Analfabeti sonori
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Analfabeti sonori

Musica e presente

  1. 104 pagine
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Musica e presente

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L'avvento di Internet ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nel mondo della musica. L'opportunità strabiliante di usare linguaggi musicali provenienti da ogni tempo e luogo ha rimescolato il concetto stesso di composizione, aprendo un ampio ventaglio di fusioni stilistiche e contaminazioni. Ciò presuppone grande responsabilità da parte del compositore, nonché il rischio di incorrere nell'esplorazione superficiale di un catalogo cosí pericolosamente vasto, smarrendo un requisito fondamentale: il senso critico. La soglia di attenzione e la capacità di concentrazione diminuiscono progressivamente di fronte alla logica di Spotify, un incessante crossover tra generi, che intacca l'archetipo di «storia musicale». I componimenti che richiedono un tempo d'ascolto lungo e ponderato mal si conciliano con questo metodo spasmodico. È ancora possibile qualche forma di resistenza alla continua accelerazione della fruizione musicale, arrestando cosí la nostra trasformazione in veri e propri analfabeti sonori?

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
ISBN
9788858431702

Diario di bordo (con interpreti e antiche leggende).

Ormai non mi sorprende piú lo sguardo di perplessità che appare sul viso delle persone che incontro per la prima volta, quando dico loro che la mia professione è quella di compositore. L’idea che qualcuno possa decidere di passare la maggior parte della sua vita a scrivere puntini neri sopra un pentagramma (nel mio caso con carta, matita e gomma ma nella maggioranza dei casi sullo schermo di un computer) non sembra corrispondere a quello che molte persone ritengono sia una professione degna di questo nome. In Italia la musica viene spesso relegata nell’angolo dell’intrattenimento, quando non direttamente catalogata tra hobby e passatempi. Del resto la stragrande maggioranza di persone in questo Paese vive in un mondo dove qualsiasi musica non appartenga alla sfera popolare (con conseguente supporto fornito dai media) ha una visibilità decisamente ridotta.
Naturalmente non mancano gruppi di appassionati melomani e cultori di musica classica, ma il loro numero scompare di fronte a quello degli appassionati di musica leggera o dei cantautori. Esiste un ottimo canale, Rai 5, che dedica al repertorio classico molto spazio ma che rispetto a quelli generalisti dove trionfano neomelodici e rapper fa registrare degli ascolti di raffinatissima nicchia. L’ennesima riprova dello scarso interesse televisivo per la musica classica si è avuta il 5 gennaio 2016, giorno della scomparsa di uno tra i piú celebri compositori e direttori d’orchestra del ventesimo secolo, Pierre Boulez: il massimo che si è visto sulla televisione nostrana è stata una striscia a fondo schermo con la notizia durante il notiziario delle 12; solamente verso sera la Rai si è decisa a dare la notizia all’interno del telegiornale, limitandosi a dire in pochi secondi che era un «direttore famoso per esibirsi senza la bacchetta» (en passant, la stessa indifferenza era stata dimostrata dalla Rai il giorno della scomparsa di Miles Davis nel 1991).
Cinque giorni dopo la morte di Boulez se n’è andato un altro eccellente artista, David Bowie; tv e giornali mi pare si siano comportati in ben altro modo.
Gli stadi dei grandi eventi rock vedono riunite centinaia di migliaia di persone, mentre le sale da concerto ne possono contare molte meno: mettersi dunque a scrivere volontariamente una musica destinata, per sua natura, a un numero piú limitato di ascoltatori (quale è indubbiamente quella che scriviamo io e i miei colleghi) appare ancora piú incomprensibile agli occhi dei non musicisti; generalmente l’apparente assurdità di questa idea viene corroborata da frasi come: «Ma si riesce a vivere facendo questo?» oppure «Chi te lo fa fare?»
In effetti la seconda di queste frasi si affaccia spesso alla mente dei compositori, quando si confrontano con la generale indifferenza di molte persone nei confronti della musica contemporanea (specialmente quando queste persone sono direttori artistici di stagioni concertistiche intenti a programmare l’ennesimo cartellone di repertorio sette-ottocentesco).
Il messaggio che sta passando in maniera sottile ma pervasiva attraverso quotidiani, televisione, radio e gli scritti di alcuni commentatori influenti è che la musica classica (soprattutto quella scritta oggi) sia irrilevante: un reperto sopravvissuto a un passato certamente illustre ma ormai costoso e inutile, che i cittadini devono pagare con le loro tasse tenendo in vita i teatri d’opera, quelli di tradizione e le stagioni di concerti.
Periodicamente, su giornali e riviste di vario tipo (dalla rivista musicologica ai supplementi dei quotidiani) si legge la consueta dose di previsioni catastrofiche sul futuro della cosiddetta musica colta e sulla precarietà del suo stato attuale. La musica di oggi, si dice, non ha un futuro perché non ha nemmeno un presente. Il pubblico diserta le sale quando si programmano lavori in prima esecuzione assoluta, gli autori contemporanei hanno perso contatto con il pubblico, a differenza dei colleghi della musica pop: la panacea miracolosa che viene suggerita è quella di commissionare lavori agli stessi musicisti pop in grado, con la loro musica dal linguaggio piú immediato, di raggiungere quel larghissimo strato di persone che si tiene alla larga dalle sale da concerto come fossero luoghi infetti. Due tra i catastrofici risultati di questo atteggiamento sono state le opere liriche Ça ira di Roger Waters (ex membro dei Pink Floyd) e Prima Donna della popstar Rufus Wainwright: l’ascolto di questi lavori è riuscito nella difficile impresa di scontentare sia il pubblico del pop che quello della musica classica.
Generalmente a queste geremiadi segue un altrettanto lamentoso resoconto sullo stato moribondo dell’educazione musicale nel nostro Paese, affidata alla buona volontà dei singoli insegnanti piuttosto che a una rinnovata organizzazione dei conservatori e delle scuole musicali (e non).
Su questo ultimo funesto argomento, in effetti, è difficile dar torto a coloro che continuano a ripeterlo incessantemente da decenni, soprattutto se si osserva con sgomento la rocciosa sordità con cui politici di ogni colore hanno finora evitato di rispondere e intervenire al riguardo; molto meno condivisibile è l’allarmismo sullo stato di salute della creatività musicale odierna, dato che invece stiamo vivendo un periodo molto eccitante dal punto di vista della qualità di ciò che viene scritto.
In giro per il mondo si realizzano molti nuovi lavori operistici, sinfonici e da camera di alto livello, con una diversità stilistica mai ascoltata prima. Difficilmente, però, li vedrete programmati con regolarità nei cartelloni nostrani. Non si può certo negare che in Italia esistano diverse rassegne e festival dedicati alla musica contemporanea, che però spesso si rivelano essere una serie di hortus conclusus dove si predica ai convertiti: a differenza di quel che accade in altri Paesi europei, il pubblico che frequenta le stagioni concertistiche “normali” (diciamo cosí) queste nuove composizioni ha raramente occasione di ascoltarle.
Cerchiamo di capire come mai.

Organizzatori e interpreti (non tutti, per fortuna).

È purtroppo vero che la scarsità di programmazione di musica contemporanea nelle stagioni lirico-sinfoniche e concertistiche italiane è dovuta spesso a un’allarmante “non conoscenza” in materia da parte di numerosi sovrintendenti e direttori artistici, ma non è solamente a loro che bisogna attribuire la colpa per questo stato di cose: molto piú vasta, infatti, è la schiera di interpreti (direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti) che guardano alla prospettiva di eseguire musica di autori viventi con la stessa gioia con cui un condannato alla decapitazione guarderebbe avvicinarsi la scure del boia.
L’Italia ha visto raramente figure musicali simili a quella di Wilhelm Furtwängler, che rischiò diverse volte di compromettere la sua posizione a Berlino pur di eseguire e far conoscere la musica di Paul Hindemith, compositore detestato come pochi dal pubblico nella Germania dell’epoca.
Difficile anche trovare artisti con il coraggio di Charles Munch, David Ojstrach, Géza Anda o Serge Kusevickij, che si facevano un punto d’onore di commissionare lavori nuovi esponendosi cosí a quel rischio che tanto terrorizza troppi interpreti odierni, quello dell’insuccesso popolare.
Le sinfonie di Arthur Honegger, le pagine orchestrali di Zoltán Kodály e i balletti di Igor´ Stravinskij hanno procurato a direttori come Ferenc Fricsay, Ernest Ansermet e Pierre Monteux una bella dose di fischi da parte degli spettatori, ma loro non se ne sono mai curati e hanno continuato a riproporre le nuove musiche in cui credevano: lo hanno fatto fino a che il pubblico non si è reso conto del reale valore di queste partiture e ha incominciato ad apprezzarle.
Questi interpreti sapevano che solamente riproponendo un’opera che aveva causato controversie, e dando cosí al pubblico una seconda opportunità di ascoltarla, c’era la possibilità che si riuscisse a coglierne la profondità e l’interesse: se costoro si fossero fermati ai primi fischi (o li avessero evitati del tutto, come usa fare oggi) queste opere sarebbero scomparse dopo le loro prime esecuzioni.
Per fare un esempio, il balletto-pantomima Il mandarino meraviglioso del compositore ungherese Béla Bartók, scritto tra il 1918 e il 1924, è un lavoro che ha suscitato nel pubblico di tutto il mondo un’accoglienza pessima sin dal suo primo apparire, come raramente se ne sono viste sulla scena musicale del ventesimo secolo: una serie continua di fiaschi clamorosi che non ha però impedito a coreografi e direttori d’orchestra di riproporre questa partitura nonostante le reazioni visceralmente negative degli ascoltatori. Oggi Il mandarino meraviglioso è considerato un classico, fa parte del repertorio di tutte le orchestre del mondo e non spaventa piú nessuno, a parte qualche anima candida appartenente al pubblico degli abbonati ultraottantenni o dei musicisti New Age.
Ci sono voluti decenni ma alla fine la perseveranza ha pagato e gli ascoltatori, seppure in ritardo, hanno capito quest’opera.
È chiaro dunque che pensare di realizzare una politica culturale basata solo sulle prime esecuzioni che restano tali senza che gli ascoltatori abbiano la possibilità di confrontarsi una seconda o terza volta con le composizioni contemporanee (magari cambiando idea su di esse) non appare come la piú lungimirante delle idee, eppure da moltissimi anni viene puntualmente applicata dalla maggior parte delle istituzioni italiane.
Mettendo in evidenza il ritardo con cui il pubblico tradizionale arriva a comprendere le opere della modernità non si desidera assolutamente avallare o giustificare l’elegia della sala vuota che ha caratterizzato la maggior parte della critica musicale legata a doppio filo alle avanguardie degli anni Cinquanta. Per molti di questi esegeti dello sperimentalismo musicale, un’opera contemporanea di qualità non può in nessun modo attirare consenso di pubblico, altrimenti significa che in essa c’è qualcosa di sbagliato. Questo atteggiamento non si è esaurito con gli anni Sessanta e Settanta, ma ha continuato a prosperare anche in tempi recenti: ricordo un musicista giapponese che incontrai nel 2001 alla Biennale di Venezia il giorno dopo aver fatto un concerto come pianista. Nonostante il programma prevedesse autori di qualità come Morton Feldman, John Cage e David Lang, alla mia serata era intervenuto un pubblico caloroso ma composto piú che altro da addetti ai lavori (critici, compositori, musicologi); mi stavo chiedendo come mai ci fosse stato poco interesse da parte di ascoltatori non specializzati quando lui disse in tono allegro: «Va benissimo, no? Questa è musica contemporanea; se è un fiasco con il grande pubblico allora è un vero successo!» Non ricordo cosa risposi, comunque questo era il vento che soffiava (e soffia tuttora) in certi ambienti.
La strategia di premeditata colpevolizzazione del pubblico, accusato regolarmente di “non voler capire” certi brani d’avanguardia quando spesso da capire non c’era proprio un bel niente, è stata una delle piú feroci operazioni di terrorismo culturale degli ultimi tre decenni, e ha contribuito in maniera massiccia ad allontanare gli ascoltatori dalla musica contemporanea: certamente non hanno aiutato le numerose composizioni mediocri eseguite in prestigiosi festival per motivi di appartenenza a circoli di potere anziché per un reale valore artistico, che guarda caso hanno avuto sistematicamente l’approvazione entusiastica di parecchi critici musicali.
Oggi sembra fantascienza, ma non sono cosí lontani i tempi in cui compositori illustri come Benjamin Britten, William Walton, Francis Poulenc, Aaron Copland, Nino Rota, Leonard Bernstein e Dmitrij Šostakovič venivano considerati veri e propri ruderi musicali, dei “reazionari borghesi” cui andavano contrapposte le ultime meraviglie della musica stocastica, i concerti della musique concrète, gli happenings a base di musica intuitiva e le Cantate su testi di Mao Zedong oppure di profughi provenienti da vari Paesi (condite da immancabili citazioni di Pablo Neruda).
Testimonianza preziosa ed esilarante di questi anni sono le recensioni di Eugenio Montale che apparivano sul «Corriere della Sera», dove il grande poeta, autentico appassionato di musica, commentava con impareggiabile ironia le ultime mirabilia dell’avanguardia che apparivano nelle rassegne specializzate di quegli anni (oggi queste pagine si possono leggere raccolte in un volume intitolato Prime alla Scala).
Non bisogna dimenticare che nello stesso periodo importanti compositori appartenenti in pieno all’avanguardia musicale come Peter Maxwell Davies, Krzysztof Penderecki, Hans Werner Henze, György Ligeti, Witold Lutosławski e lo stesso Luciano Berio erano guardati con sospetto in certi circoli talebani legati all’estetica di Darmstadt e criticati con asprezza per il loro “eclettismo”, i loro “compromessi con la tonalità” e la loro “furberia”, additata al pubblico ludibrio da chi invece costruiva ponti d’oro ai compositori impegnati ideologicamente.
Non ci sembra il caso quindi di imitare schemi mentali infaustamente nostalgici cantando le lodi dei pochi ma buoni, ci mancherebbe: un autore che non tenga minimamente conto di ascoltatori ed esecutori quando scrive musica ci appare oggi come un triste solipsista, questo è fuor di dubbio.
Altrettanto insensato, però, è il pensare di utilizzare unicamente i parametri dell’Auditel oppure l’applausometro per stabilire giudizi di valore sulla musica contemporanea (come invece sembra voler proclamare a gran voce il neopopulismo culturale all’ultima moda, per il quale contano solo le rilevazioni di mercato) e pretendere che un lavoro nuovo abbia successo di pubblico immediato pena la sua scomparsa dal repertorio. La farsa delle stagioni musicali e dei festival in cui non è presente neppure un brano scritto oggi non può continuare ancora a lungo, anche perché il panorama storico è mutato in modo irreversibile: e chi è il tramite indispensabile tra musica e pubblico, colui in grado di aiutarlo a comprendere questo cambiamento cosí importante? Naturalmente l’interprete, che deve evitare facili scorciatoie e trovare il tempo e le energie per documentarsi sulla musica del proprio presente, a meno che non voglia accontentarsi del ruolo di elegante jukebox dispensatore di squisitezze sonore del tempo che fu. Se musicisti come il direttore Paul Sacher o il violoncellista Mstislav Rostropovič avessero ragionato cinquant’anni fa come molti solisti di oggi, una grossa fetta del repertorio moderno presente in sala da concerto non esisterebbe, dal momento che questi artisti hanno commissionato decine di lavori nuovi a Igor´ Stravinskij, Béla Bartók, Arthur Honegger, Sergej Prokof´ev, Dmitrij Šostakovič, Richard Strauss, Francis Poulenc, Benjamin Britten, arrivando sino a Luciano Berio, Pierre Boulez, Henri Dutilleux e molti altri ancora. Proprio in quanto esecutori amati dal pubblico, Sacher e Rostropovič hanno avuto fiducia nei compositori della loro epoca e sono stati disposti a rischiare l’insuccesso per questo. Non si sono fatti sopraffare dall’inedia intellettuale e hanno sempre cercato di tenere le orecchie ben aperte.
Esistono oggi figure con questo coraggio? Certamente. Ci sono molte rondini che si impegnano nel cielo della contemporaneità con straordinaria bravura ed entusiasmo, ho anche avuto la fortuna di averne incontrate molte lungo il mio cammino di compositore: ma se allargo il campo visivo al di là dell’esperienza personale e considero il quadro generale dei musicisti italiani devo dare ragione a Franco Battiato che anni fa cantava: «La primavera intanto tarda ad arrivare».

Leggende.

Esistono diverse affermazioni (definiamole pure leggende) che ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Analfabeti sonori
  4. Diario di bordo (con interpreti e antiche leggende)
  5. Organizzatori e interpreti (non tutti, per fortuna)
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright