Procedi piano. Lascia che la mano
esegua il fragile dettato.
Abbi fede in quel niente
che viene – quel niente che succede.
Non prendere la parola.
Lascia sia lei da sola. Diventa tu
la preda. Sia lei che ti cattura.
Questo giorno che ho perso
e che non ha fruttato
se non una mestizia, il puntiglio
del suo modesto mucchio
di faccende.
Questo giorno che ho perso
ed ero nell’esilio
dentro panni che non erano miei
e scarpe che mi disagiavano
e tasche che non riconoscevo
e correvo correvo puntuale
senza neanche un dono
per nessuno. Solo un vuoto, corto
respirare. A conferma che nel disamore
il fare anche se fai resta non fatto.
Spingo nella frana i miei pensieri
poi guardo il cielo. Corvi insolenti
stanno sul davanzale.
Piove. È giorno di mercato.
La parola Amore mi gira intorno.
Vuole sempre venire
in ogni riga. La tengo buona,
indietro. Come avvolta in un panno
di lana. Non puoi uscire, le dico.
Cara parola. Non puoi uscire oggi.
Ci vuole una mano spadaccina
per quel tuo carico ingombrante
e invece oggi noi siamo
nel calmo della nuvola turchina
siamo stupidi un poco, un poco
stanchi. Tu resta nella nicchia,
parola, per quel giorno quando
risuonerai – di nuovo nuova.
Nei passi – la notte.
Leggera paura salta di là
trabocca
in ebbra contentezza.
Essere soli al mondo – la notte,
avendo in cuore
tante di quelle umane facce
e musi e piante. Avendo.
Per questa terra una riconoscente
spinta dentro i passi che la pestano piano.
Terra, io ti cammino
e tu travestita da città
ficchi dentro me un lieto cane
randagio che va, senza pensiero
e tutto allora poggia
la sua orma strana dentro il petto.
E si sta bene la notte
in camminata lesta
per strade addormentate
e piazze con nessuno – se non
il rivelato cielo che viene
tocca il selciato
come bacio dato appena.
Terra e cielo insieme. Nel poema.
A te che manchi da questa stanza
e il tuo mancare è già gran cosa
che ingravida il mio vuoto nell’attesa
e piú soave è la tua mancanza
di qualunque presenza nella stanza
già il pensiero di te si fa sostanza
luminosa che ride.
Si cade a volte
in un lutto senza cadavere.
Aiuole di sillabe stanno
in arido suolo, plotone vinto e
disperso, un’accensione di tutto
il dolore mondiale
assale senza ragione il magma
fra gola e petto. E cadiamo
nelle antiche tristezze
degli abbandonati,
dei reclusi in fondo alle galere
di rematori incatenati.
Allora è un popolo
che siamo e un’intera perduta guerra
grava le sue nere ali
sul nostro capo.
Per tutti tornare a casa.
Essere eroi dentro il proprio sangue
allora per tutti rimanere
trovare la sponda delle voci.
Stanotte – il piccolo animale
restando all’erta nel petto
ha indietreggiato il sonno
per tutte quante le ore.
Non è nemico il sonno
gli dicevo. Fallo entrare.
Ma no. Non s’accucciava.
Come sfinire – questo m’insegnava.
Ma io già lo sapevo. Poi – alba –
stizzito sole.
Stavano tutte stese le mie ore
erano poche. Le guardavo
dal lato che non muore
sentivo peso e colore – festa e
patimento. Costato trapassato e
magnifico salto mortale
decapitato ogni bisogno e sogno
un addio dolce dentro tutte le cose.
Espormi a tutte le correnti
cadere nell’ebbrezza
degli slegati.
Dimenticare il patto, le parole
il nome tuo – vorrei.
Ma l’adesione a te
in forma d’una ottemperata forza che salda e cuce.
La violenza antichissima che osa
gravare dentro me la tua sostanza –
nell’alleanza
d’un sangue che non ragiona
e s’imprigiona in te, con te,
fino a qualunque rovina
o cima altissima
o baratro d’anni che s’avvicina.
Non posso. Non posso piú
essere la randagia
che vacilla in soglia, ma solo
regina di te e tu sovrano –
un po’ piangiamo e un po’ no
abbracciati ancora custodiamo
il nostro porto sepolto e intero l’uragano.
Questo corpo in pezzi di accetta
separato. Questo legno ossificato.
Stavo fra le lenzuola come un seme
interrato. Nell’abbandono dolce
della febbre. Stavo nel suo far niente
di grave febbre – come una patata
messa sottoterra
docile e scancellata
in quell’urgentissimo
far niente – esser niente. Fodero bianco
delle debolezze quando la testa
non regge il proprio peso e si scompare
fuori da ogni fretta – nel suo contrario
di fretta che ci assilla e si sta bene allora
nelle sacre lentezze sotto le lenzuola.
È sporca d’un disordine
lo guarda, lo riconosce
quell’essere nello storto delle ore.
Lontana dal nitore
e dalle potenze. Ancora
ripetente in uno stare male
adolescente in quel disagio
d’essere qui e non avere dove.
Vergogna e pena
di ritrovarsi ancora dove un tempo
era acerba, da poco scesa
nella pista. Pochi maestri
e maestre allora. Ma ora.
Sente il vasto scoramento
di chi l’ha imboccata. Non hai imparato
ancora. Bocciata. Bocciata.
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