono imbattuta in un reportage sulla Cnn. E ho visto con sorpresa la macchina che aveva investito la folla e ucciso Heather Heyer. Ho visto i corpi scaraventati per aria, e il veicolo ripartire nel senso opposto in mezzo alla folla urlante e insanguinata6.
Che questa dimostrazione di violenza sia artistica, informativa, utile, e quanto altro, è solo un esempio tra milioni di quello che mostrano quotidianamente – e senza edulcorare – i media americani. In compenso, nessuno lascerà andare in onda una parolaccia a connotazione sessuale (piccolo promemoria: fuck, in fondo, vuol giusto dire «scopare»). Quelle parole sono sostituite da un pudico «biiiip» che dovrebbe proteggere le orecchie piú sensibili. Può sembrare un cliché mettere in parallelo la visualizzazione della violenza e la negazione della sessualità? A volte le verità piú semplici si nascondono proprio nei fatti evidenti. Reprimere le pulsioni sessuali e lasciare campo libero a quelle aggressive, che tipo di comportamento può innescare una cosa del genere a livello della società intera?
Senza reinventare la ruota di Freud, si può affermare che una società che nega nel modo piú assoluto l’importanza e, quindi, la banalità della sessualità nell’equilibrio umano è condannata a spaccarsi il muso da un lato o dall’altro. Dal versante di quelli che la «puritanizzano» e che rifiutano di concepirla se non sotto una costrizione morale (pubblicamente in ogni caso), conservatori il piú delle volte contrari all’aborto, o di quelli che la sessualizzano a oltranza (artisti e opere ipersessualizzate, per esempio), reazione trasgressiva ai divieti per come li vivono gli adolescenti.
La lingua di Trump, questa nuova lingua dell’America, non è frutto di una genesi spontanea nella bocca di un miliardario spuntato dal nulla. Non è riducibile alle elucubrazioni di un uomo che si preferirebbe credere completamente pazzo, per non essere obbligati ad ascoltare quello che dice. Bisogna ascoltare Donald Trump, perché non è tanto stupido: con la forza del suo ego, e nonostante la sua crassa ignoranza, è riuscito ad assurgere alla carica piú potente della storia dell’umanità moderna.
Bisogna ascoltare Donald Trump perché, per bocca sua, parla l’America piú violenta, piú spregevole, ma anche, ormai, la piú potente. Bisogna ascoltarlo perché, in Occidente, il regno della ragione ha fatto il suo tempo. Le grandi decisioni di buona volontà successive alla catastrofe costitutiva del XX secolo, le alleanze tra le grandi nazioni per scongiurare che riprenda il sopravvento quanto c’è di piú turpe nell’animo umano, gli accordi tra gli intellettuali di buona volontà nell’intento di soddisfare il maggior numero di persone e di fare avanzare l’umanità, a pezzi e a bocconi, verso il meglio, tutto questo appartiene al passato. E perché un paese governato da un uomo il cui super-io sembra risultare «non pervenuto», ma che viene acclarato ogni volta che apre bocca, può solo ispirare i suoi elementi piú violenti a sentirsi autorizzati a lasciare libero corso ai loro istinti piú bassi.
Bisogna ascoltare Donald Trump, nonostante sia forte la tentazione di cedere a una superiorità morale e intellettuale, reale o auspicata, che induce a rifiutare di stare al suo gioco e di prenderlo sul serio.
L’intellighenzia democratica americana l’ha già pagata molto cara l’8 novembre 2016, dopo avere placidamente ridacchiato davanti alla candidatura di questa star da reality show che si credeva un futuro pezzo grosso di Washington.
E poi bisogna ascoltare Donald Trump perché è contagioso: in Brasile, in Ungheria, in Turchia, in Italia, in Austria e altrove, la violenza delle parole e degli atti s’intensifica. In questi paesi, che si considerano al sicuro grazie alle lezioni della Storia, sono sempre di piú i cittadini che tendono l’orecchio verso l’America e ascoltano, loro, la lingua di Trump.
1. Perché sí, simbolicamente...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La lingua di Trump
  4. Smaltire la sbornia
  5. Osare tradurre Trump
  6. L’intervista che uccide
  7. La portata della sberla
  8. E che cazzo
  9. La verità se mento
  10. Melania
  11. Cip cip
  12. Distopia
  13. Il punto Godwin
  14. I nemici del popolo
  15. Leggo dei pezzi
  16. Una cima?
  17. La bufala cinese
  18. Io, divertente e cattivo
  19. E Dio in tutto questo
  20. Quello che lui non dice
  21. Per chiudere con Donald Trump
  22. Ringraziament
  23. Il libro
  24. L’autrice
  25. Copyright