È da quando è arrivato a Troia che sa – in certi momenti, almeno – di non poter tornare a casa. Non per lui i saluti festosi, gli abbracci, i banchetti. Non per lui il lungo, tedioso domani: generare figli insulsi da una moglie noiosa, passare ore e ore ad ascoltare le lamentele dei coloni, a comporre liti di nessuna importanza, finché con gli anni non sopraggiungono debolezza, vecchiaia, fragilità, morte. Morire in una stanza comoda con il fuoco acceso, circondato da figli e nipoti. E poi, per qualche anno ancora, il suo nome sulle labbra di tutti: di quelli che lo conoscevano da sempre, di quelli che hanno combattuto con lui a Troia. Ma la memoria umana non dura a lungo: tre generazioni nel migliore dei casi, seguite dal lento, innumere procedere dei secoli. Erba che cresce sul suo tumulo funerario, gente che lo supera alla guida di carri dalle forme inimmaginabili, e che soffermandosi un attimo domanda: «Cos’è quello, secondo te? Sembra opera dell’uomo».
No, niente di tutto questo per lui. E non gli importa, davvero; al contrario, è persino piú facile rassegnarsi all’imminenza del momento (che sia all’alba o al crepuscolo o nel calore abbagliante del mezzogiorno) in cui una spada o una lancia lo abbatteranno: morirà come ha vissuto, in un bagliore senza ombre. Ma la sua storia non avrà mai fine, perché è cosí, è quello il patto, la promessa degli ingannevoli dèi: la gloria eterna in cambio di una morte precoce sotto le mura di Troia.
Conosce tutti gli stati d’animo di questo mare, o almeno fino a due settimane fa era sicuro di conoscerli, ma da qualche tempo i suoi moti sono cosí bizzarri da lasciarlo interdetto. Le onde si gonfiano e si gonfiano sotto il cielo imbronciato, senza mai rompersi in schiuma: solo un lungo, continuo, minaccioso dilatarsi. Ha sentito la collera del dio nella pelle sempre piú tesa, giorni e giorni prima che le frecce della pestilenza cominciassero a colpire.
Mentre infuriava la peste il mare è rimasto calmo, ma ora le acque reclamano nuovo terreno. Ogni onda che viene a sbavare la spiaggia si lascia dietro un ventaglio di schiuma sudicia che ribolle un istante prima di affondare nella sabbia; l’onda successiva arriva piú in alto, e la successiva piú in alto ancora. L’acqua raggiunge punti della spiaggia che erano asciutti da anni, solleva spessi tappeti di alghe e porta ben oltre la battigia le conchiglie rotte e le candide ossa dei gabbiani.
La notte che hanno portato via Briseide, una delle navi all’ancora ha rotto gli ormeggi. Patroclo è venuto a svegliarlo e sono corsi insieme alla spiaggia a gridare ordini, a organizzare squadre di uomini perché la tirassero verso un punto al sicuro dalle correnti. All’alba lo scafo poggiava inclinato sulla sabbia, e i pallidi cirripedi incrostati sul fasciame lo facevano somigliare a un antico, bitorzoluto mostro marino. Da allora la marea non è piú arrivata cosí in alto; nondimeno, è stato un segno premonitore. Dopo quella notte hanno controllato gli ormeggi di tutte le navi all’ancora, e tirato ancora piú in secco quelle che poggiano sulle invasature.
Si sente minuscolo di fronte all’immensità del mare e del cielo. Alle sue spalle si innalzano le dune, coperte di erbe ondeggianti che gettano ombre nere e puntute sulla spiaggia pallida. Ma ecco alzarsi una bruma, come spesso accade a quest’ora. Pochi istanti e l’ha già avvolto, e non c’è piú bisogno di vedere nulla, può solo ascoltare lo schianto dei frangenti, sentire sulla pelle le onde piú piccole che scivolano tra le dita dei piedi. Da bambino, dormiva con sua madre in una camera affacciata sul mare. Rimasto solo, si svegliava nel buio e fingeva che le onde fossero la voce di lei, che lo blandiva per ricondurlo al sonno.
La memoria fa strani scherzi. In uno dei suoi ricordi piú vividi è affacciato alla finestra della camera da letto e guarda sua madre entrare in acqua, i lunghi capelli neri che si aprono a ventaglio sulla superficie come fili d’erba, prima di essere inghiottiti dall’onda successiva. Eppure lui sa di non aver mai visto una cosa del genere: è impossibile, perché dalla stanza in cui dormiva da bambino il mare non si vedeva. Ma non c’è sogno a occhi aperti che possa alterare il ricordo di quella stanza solitaria, del dolore per l’assenza di lei. Suo padre le aveva provate tutte: allettarlo con il cibo; comprargli giocattoli costosi; ogni sera, prima di andare a dormire, gli offriva il conforto di un abbraccio solo per vederlo scostarsi, o peggio ancora, giacere rigido e inerte tra le sue braccia come già aveva fatto la madre. Sacerdoti, divinatori, le donne della famiglia, le balie: tutti furono consultati e nessuno sapeva cosa fare. I figli della nobiltà, cooptati per essere suoi «amici», capirono all’istante, come spesso fanno i bambini, che lui non era «a posto», e dopo qualche svogliato tentativo lo esclusero dai loro giochi. Lui smise di crescere. Poi un giorno, quando ormai era un moscerino pallido dai capelli argentei, cosí magro da potergli contare le costole, era arrivato Patroclo. Patroclo che aveva ucciso un compagno di due anni piú grande per una partita a dadi finita in rissa.
Il giorno in cui Patroclo arrivò, Achille sentí trambusto nel palazzo e, sperando che la madre fosse tornata per una delle sue rare visite, corse nell’atrio, ma si arrestò di colpo quando vide il padre parlare con uno sconosciuto. Accanto ai due adulti c’era un ragazzone sgraziato con la faccia piena di lividi e il naso rotto: lesioni non recenti, perché i lividi erano gialli al centro e violacei ai bordi. Un altro «amico»?
Patroclo sbirciò oltre Peleo, e fu quello il loro primo sguardo. Ciò che Achille provò non era il consueto imbarazzo di quando gli presentavano l’ennesimo coetaneo, ma qualcosa di molto piú inquietante: un brivido, lungo e freddo, di agnizione. Solo che aveva sofferto troppo e troppo spesso per fare amicizia con facilità, e cosí quando l’altro, incoraggiato dal padre, gli tese la mano, lui si strinse nelle spalle e si voltò.
Appena si venne a sapere che Patroclo aveva ucciso qualcuno, che aveva fatto davvero ciò che li stavano addestrando a fare, i ragazzi si misero in coda per sfidarlo. Diventò il campione da sconfiggere. E cosí era sempre costretto a combattere, come un orso alla catena che non può sottrarsi alla sua sorte ma deve lottare e lottare, che passa le notti a guaire e leccarsi le ferite e i giorni ad affrontare i cani. Quando Achille trovò finalmente il coraggio di avvicinarlo, Patroclo era quasi pronto a diventare il delinquentello violento che tutti credevano fosse.
Come hanno fatto a diventare amici? Non ricorda; non ricorda quasi nulla dei due anni successivi alla partenza di sua madre. Sa che lottavano, giocavano, litigavano, ridevano, mettevano trappole per i conigli, raccoglievano more; che tornavano a casa con le bocche macchiate di viola, si studiavano l’un l’altro le croste sulle ginocchia, crollavano a letto e dormivano, nudi e asessuati come due fagioli in un baccello. Patroclo gli ha salvato la vita, molto tempo prima che mettessero piede in un campo di battaglia. Ma del resto Achille faceva la stessa cosa per lui, combatteva al suo fianco quando gli altri ragazzi lo aggredivano, finché questi ultimi non riconobbero nel figlio di Peleo il loro capo naturale. Quando Achille compí diciassette anni, lui e Patroclo erano piú che pronti per la guerra; erano pronti a sfidare il mondo intero.
Compagni d’armi: lodevolmente virili.
La verità? Patroclo aveva preso il posto di sua madre.
In questo momento sarà nel padiglione, lo starà aspettando. Chissà perché, Patroclo ha sempre detestato queste sue visite notturne al mare. Forse teme che un giorno anche lui possa andarsene e non tornare piú, come ha fatto sua madre quando l’aria le è diventata troppo densa, irrespirabile.
Che si preoccupi o meno, dovrà aspettare. Achille non se la sente ancora di tornare, di affrontare il letto vuoto. Che non per forza dovrebbe essere tale: lo sa il cielo che le ragazze non gli mancano. Il problema è che lui non vuole le altre ragazze, vuole quella; e non può averla. Perciò macina e rimacina il dolore della perdita come se volesse levigarlo, renderlo simile ai ciottoli su cui poggia i piedi, cosí lisci e rotondi. Il fatto è che sente la sua mancanza. Non dovrebbe, ma è cosí. Perché? Perché una notte è entrata nel suo letto con l’odore putrido del mare nei capelli? Perché la sua pelle sa di sale? Se fosse solo questo, potrebbe imporre che siano buttate in mare tutte quante: tornerebbero con l’odore del sale sulla pelle.
Lei è il suo premio, ecco, il suo premio d’onore: niente di piú e niente di meno. Non c’entra affatto con la ragazza in sé. E il dolore che sente è solo l’umiliazione di vedersi rubato il premio – sí, rubato – da un uomo che gli è inferiore in qualunque cosa conti. Città assediate e saccheggiate, guerrieri uccisi, e l’eterno, inarrestabile orrore della battaglia... Eppure se l’è presa, punto e basta. È questo che fa male: non la ragazza ma l’affronto, l’offesa al suo orgoglio. Pazienza, è cosí che stanno le cose. Intanto lui se n’è chiamato fuori. Che ci provino, a prendere Troia senza di lui: tra poco si accorgeranno di non farcela e verranno strisciando a chiedergli aiuto. Cerca di spremere una goccia di piacere da questo pensiero, ma non funziona. Forse avrebbe dovuto dar retta all’istinto e tornarsene a casa? Patroclo era favorevole, e per quanto gli costi ammetterlo, Patroclo ha quasi sempre ragione.
Non ci sono risposte, almeno lí su quella spiaggia ammantata di bruma. Stanotte sua madre non verrà. E quindi si avvolge stretto nel mantello e si incammina verso il padiglione, dove sa che Patroclo lo sta aspettando.
Mentre cammina tra le invasature che sorreggono le navi, la sua mente si riempie di piccoli doveri, elenchi di cose da fare. Se la prossima mareggiata sarà forte come l’ultima, forse sarebbe il caso di spostare piú a monte le baracche dove tengono i viveri. Le hanno costruite otto o nove anni fa, dopo quel primo, terribile inverno sotto le tende. Il legno ormai si è ingrigito per la lunga esposizione al vento e alla pioggia, e di certo nell’impiantito ci sono molte tavole marce. Un programma di ricostruzione, forse? Dare agli uomini qualcosa da fare, e al tempo stesso dimostrare il proprio impegno nel condurre a termine un progetto, quale che sia. «Sí, tienili occupati», pensa: di nuovo pratico, con i piedi per terra, di nuovo un combattente senza smancerie, senza zone grigie; e intanto scivola come un’ombra lungo i fianchi delle sue navi spettrali.
Quella notte, però, piansi anch’io.
Cosa mi fece di cosí terribile? Niente, direi; niente che non mi aspettassi. Ma poi, quando credevo che fosse finita, che fossi libera di andarmene una buona volta, lui mi afferrò il mento tra pollice e indice e avvicinò la mia faccia alla sua. Per un folle momento pensai che volesse baciarmi; invece mi infilò un dito tra i denti per aprirmi le mascelle, radunò un bel grumo di saliva (con calma, senza fretta) e me lo sputò nella bocca aperta.
– Ecco fatto, – disse. – Adesso puoi andare.
Annaspando al buio in un recinto che non conoscevo, trovai infine le baracche delle donne. Intanto mi accanivo follemente a pulirmi l’interno della bocca con la tunica, e questo mi procurò dei conati di vomito cosí forti che rigettai sulla sabbia. Mi stavo ancora pulendo quando una porta si aprí e Ritsa fece capolino nello spiraglio. Caddi tra le sue braccia, e per un lungo intervallo di tempo non riuscii a parlare. Lei mi cullò, mormorò parole di conforto – come si fa con i bambini che hanno avuto un incubo – mentre altre donne, che si erano radunate intorno a noi, mi accarezzavano la schiena. Non potevo raccontare niente ma forse non ce n’era bisogno, forse sapevano già, o quanto meno indovinavano. Quasi tutte dovevano aver dormito con Agamennone almeno una volta, prima che la sua ossessione per Criseide le liberasse da quell’obbligo. Ritsa fu premurosa, ma nonostante le parole di conforto ci misi molto a calmarmi a sufficienza per poter dormire.
Mi svegliai all’alba e rimasi pietrificata a fissare la semioscurità. Ero ancora convinta che appena Agamennone si fosse stancato di me (e non ci sarebbe voluto chissà quanto: mi aveva già detto che non ero all’altezza di Criseide) mi avrebbe ceduta ai suoi uomini. Ne parlai con Ritsa, e lei rispose: «No, non può fare di te una femmina pubblica: sei il premio di Achille!» Io scossi la testa senza dire niente. L’avrebbe fatto precisamente per quel motivo: l’offesa finale a colui che aveva osato sfidare la sua autorità. Mi aspettava qualche notte di fantasiose umiliazioni, poi sarei finita a trascinarmi sotto le baracche in cerca di un posto per dormire.
Non accadde niente del genere: dopo la prima notte non mi volle piú. O meglio, non mi volle per lungo tempo. Ciò nonostante toccava sempre a me, ogni sera, versare il vino ai suoi ospiti. Perché, vi domanderete, pretendeva che fossi io a farlo quando era ovvio che non sopportava la mia vista? Perché gli ero utile, immagino; servivo a uno scopo particolare. Gli uomini scolpiscono le facce delle donne; vi incidono messaggi destinati ad altri uomini. Nel recinto ...