Stato contro Nolan
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Stato contro Nolan

(Un posto tranquillo)

  1. 104 pagine
  2. Italian
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Stato contro Nolan

(Un posto tranquillo)

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Ogni testo teatrale di Stefano Massini cambia modelli e schemi, e nessuno è mai una copia del precedente. Quasi sempre le fonti di ispirazione stanno fuori dalla storia del teatro e guardano ad altre forme espressive letterarie o cinematografiche. Anche per Stato contro Nolan, piú che a precedenti teatrali, viene da pensare a uno specifico genere cinematografico, quello del film processuale, praticato anche da grandissimi maestri come Hitchcock e Wilder (e forse non è un caso che del nuovo lavoro di Massini siano già stati venduti i diritti cinematografici a un'importante casa di produzione internazionale). Ogni testo è diverso, ma tutti sono attraversati da una fortissima vena etico-politica. E certamente il processo a Herbert Nolan, direttore del giornale di una piccola città di provincia nell'America degli anni Sessanta, è qualcosa che ci tocca direttamente, piú attuale che mai. Nolan è accusato di aver manipolato l'informazione per scopi privati: l'uccisione di un vagabondo scambiato per un rapinatore o stupratore era stata montata in modo da creare una paura diffusa in tutta la contea, cosí che gli abitanti si armassero per difendere le loro case. La locale azienda di armi aveva moltiplicato i profitti, e Nolan, che ne era un importante azionista, si era arricchito. Ma al di là del conflitto di interessi, alla base di tutto il testo stanno i meccanismi della costruzione di un clima di paura nella collettività. Il dibattimento diventa un processo alle parole, al loro valore e al loro potere, alla generazione di fake news, che non è molto diversa dalla costruzione dei miti.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858431931
Argomento
Literature
Categoria
Drama

1.

La piccola aula di un tribunale di provincia, agli inizi degli anni ’60.
Al centro, fra due porte, il banco rialzato del giudice. Sui lati, i banchi contrapposti dell’accusa e della difesa.
GIUDICE RUTHERFORD
Non è mia abitudine rivolgermi alla giuria prima di dare la parola alle parti. Questa volta lo farò, data la natura del tutto inconsueta del processo. In tanti anni ho visto in quest’aula molte cause, alcune – vi garantisco – fra le piú sorprendenti. Ma erano casi tragici di singoli esseri umani. Rare volte mi è successo di percepire fino dall’inizio qualcosa di piú, qualcosa che andava oltre il caso di una colpa e di un responsabile. Perché c’è la vittima, c’è il carnefice, ma soprattutto ci sono tutti gli altri, in nome dei quali si emette il verdetto. E di tutti questi altri, molto spesso nei tribunali ci scordiamo, abbagliati dalla voglia matta di risarcire il sangue. Il punto è: cosa serve agli altri? Capire. Attraverso i nostri verdetti, chi sta fuori di qui – gli altri – cerca di capire: cosa è il giusto, cosa è l’errore, la via fra i due: capire. Vedete, il mio pensiero è che intorno a noi accadono innumerevoli fatti, eppure non tutto ciò che accade è degno di essere raccontato. Anzi: la gran parte di ciò che avviene agli uomini è destinato a svanire con la memoria di chi l’ha vissuto, perdendosi senza che io e voi ne abbiamo alcun danno. Ciò è senz’altro un bene: la preziosità dei ricordi sta nel fatto che sono una minima percentuale di luce rispetto all’immane massa di ciò che lasciamo al buio, perché irrilevante. Sapere cosa ricordare è tutto. Scegliere i ricordi, non subirli. Cosí vale per la storia di ciascuno, esattamente come per la storia di tutti: solo di tanto in tanto accade qualcosa che incide davvero sull’umanità intera, e non sempre è ciò che fa rumore. Ci sono piccole crepe che annunciano i crolli, ci sono scintille ben prima dell’incendio. Cogliere i segni – di nuovo: capire – è il compito piú alto di una nazione civile. E dunque. Ciò che valuterete in quest’aula ha piú che mai un valore superiore al piccolo caso che trattiamo. Avrà un peso. E lo avrà comunque, sia che decidiate per l’innocenza sia che emettiate una condanna. Ugualmente. Pertanto vi prego di riflettere, signori della giuria. Riflettete senza cedere all’istinto o alla fretta, fate resistenza alle facili conclusioni. Se ho deciso di parlarvi è perché oggi piú che mai in quest’aula il pregiudizio è in agguato: non cedetegli, non arrendetevi, imponete al vostro senso critico di attenervi ai fatti e di elaborare un vostro autonomo giudizio su di essi. Vi troverete davanti a un caso insolito, che nasce da un fatto di sangue, eppure non riguarda chi ha ucciso e il perché l’ha fatto. Nossignori: questa, anzi, è a tutti gli effetti una causa commerciale. Non vedrete alla sbarra nessun omicida da punire con l’ergastolo, non ci sono moventi torbidi o alibi da sfatare. Ripeto: giudicherete formalmente una questione commerciale. Eppure? Eppure mille volte piú delicato è il tema del nostro dibattere. Possiamo cominciare. La pubblica accusa è sostenuta dal procuratore Eleanor Elisabeth Miles, a lei la parola per esporre l’accusa.
ELEANOR MILES
Signori della giuria. Sono infiniti i casi che un tribunale può sottoporre al vostro giudizio. Infiniti. Come d’altronde infiniti sono gli intrecci che legano e separano gli esseri umani, i loro cosiddetti sentimenti, che talvolta – privi di controllo – sconfinano nel reato. Ogni reato in fondo cos’è? Solo il frutto estremo di un sentimento distorto, eccessivo. Odiare è umano. Invidiare è umano. Ma chi, per odio o per invidia, perde lucidità e senso morale viene per questo perseguito: noi giudichiamo nei tribunali niente altro che la patologia dei sentimenti. Ebbene, signori, se cosí è, allora quale sentimento è oggetto di questo processo? Risponderò: la paura. La patologia della paura. Ma prima di tutto, eccovi i fatti. È il 12 luglio dell’anno 1956. Siamo nella contea di Leister. «UN POSTO TRANQUILLO» sta scritto su un cartello, sulla Statale 40, al confine con l’altra contea. È un distretto agricolo, molto esteso, ci abitano migliaia di persone ma di fabbriche ce n’è una sola: l’hanno aperta da un anno, poco piú, costruita giusto accanto all’unica stazione ferroviaria. Per il resto, sono solo campi. Le case? Fattorie. Tutte uguali, tutte graziose. I fiori ai davanzali, archi di legno all’ingresso dei recinti sulla strada, con su scritto «FATTORIA BOWLES: BENVENUTI», «FATTORIA EVERSON: BENVENUTI», «FATTORIA KALMER… ROBICHAUX… BENVENUTI, BENVENUTI, BENVENUTI…» Già: benvenuti. Ma esattamente benvenuto a chi? Solo a chi già conosci. Perché nella contea di Leister non si vede mai nessuno che non sia di queste parti. Non c’è niente da vedere, nessun monumento, nessuna attrazione che faccia scrivere su una guida «deviate dalla Statale 40 e addentratevi tra le fattorie di Leister, ne varrà la pena». No. Nessuno lo scrive, nessuno lo dice, forse per la semplice ragione che nessuno lo pensa. Ci sono solo contadini a Leister. Per giunta contadini piuttosto taciturni: l’unica sala da ballo che c’era fallí dopo sei mesi. E dunque: nessuno devia dalla Statale 40 per vedere contadini taciturni. Nessuno – tranne gli operai della nuova fabbrica – scende dal treno, là, alla stazione. Non si vedono facce strane qui, non si avvistano curiosi. Tutto è identico a se stesso: seminare i campi quando è il tempo, raccogliere quando è il tempo. E ricomincia. E ricomincia. Tutto uguale, da un anno all’altro: uguale, come uguali sono le fattorie. Un posto tranquillo. Questo almeno era il pensiero – o meglio: il sentire, il comune sentire – fra i contadini taciturni di Leister, la mattina del 12 luglio 1956, prima che tutto cambiasse. Cosa accadde è presto detto. Sulla strada principale – l’unica che c’è, corre in mezzo ai campi, a destra e sinistra, a perdita d’occhio –, su quella strada si presentò quella mattina uno sconosciuto. Sí, signori. Un essere umano mai visto prima. Se volete: un’incognita. E delle incognite si ha naturalmente paura. Dalle testimonianze sappiamo che era vestito con abiti un po’ logori, e portava una vecchia valigia mezza sfatta, legata con lo spago. Nessuno vi potrà dire perché mai fosse lí: sono domande a cui non avremo risposta. Vi basti sapere che, incredibilmente, camminava su quella strada: lui sí aveva deviato dalla Statale 40, e si era addentrato tra le fattorie, leggendo dappertutto «BENVENUTO». Chissà. Forse fu per questo che, arrivato al bivio con la fattoria Robichaux, il nostro viandante decise di fermarsi. Il sole era già alto, la gola magari gli bruciava: ebbe sete. Avvistò una ragazza sulla veranda della fattoria. Non ebbe paura di farsi avanti, perché mai avrebbe dovuto averne? Volle il caso che i Robichaux – una delle famiglie piú antiche della contea – fossero cristiani di fede anabattista, per cui le donne portano sempre sulla testa uno strano velo. Lo portava anche la giovane Else, quella mattina, mentre puliva la veranda: suo nonno nel frattempo riposava in casa. Quel che segue è la storia di un errore: lo sconosciuto raggiunge la ragazza, le rivolge la parola, chiede da bere… E poi? Che cosa avviene, davvero, in quel cortile negli istanti che seguono? Un equivoco, signori. Un tragico, disperato equivoco dettato dalla paura. È solo questo a far gridare la giovane Else Robichaux. Ma basta e avanza per scatenare altra paura: a quel grido, il vecchio Jonah Robichaux si sveglia, corre ad affacciarsi, ciò che vede è uno sconosciuto che ha strappato il velo a sua nipote, perché il velo è a terra, e la ragazza ha gridato. Il vecchio afferra da un armadio il fucile, non pensa – non vuole, non può pensare – e apre il fuoco. Uno. Due. Tre. Quattro colpi. L’uomo è a terra, senza vita. Ebbene, signori della giuria. Come vi ho detto, non sono quei quattro colpi che voi siete chiamati a valutare. No: la ragione per cui siete stati scelti – a rappresentare qui l’intero paese – ha a che vedere con quello che avvenne dopo i quattro colpi sparati in quel cortile. Per essere esatti: dal giorno successivo.
Miles prende dal suo tavolo la copia di un quotidiano.
Ecco: 13 luglio 1956. Sta scritto in alto su questa pagina del «Leister Telegraph», di proprietà dell’imputato. Sta scritto sopra il titolo, a caratteri cubitali «SALVA LA NIPOTE: UCCISO UNO SBANDATO». E ancora, testualmente: «colto un ignoto nell’atto di svestire con la forza la giovane nipote, il decano dei Robichaux mostrava nervi saldi, freddandolo con un fucile Weiss». Eccetera eccetera. Ma è vero? Era accaduto davvero questo? O si era trattato, ripeto, di un errore? Al «Telegraph» non interessa. «SALVA LA NIPOTE: UCCISO UNO SBANDATO»: una pagina intera. Cui ne seguirà un’altra, il giorno dopo. E una terza dopo qualche giorno, perché da queste parti non accade poi tanto di interessante, e quando accade, è un’occasione da non perdere.
Il procuratore mostra varie copie del giornale.
Il fenomeno cresce: si direbbe che il ritratto del vecchio eroe «soldato dei nostri tempi» funzioni molto. Convincente? Di piú: avvincente. Di piú: travolgente. Forse troppo perfino per il vecchio Jonah Robichaux, che non regge a tutto questo e dopo pochi giorni muore. Adesso la notizia è piú forte ancora, e sulla scia di questo, il «Leister Telegraph» cavalca l’onda: pubblica perfino un’inchiesta a puntate, la intitola «Gli altri Robichaux», con testimonianze di altri contadini che, grazie ai loro fucili Weiss, hanno salvato bambini e mogli dalle peggiori minacce, che siano di animali o delinquenti. Emergono fatti finora sconosciuti. Episodi mai denunciati, mai saputi, forse falsi, certo esagerati, ma cosa importa? A chi importa? Quello che serve è riempire pagine, con tutto che la contea di Leister, fino a ora un «posto tranquillo», si scopre in realtà un posto violento, angosciato, pieno di insidie. All’improvviso si direbbe che tutti qui tremino, e non da ora: da sempre. Tutti tremano, e tutti – per fortuna – hanno un fucile. Vecchio o nuovo. Meglio se nuovo. Meglio se di marca Weiss. Tant’è. Sul tema viene aperta anche una rubrica di posta dai lettori, sta sotto una vignetta divertente: mostra un vecchio che punta il fucile e dice «Ho 80 ragioni per farlo». Le lettere arrivano a decine. Un piccolo fatto di cronaca riempie il giornale per mesi. Decine di articoli.
Il procuratore mostra una pila enorme di copie del quotidiano.
Ed eccoci, signori della giuria, al cuore della nostra causa commerciale. Vuole il caso che la fabbrica aperta da un anno accanto alla stazione ferroviaria fosse della Weiss & Co. Armi da Fuoco. A distanza di un anno da quei quattro colpi di fucile, i loro profitti nella zona risultano raddoppiati. A oggi triplicati, e si annuncia l’apertura di uno stabilimento nuovo. Herbert Nolan, imputato in questo processo, è proprietario del giornale che lanciò e sfruttò il caso Robichaux. Ma al tempo stesso, Herbert Nolan è anche l’uomo d’affar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. STATO CONTRO NOLAN
  4. I personaggi
  5. 1.
  6. 2.
  7. 3.
  8. 4.
  9. 5.
  10. 6.
  11. 7.
  12. 9.
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright