Con passi giapponesi
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Con passi giapponesi

  1. 160 pagine
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Con passi giapponesi

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In queste pagine, troppo a lungo rimaste inedite per distrazione editoriale dell'autrice, è scritta la storia morale parallela, a rovescio, che ha accompagnato per decenni l'opera di uno dei maggiori poeti contemporanei. Non propriamente narrativa né saggistica, o le due cose insieme, la genialità analitica e visionaria, percettiva e sintattica che qui sorprende il lettore non ha precedenti nella letteratura italiana del Novecento, se non forse nella prosa di Roberto Longhi, Elsa Morante, Goffredo Parise. Si tratta comunque piú di parziali affinità che di derivazione: perché in ogni suo capitolo, ognuno a modo suo e con stile diverso, in frammenti autobiografici, parabole aneddotiche, ritratti e microfilosofie dell'amore, dell'invidia o dell'estasi sensoriale, Con passi giapponesi ubbidisce a un solo comandamento: «Devo capire». Se la poesia, come ha detto qualcuno, è la sola scienza possibile di quanto nella vita non si dà altra scienza, queste prose di poeta rivelano capacità figurative, speculative e satiriche che nei libri di versi erano comparse solo occasionalmente e soprattutto in poemetti memorabili come La Guardiana, Aria pubblica, La patria, La maestà barbarica. Fin dal primo testo che dà il titolo al volume, chi legge si trova a contemplare un mondo comico-tragico, labirintico fino alla vertigine, in cui entrano in scena passioni senza esito e disperati, coattivi manierismi sociali in cui la vita si dissangua fingendo se stessa.
Alfonso Berardinelli

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858431153

Varietà

Salendo verso San Michele mi ero tenuta, con il mio passo lento, dietro gli altri che erano scomparsi alla curva. Alzai quasi per caso gli occhi e, all’ultimo piano di una delle alte case che mi stavano di fronte, una doppia fila di biancheria, una biancheria piccola, era stesa ad asciugare: un isolotto al vento, mosso violentemente e rigonfiato dall’aria. La piccolezza degli indumenti messi ad asciugare lo rendeva un isolotto allegro, come fatto di palloncini che si gonfiano e si sgonfiano. Questa improvvisa allegria mi fece fermare a festeggiarla e nella sosta guardai i muri di quelle case, alcuni appena dipinti, altri scrostati e rossi o gialli. Grandi cespi di erba muraiola crescevano alla base corrosa e umida e in questa corrosione sentii l’estate e l’infanzia: il vento fresco che attraversava le ombre delle stanze e il sole enorme degli esterni.
Continuai a salire e raggiunta una piazzetta vidi la scritta: «Abbazia di San Michele». Mi avvicinai al cancello e strattonandolo mi accorsi che era chiuso. Oltre al cancello c’era un piccolo cortile in disuso, sebbene ai lati vi fossero delle abitazioni, e di fronte una chiesa dalla porta semiaperta dalla quale si intravedevano rovine. La prima cosa che mi fece restare lí, fissa a guardare, con la faccia appoggiata alle sbarre del cancello, fu il colore della facciata. Era di un intonaco un tempo rossastro, che il vento e la pioggia avevano slavato a lunette: restavano unghie di rosso, onde di rosso, in un chiaroscuro costante e con una profondità simile a quella dei campi appena arati quando sono toccati dall’ultima luce di una giornata tersa – la materia allora vuole ancora esporsi alla luce e in questa tensione si proietta in fuori tanto da rendere tutto il resto volatile, creando cosí un effetto di pieno-vuoto che per eccesso di desiderio si smaterializza. Cosí era la facciata di questa chiesa. Lentamente il mio sguardo si posava su un oggetto alla volta nel cortile. Alla mia destra c’era una cuccia da cane, era di cemento istoriato e sopra, come una gualdrappa, vi era stesa una coperta rosata con motivi a cintamani. L’erba intorno ai gradini della chiesa era cosí rigogliosa che li aveva quasi nascosti. Qualche strano attrezzo era sparso qua e là su un pavimento di mattonelle in cemento impresso, simili a quelle che c’erano nell’ingresso della casa di mia nonna. Solo dopo dieci minuti mi accorsi che proprio alla mia sinistra, a mezzo metro, c’era un cane addormentato, e pensai che il mio silenzio doveva essere davvero assoluto per non averlo svegliato. Pensai persino che fosse morto, ma osservandolo bene vidi che un lieve movimento gli sollevava le costole.
Non riuscivo a togliermi da quel cancello e quasi le mie gambe si scioglievano insieme alle mie lacrime: un abbandono inerme mi aveva presa e mi chiesi cosa fosse questa beatitudine, questo voler restare là per sempre, non sentire piú il mio corpo come un’entità divisa, ma piuttosto come una materia molle che tendeva a mischiarsi alle cose. Che cos’era la suprema bellezza di quei muri scrostati, di quella tenda povera che usciva lenta e gonfia da una porta mentre a pochi passi da me alcune donne parlavano in un dialetto sconosciuto e un suono piú lontano, forse di radio, portava insieme a sé un profumo di peperoni e di carne? Forse era questo: la materia si era arresa al proprio semplice esistere e si mostrava, vessata dal tempo, nella grazia e verità suprema del proprio essere inerme, senza progetto o cura, senza artificio. Aveva dovuto subire una volontà e poi l’aveva elusa, aveva ceduto eccome dopo una lotta, mostrava i segni dello sforzo precedente insieme alla sua attuale docilità. Quella superficie dei suoni, dei colori, delle forme, quella mescolanza senza intenti e relazioni, questo essere nel tempo in quel tempo eppure arreso al tempo, tutto questo era la manifestazione divina della felicità, che però già portava in sé il dover andarsene, il non averla piú, il non essere piú esposti all’innocenza delle cose, facendosene attraversare miti e passivi.
Com’è semplice la verità! E quanto semplicemente si rivela! E io che credevo di essere intelligente, consapevole e coraggiosa, per tutti questi anni, per quasi tutta la mia vita, ho vissuto all’ombra di un malinteso, anzi di un conformismo, la cui elementare evidenza, ora che mi si svela, mi fa quasi arrossire di vergogna, ma anche mi apre un’inattesa, seppure tardiva, inesplorata letizia.
E pensare che stavo per cadere nell’abiezione estrema, vale a dire che ero sul punto di rivolgermi a un analista, rimettermi cioè alla noia illusa, all’interpretazione clandestina, a quel procedere mortale verso la falsa libertà del paziente analizzato, a quella opaca rinascita grazie alla quale ci si consegna ben fatti, ben messi, ben chiari, ben sistemati alla morte. Aver avuto questa tentazione vuol proprio dire che non sapevo piú cosa fare.
La verità, improvvisa e chiara, mi si è mostrata in un giorno di mal di testa. E sebbene io non creda alla virtú della malattia e del dolore, devo però riconoscere che c’è in loro una segreta utilità. Non sempre però. Quel giorno il mal di testa aveva cosí svuotato i miei nervi e la mia volontà che il mio corpo e i miei pensieri erano diventati un opaco nulla, dove mi era impossibile non solo immaginare una qualche guarigione, ma persino desiderarla. E cosí, ripetendomi le litanie dell’inedia e della fiacchezza, una sola parte del mio corpo era protervamente accesa, una solitaria appunto e distante dal resto, quasi un automatismo primordiale e cieco. Era il mio sesso, la fisica e solitaria pulsione del mio sesso. Che in quel deserto assoluto si facesse ancora sentire, mi procurava non consolazione, ma una stizza oltraggiata. Ma da lí, proprio da lí, venne la mia salvezza. E che fosse la mia salvezza fu proprio il mal di testa a decretarlo: questo infatti sparí, sparí insieme alla comparsa del seguente pensiero. Io desideravo in realtà fare l’amore con gli uomini, mentre per tutta la vita l’avevo fatto solo con donne, credendo che questa fosse la mia sola e definitiva ambizione, e realtà e scelta. Dunque io mi ero tenuta lontana dalla sola cosa che mi piacesse davvero e l’avevo fatto per viltà. E che cosa una siffatta viltà possa produrre e inventare, questa è la sostanza della mia vita stessa.
Io che non ho mai conosciuto l’amore con un uomo, ma sempre ho sentito parlare di disastri e di potere, ora con te, donna assoluta, principio e coscienza delle donne, maestra della differenza sessuale, principessa di seminari sull’oppressione e la miseria delle donne, ora io conosco ogni oppressione, cosí nuova e nello stesso tempo cosí convenzionale che debbo per forza ricondurla a quell’unica esperienza a me sconosciuta, il rapporto con un uomo. Ora io di questo so tutto. Conosco il potere della famiglia e del lavoro, io relegata a incidente del cuore, scomodo e antiproduttivo, io escursione nei lussi della poesia e dell’irregolare, escursione con biglietto di ritorno. Conosco, grazie a te, i sistemi dell’inaccessibilità, le cento muraglie degli orari intoccabili, dei doveri famigliari, dei controlli plurimi del parentato che si moltiplica. E ti permetti persino la tristezza. Una tristezza addomesticata, endemica, un sapore in piú da riconoscere nelle soste ai semafori.
In tutti i luoghi dove io non sono, abitati dal furto, vertiginosi e irraggiungibili, dove non potrò mai entrare perché sono le stanze dell’altra dimora, la casa di campagna, la casa del mare, l’altra casa, il segno di tutti gli esilî, i magazzini di mobili invisibili, dove c’è quello che non può esserci, le stagioni, gli umori, i baci, i pensieri dell’altra metà, che si è staccata da noi in un momento immemorabile, che ripete il suo distacco ogni giorno e ogni notte in tutti i sogni e nelle gelosie, nella memoria e nel desiderio, che è presente solo nell’assenza, della quale il presente visibile è l’allusione, lo strazio della vedovanza, in tutti questi luoghi mi sono trasferita per esserne ogni giorno ricacciata.
I noccioli sono cosí pieni di foglie che da lontano sembrano siepi allineate. Tra una fila e l’altra la terra è rossa e socchiudendo gli occhi il rosso diventa piú intenso e il pendio della collina si trasforma in una parete a picco. Il cielo è totalmente coperto e nella densità delle nuvole il rumore degli aerei si sparge e si allarga come una macchia, come se le nuvole stesse trattenessero il suono costruendo una cupola di echi e di rimbombi, cosí che il rumore invece di dileguarsi resta fermo occupando tutto lo spazio. Solo con il cielo coperto è possibile l’intimità e la concentrazione. Non c’è fuga. Ecco il tetto della grande casa dove tutto ritorna. Ecco la pace del limite. Gli occhi non sono piú distratti e atterriti dall’invisibile, dalla mancanza di misura. Non c’è piú il risucchio verso l’alto, le porte aperte alle spalle. Qualche volta le nuvole si abbassano ancora di piú e la stanza diventa un delirio di dolcezze. Si capisce benissimo perché ai tempi di Aristotele si credeva che il cielo fosse una grande sfera chiusa. È piú naturale, piú rassicurante. Gli uomini spendono sempre piú energie a chiudersi, l’astratta e terribile cognizione dell’infinito li spinge a rafforzare i limiti. E infatti si rimpiccoliscono. Il nostro corpo non è fatto per sopportare le grandi distanze. Non si riesce piú a sostare in nessun luogo. L’immaginazione ne soffre. Per riuscire a immaginare e andare molto lontano è necessario stare fermi e protetti. L’apparente attuale possibilità di sapere tutto subito e di poter andare ovunque in poco tempo produce solo ansia. Si è continuamente esposti a ogni genere di notizie e per sopravvivere si sviluppa l’indifferenza. In contrapposizione a questa fuga (la fuga delle galassie) nascono i buchi neri. La maggior parte degli umani si sta trasformando in buchi neri. Tutto viene inghiottito e trasformato in un punto pesante e cieco che non rimanda la luce, impenetrabile e inavvicinabile: buchi neri in movimento che assorbono musica, parole e amore nel congelamento perpetuo della massa.
Non sono nata per essere ragionevole. Sono nata per amare, per essere felice, per odiare, per immaginare, per inventare, per capire e anche, di tanto in tanto, per essere ragionevole, ma non devo essere ragionevole. Essere ragionevole vuol dire adattare i propri pensieri a quel che gli è contrario; modificare e distorcere la propria intelligenza per assecondare i desideri altrui. La mia ragionevolezza è diversa da quella di un altro. La ragione pretende la felicità. La ragionevolezza tende al possibile. La felicità non può essere catturata dal possibile. La felicità è l’avvento del miracolo. Il miracolo produce la virtú e la grazia, non viceversa.
Come quando troppo velocemente un vuoto rilassato si riempie e si tende per un’improvvisa immissione di liquido o di aria – come un palloncino che venga d’un tratto gonfiato e le cui pareti, rimaste troppo a lungo inerti e dunque quasi attaccate l’una all’altra, non vogliano subito staccarsi da quel sonno o languore ma, obbligate a farlo dalla forza dell’aria, restano almeno qua e là, dove possono, impenetrabili, creando una strana sequenza di vuoti e di pieni, finché la violenza della nuova pressione le distende del tutto facendole solitarie pareti compresse di una camera dove circola un agitato vuoto –, cosí il cortisone riempie le mie vene e penetrando in quei recessi inattivi del cervello li costringe a farsi recipienti di una qualche energia dimenticata che irrompe regolare, frammentaria e inattesa. E cosí si attiva crudelmente una forma del sentire mentale: sento le cavità della mente.
Sei pulcini sotto le ali di due chiocce, un settimo morente abbandonato e beccato di passaggio.
Le due chiocce in un angolo attaccate l’una all’altra, e sotto queste morbidezze serrate se ne stavano nascosti i pulcini. Erano tutte e due madri, ma di una maternità generica senza distinzione per le proprie uova originarie. Si dividevano i pulcini come capitava, dipendeva dalla posizione o dal capriccio dei pulcini che avevano cosí, a scelta, quattro ripari. E mentre questi due accovacciamenti rigonfi nascondevano le sei meraviglie senza che nulla rivelasse, come nel gioco dei due pugni chiusi, né la presenza né il numero dei pulcini, il contadino aveva raccolto il settimo fratellino agonizzante e lo aveva poggiato lí in terra davanti alla torre calda e piumosa. Ma gli ingressi erano chiusi e le chiocce non si curavano di questo pigolio inutile che era come una goccia d’acqua che scivola sopra un grande telone incerato. Il pulcino morente buttato su un fianco con le sue zampette che si stiravano e contraevano quasi volessero cercare un appoggio, con quell’aluccia storta che lo sbilanciava immobilizzandolo, il pigolio incessante e disperato con cui voleva dimostrare di essere ancora in vita, le improvvise scrollate di testa che negli animali sono solitamente indubitabili segni di vita: sembrava l’offerta dovuta al grande tempio della salute e della sopravvivenza.
Dopo qualche minuto il piccolo punto giallo, ormai con le zampette all’aria leggermente allungate, se ne stava lí ricevendo di tanto in tanto una beccata dalla curiosità predatoria di qualche galletto o gallina di passaggio, mentre la coppietta permalosa delle chiocce si allontanava seguita dalla scia saltellante e incerta dei pulcini che con straordinaria regolarità alternavano al tempo del riposo perfettamente immobile quello dell’impazzita e cieca ricerca di cibo durante la quale questi esserini, la cui piccolezza e fragilità faceva continuamente temere pericoli mortali, ingoiavano vermi piú lunghi di loro che poi andavano a digerire nel calore moltiplicato delle piume.
Uno dei sei, essendosi attardato nei dintorni durante il grande rientro, era rimasto fuori, le ali si erano richiuse e l’ingresso, quasi fosse un passaggio segreto, era mimetizzato e nascosto nella compattezza impenetrabile di quelle cupole. Allora lui, ricordandosi del buio e del nascondiglio, cominciò ad annaspare dentro qualunque ciuffo di piume fosse alla sua portata fino ad arrampicarsi sul dorso di una delle chiocce e scambiare la grande cascata piumosa del collo per il vero originario rifugio, e nell’errore continuava a scivolare e ad arrampicarsi di nuovo riuscendo tutt’al piú a nascondere il capo o un pezzetto del corpo: sarà stato terribile il suo smarrimento, lui che ricordava vastità accoglienti, mentre ora la coperta si era rimpiccolita e sfuggiva da ogni lato. Ma alla fine in una delle sue cadute riuscí per caso a penetrare la fessura che si era forse dischiusa tra l’ala e il corpo della chioccia e fu inghiottito dalla dolcezza e dall’oscurità.
Il gallo regolatore morale del pollaio, padrone casto, e i galletti traditori e vigliacchi.
La funzione del gallo padrone è astratta, e di natura estetica: mangia poco e fa poco all’amore, ma passa il suo tempo a mostrarsi come l’esempio supremo della bellezza e del potere; si muove con gravità e lentezza, salvo nei momenti delle corse punitrici addosso all’arroganza dei galletti che giovandosi di una sua assenza o distrazione cercano di approfittare delle povere galline, che però si mettono a strillare e a fare la spia fedeli al loro signore.
Il grande gallo canta poco, non spreca il fiato come invece fanno i suoi subalterni. Il suo canto è preceduto da una preparazione laboriosissima, come se provasse interiormente l’intonazione prima di trovare la nota giusta, quella che lo farà distinguere dagli altri. Infine, assumendo una posizione sontuosa, ma non priva di una certa contrastante effemminatezza, con una zampa lievemente rialzata, da purosangue, o da elegantone, quasi senza peso, canta in una tonalità decisa e senza esagerazione, dimostrando che ciò che è è, senz’altro da aggiungere.
Ora per me è impossibile fare viaggi. Posso soltanto fare gite brevi in luoghi conosciuti, nelle vicinanze, destinate a una cena per poi tornare a casa. Che non vi siano sorprese, tentazioni. Ma se anche in luoghi conosciuti, lo sguardo in movimento, in compagnia di amici, di altri sguardi, vede una casa che non aveva visto prima, fioriture alle quali si trova ora un nome, il muro di un castello diroccato, il fieno raccolto cambiato nella forma: cosí, senza volerlo, si è in viaggio. Ma quando si è in viaggio si è in viaggio, non ci si ferma su quello che si vede, si parla di altri luoghi, simili o diversi, e si percorre il mondo tra memoria e progetti.
Per i miei amici, erano due, fu questo la breve gita al lago. Poiché è impossibile, o quasi, stare nella cosa che si vede, il lago che appariva e quella riva erano per loro l’immagine sospesa e provvisoria, smaniosa d’altri laghi e d’altre rive, ossia la grazia della visione (come in amore, dove il viso amato non contiene nient’altro che la propria apparenza, e tuttavia il suo essere è cosí immenso che racchiude in sé ogni possibile volto fermo nel miracolo del presente). Fuori da altre immagini, da memorie e da giudizi, si può soltanto guardare quel che si sta guardando, e quel lago è quel lago e gli alberi sono quegli alberi, miracolati dal tempo finalmente presente (ma il tempo assolutamente presente è la benedizione della sua assenza): oppure quel che si vede nel viaggio deve sottostare, per poter raggiungere la pienezza del suo apparire, a un rituale comparativo della memoria e del desiderio, nel quale vengono evocati, o per eccesso o per difetto, tutti gli altri luoghi simili, migliori o peggiori che siano. Quasi che per guadagnare il proprio presente si dovesse pagare un tributo al passato e al futuro, e renderlo cosí neutrale, nominandolo perché non si inserisca con muta nostalgia nell’attualità dei sensi. Tale era, o cosí credo che fosse, la condizione nella quale si trovavano i miei amici, perché dopo aver nominato tanti altri laghi e laghetti, vicini o lontani, dopo aver fatto progetti di veri viaggi incantandosi sulle bellezze viste e sulle delizie future, si ridussero al silenzio e fermi sulla terrazza panoramica guardavano il vero lago, che stava di fronte, con le sponde lontane e gli uccelli che volavano sopra i tetti. E anche io per qualche minuto fui in quel miracolo del guardare, senza pensieri e paragoni, e se per un attimo scivolai nella memoria, fu la memoria non di un altro luogo, ma di un modo della vista simile al presente e nel quale, come fosse la prima volta, vedevo i tetti cosparsi di luce gialla, un denso mielato torrente che si spargeva sopra i tetti digradanti, ritrovando cosí l’infanzia dei miei sensi.
Ma per vie diverse da quelle percorse dai miei amici ero giunta a questa stessa immobilità. Difatti, se già al primo apparire della campagna verdissima io avevo ritratto la mia attenzione dalla novità degli alberi perché ero come una che, intossicata da un eccesso di cibo, non può, nella convalescenza, esporsi a gusti o p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Con passi giapponesi
  4. Con passi giapponesi
  5. La casa
  6. La colonna di porfido
  7. Il ladro di lenzuola
  8. Ricordi di infanzia e di adolescenza
  9. Scarpe da ballo
  10. Opera incerta
  11. La strada nuova
  12. Mal di testa
  13. Gattare
  14. Arrivederci anzi addio
  15. Fare bagagli
  16. Immobilità e disordine: le due metafore della morte
  17. I soldi
  18. Ferma in piedi aspettando
  19. Varietà
  20. Nota
  21. Il libro
  22. L’autrice
  23. Della stessa autrice
  24. Copyright