Oltre alla rabbia di Mosè, oltre alla nostalgia di quel che s’è perduto per sempre perché non s’è mai avuto, le tavole spezzate hanno tanto altro da raccontare.
La ripetizione non è mai uguale a se stessa perché il passaggio, che sia di mano in mano o nel tempo, implica necessariamente un cambiamento, una ancorché minima mutazione. Piú o meno come succede nella trasmissione dei geni, nell’ereditarietà biologica: il progresso della specie è fatto di mutazioni casuali. L’immagine stessa della tradizione evoca questa possibilità. Anzi, sono le parole stesse a dirlo. Nel «lanciare» un patrimonio di parole al proprio allievo, alla nuova generazione, al futuro, il momento sospeso fra il dare e il ricevere è quello in cui tutto resta per un attimo fuori controllo. «Non c’è generazione senza novità», dice esplicitamente il Talmud.
Dove si innesta la novità? Dov’è che trova spazio la parola nuova?
Bisogna ancora una volta accantonare il principio di non contraddizione.
La Torah, quella che non è schiantata al suolo con fragore di pietra – le tavole non contenevano né contengono, come lascia pensare l’immaginario collettivo, soltanto i Dieci comandamenti bensí tutto il testo dei primi cinque libri della Bibbia – cioè il Pentateuco, cioè la Torah intera (fatto salvo per l’ultimo capitolo che narra la morte di Mosè e secondo la tradizione è stato apposto dopo da Giosuè) – quella Torah, insomma, è perfetta.
Perché è perfetta?
Ovvio, perché l’ha dettata Dio. È opera sua: Mosè si limita a trascrivere, i figli d’Israele a trasmettere. La tradizione racconta che, sceso dalla montagna, Mosè affidò a ciascun capo delle dodici tribú d’Israele una copia esatta del testo, che da allora in poi si tramanda tal quale, di generazione in generazione.
La parola del cielo non può che essere perfetta. Conchiusa in se stessa. Immodificabile.
La perfezione trova in ebraico una radice di significato che è ampia, anzi inclusiva: shalem. Completezza. Finitezza. Pace. Shalom.
La Torah è per definizione shelemah. Come potrebbe essere altrimenti?
Nella sua perfezione, la Torah è palesemente imperfetta. Manchevole. Difettosa.
Che la perfezione e il suo contrario possano convivere dentro il testo dettato da Dio a Mosè e che da quel momento in poi diventa santo – anche se il concetto di santità richiede un profondo aggiustamento, in questo contesto – è ancora una volta frutto dell’operato divino. Il quale non rientra qui nella sfera del numinoso, non fa sfoggio di prodigi ed eventi soprannaturali, ma è ben piú sottile, sapiente.
La Torah è perfetta e immutabile. Cosí esige la tradizione. Nel copiarne il testo, nel preparare un rotolo ad uso di lettura sinagogale, lo scriba deve essere attentissimo a non cambiare nulla, a trascrivere tutto esattamente come è, dov’è. Il minimo errore, il piú discreto refuso rendono carta – o pergamena – straccia il testo. Che, beninteso, non si può buttare, perché tutto ciò che contiene il nome del Signore non deve andare distrutto, piuttosto «messo da parte», immagazzinato, sepolto come se fosse stato anima viva. La forza della tradizione sta anche nel custodire il testo sacro nella sua integrità, nella sua perfezione. Nel lasciarlo sempre intatto.
Fisicamente.
Non toccarlo.
Durante la lettura sinagogale, infatti, la riga del testo si segue usando una manina di metallo, non quella di carne e sangue: il segnalibro stabilisce una distanza fra l’uomo e il testo, ne sancisce l’intoccabilità, perché ha in sé una misura di santità. Non dissimile da quella della montagna su cui Mosè si arrampica, togliendosi i calzari per tenere il contatto con la terra e non finire vittima della fatale scossa di energia che significherebbe il contatto diretto, senza mediazione, fra terra e cielo. Fra santo e profano.
La Legge è talmente perfetta che non si deve, non si può toccare.
Però non è perfetta. Contiene degli errori, dei refusi, delle palesi corruttele lessicali, morfologiche, sintattiche. Se la consideriamo un testo umano, prodotto dall’uomo, tutto questo rientra nella perfetta normalità di un testo e della sua storia: la filologia, la critica testuale lavora proprio là dove il testo non torna, dove c’è qualcosa che non funziona. Solo grazie alla sua imperfezione si può ricostruire, o provare a ricostruire la storia della sua trasmissione. Cosí funziona la filologia.
Ma la Torah è anche, soprattutto, un testo santo, scritto da Dio e non dall’uomo. In questa prospettiva, come spiegare e prima ancora come considerare gli errori che il testo inequivocabilmente contiene? Come comportarsi con le tantissime ambiguità di senso che offre, anche in virtú della lingua in cui è scritto – solo le consonanti?
La tradizione nasce e s’inventa per questo. Innanzitutto puntando il testo, escogitando un sistema di vocalizzazione che serve per spazzare via una quantità di sensi obliqui e incerti che contiene, visto che è solo consonantico. La masorah e i masoreti provvedono in epoca altomedievale a costruire un sistema di vocali per il testo ebraico scritto. Che non tocca letteralmente la Bibbia, perché si innesta negli spazi bianchi sopra, sotto e dentro le consonanti.
Il sistema vocalico inventato dai masoreti è davvero prodigioso. Rimuove parecchie ambiguità del testo, ne fissa i suoni e persino la melodia. Ma ancor piú prodigioso è l’accorgimento che questa filologia – nel vero senso della parola, sí, di amore per il logos, per la parola – escogita per intervenire là dove il testo biblico è palesemente corrotto – pur essendo perfetto: il qere ketiv. Una specie di dinamica, di congiunzione fra parole che rispetta l’intoccabilità del dettato divino.
Là dove il testo proprio non torna, infatti, la tradizione masoretica indica la lezione corretta a margine, nello spazio bianco della pagina. Non interviene nel testo, ma avverte: qere ketiv. Anzi, l’ordine è opposto: ketiv – qere, letteralmente «Sta scritto – leggi!» Il testo è lasciato intatto, perché è perfetto. Il margine è lo spazio per il cambiamento, l’intervento che su qualunque altro testo al mondo sarebbe stato necessario, e l’avrebbe modificato.
È cosí che perfezione e imperfezione del testo convivono. Lasciando intatta l’intoccabile parola divina, facendo dello spazio bianco il luogo del cambiamento.
Questo è il modo.
Ma il perché?
Come mai Dio ha dato a Mosè e ai figli d’Israele un testo perfetto che però è imperfetto? Un testo che contiene refusi, parole incomprensibili, forme scorrette, qua e là?
Il primo, forse, a porsi il problema del perché e non del come è Baruch Spinoza, nel suo Trattato teologico-politico. Dio ha reso imperfetta la Torah, a misura dell’umana imperfezione. La Torah è perfetta per l’uomo perché è imperfetta. Le aporie del testo sono la chiave d’accesso al significato, lo spiraglio che apre la porta all’interpretazione. Dio ha voluto che l’uomo «entrasse» nel testo della Bibbia, e per questo l’ha reso fallibile.
Come la luce che entra solo là dove c’è una crepa. E c’è una crepa in ogni cosa, canta Leonard Cohen. Cosí del resto funziona la creazione secondo la mistica ebraica: con la rottura dei «vasi» che contengono la luce divina. Quella rottura fa spazio al mondo, e l’opera dell’uomo – se è giusto – sta nel provare a riparare il mondo (tiqqun olam) cercando le scintille di luce divina sparpagliate per il creato, riportandole nella loro sede. Il mondo nasce cosí da una rottura, una crepa nel tutto che era Dio. O da una contrazione di un Dio onnipresente che per creare l’altro da sé, il mondo, deve ritirarsi, fare spazio, rinunciare a qualcosa di sé. Il mondo, dunque, è l’irruzione dell’imperfezione dentro la perfezione, il tutto che è Dio.
Dentro il testo, fra le parole, l’imperfezione è il luogo dell’incontro, dell’ascolto, la fessura attraverso la quale, quasi paradossalmente, il testo si fa comprensibile, si avvicina al suo lettore. Si apre all’interpretazione. L’imperfezione è necessaria affinché il testo perfetto scenda a misura dell’umano.
Gli errori, i refusi, le incongruenze sono dunque necessari.
E cosí le ripetizioni.
La creazione dell’uomo è narrata due volte.
E due volte è narrata la rivelazione. Prima e dopo le tavole spezzate. Ma non solo.
Due volte sono esposti i comandamenti.
Perché?
Per lasciare lo spazio all’interpretazione. Per innescare una lettura sinottica grazie alla quale, nell’accostamento, nella giustapposizione delle due versioni, emerge dal testo qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto «chiuso dentro», inaccessibile.
La rivelazione della Legge è all’insegna della doppiezza. Come se il testo non volesse dare nulla per scontato e attraverso la ripetizione – degli eventi, delle parole – lasciasse intendere che tutto può andare e venire e ritornare. Mai uguale a prima, proprio come l’avvicendarsi delle tavole: prima si leggevano su due lati e le aveva scritte Dio di suo pugno, poi sono «come» le prime. Cioè per definizione simili, ma non identiche.
Nella Bibbia ebraica le tavole non hanno un nome specifico. O meglio, le tavole come oggetto ce l’hanno, sí – luchot, si chiamano, e sono le «tavole del patto». Ma il contenuto testuale non è considerato un corpo a sé stante della rivelazione, fa parte del patrimonio di leggi, norme e regole che occupa gran parte della Torah, del Pentateuco. Una lingua che, seppur scarna ed essenziale, ha una ricchissima sfera semantica per tutto ciò che riguarda il normativo, non trova una parola per dire i comandamenti. Almeno per quel che riguarda l’ebraico biblico, dove vengono chiamati semplicemente devarim.
Cose.
Parole.
«Queste sono le cose/parole».
«E scrisse sulle tavole le cose del patto, dieci cose» (Esodo 34, 28).
«E scrisse sulle tavole, come la prima scritta, le dieci cose che il Signore disse a voi sul monte, dal fuoco, nel giorno dell’adunanza e il Signore le diede a me» (Deuteronomio 10, 4).
Queste sono le uniche ricorrenze in cui nella Bibbia la Legge parla di sé, o meglio in cui i comandamenti vengono chiamati tali, con la precisazione che si tratta di «dieci cose/parole».
Devarim è il plurale maschile di un nome comune che significa tanto «cosa» quanto «parola». Tutto rientra in una radice semantica che è fra le piú usate dell’ebraico, e che con questa ambivalenza apre le porte a una quantità di incroci, suggestioni.
Nell’ebraico post-biblico, che peraltro non presenta differenze di sostanza, i comandamenti assumono una desinenza plurale femminile: dibrot. La struttura stessa della lingua ebraica è aperta all’innovazione, all’innesto di una nuova forma dentro una radice di significato che già esiste. C’è molta mobilità, insomma. Si può creare un neologismo, che però risulta comprensibile perché la sua ossatura sta in una sequenza primaria fatta di tre consonanti immediatamente riconoscibile all’occhio e all’orecchio. E cosí, basta una desinenza di genere diverso per dare ai comandamenti una definizione piú precisa, inequivocabile: dibrot sono da quel momento, cioè dal momento in cui viene coniata questa «declinazione» della radice, i comandamenti e basta. Non possono essere altro.
Nella tradizione ebraica non esiste una scala di valori, per la Legge. Tutto conta come tutto. Prima ancora, non c’è alcuna mortificazione o svalutazione della fisicità rispetto a ciò che è astratto: corpo e spirito dell’uomo contano nella stessa misura. Le regole alimentari non sono un vezzo, in rapporto ai grandi imperativi morali. La vita è un dono in tutto quel che è, va rispettata in tutto quel che è. L’uomo è materia di terra e soffio di Dio.
Allo stesso modo, i Dieci comandamenti non sono una legge suprema che sovrasta tutte le altre, cioè il vasto, articolato e caotico corpus delle norme presenti nella Torah e commentate all’infinito dalla tradizione. Non hanno uno status diverso da tutti gli altri «fai!» e «non fare!» di cui la Bibbia è costellata. I loro imperativi non valgono piú degli altri.
Pertanto, la prima domanda che destano è: come mai sono a parte? Che cosa li distingue dal resto della Legge?
La prima differenza, ciò che li rende quello che sono, è il fatto di ricorrere in due punti del testo biblico. In una forma quasi uguale. Ma non identica. Proprio come succede con le due tavole che sono quattro: le seconde sono «come» l...