Prima delle Annales, ha scritto Krzysztof Pomian, «l’atteggiamento degli storici rassomigliava a quello dei collezionisti; gli uni e gli altri raccoglievano solo le cose rare e curiose, trascurando tutto quanto era banale, quotidiano, normale [...] la storia era una scienza idiografica, vale a dire avente per oggetto ciò che non si ripete»1.
La storia era… Pomian qui parla al passato, come forse è giusto per la storia sociale, ma certo non per quella della letteratura, dove il collezionista di cose (o opere) rare e curiose, che non si ripetono, eccezionali – e che il close reading rende ancora piú tali, sottolineando l’unicità proprio di questa parola e questa frase qui – è ancora di gran lunga la figura dominante. Ma che cosa succederebbe se gli storici letterari decidessero a loro volta di «spostare lo sguardo» (ancora Pomian) «dallo straordinario al quotidiano, dagli avvenimenti eccezionali alla gran massa dei fatti»? Che letteratura finiremmo col trovare, nella «gran massa dei fatti»?
Tutte domande che cominciai a pormi alcuni anni fa, quando lo studio dei repertori bibliografici di vari paesi europei mi fece capire in che minuscola frazione del campo letterario si svolge di solito l’attività della critica. Prendiamo l’Ottocento inglese: un canone di due o trecento romanzi suona tutt’altro che esiguo (e sarebbe in effetti assai piú ampio di quello corrente) – eppure coprirebbe pur sempre sí e no l’uno per cento dei romanzi effettivamente pubblicati: ventimila, trentamila, di piú, nessuno lo sa di preciso (e il close reading, qui, non aiuta: a leggere un romanzo al giorno, ogni giorno dell’anno, ci vorrebbe lo stesso almeno un secolo…) E poi, non è neanche una questione di tempo, ma di metodo: un campo cosí vasto non lo si capisce cucendo insieme quel che sappiamo di questo o quell’altro caso isolato, perché non è la somma di tanti casi isolati: è un sistema collettivo, un tutto, che dev’essere visto e studiato come tale. O per citare la conferenza sulla storia che Fernand Braudel tenne nel 1941, a Lubecca, ai suoi compagni di prigionia:
Un numero inverosimile di dadi, sempre in movimento, dominano e decidono di ogni singola esistenza. […] Incertezza dunque nel campo della storia individuale; ma nell’altro, in quello della storia collettiva, semplicità e coerenza quasi totali. La storia è sí «una povera piccola scienza congetturale» quando ha per oggetto individui isolati dal gruppo, quando tratta di avvenimenti, ma è molto meno congetturale e ben piú razionale sia nei procedimenti sia nei risultati, quando prende in esame i gruppi e il ripetersi degli avvenimenti2.
Una storia letteraria piú razionale. Questa è l’idea.
I.
La quantificazione dell’analisi letteraria può assumere forme diverse, che vanno dalla storia del libro alla stilistica computazionale, dalle banche dati tematiche all’analisi multivariata del lessico, e ad altro ancora. Io qui mi limiterò al primo di questi filoni, la storia del libro, e inizierò il ragionamento a partire dal lavoro compiuto da McBurney, Beasley, Raven, Garside e Block per la Gran Bretagna; Martin, Mylne e Frautschi per la Francia; Zwicker per il Giappone; Munch-Petersen per la Danimarca; Ragone per l’Italia; Martí-Lopez e Santana per la Spagna; Joshi per l’India; e Griswold per la Nigeria. E comincio con questa sfilza di nomi per fare intendere come la ricerca quantitativa sia innanzitutto cooperazione; un po’ per la ragione, banale, che ci vuole un’eternità per raccogliere i dati, ma soprattutto perché questi dati sono poi (quanto meno in teoria) indipendenti dall’interpretazione del singolo ricercatore, e possono dunque essere ripresi da altri, e usati in contesti diversi. Che è appunto quello che ho fatto nella figura 1, che offre un quadro sintetico del decollo del romanzo in Gran Bretagna, Giappone, Italia, Spagna, e Nigeria.
Figura 1. Il decollo del romanzo, XVIII-XX secolo.
Numero di nuovi titoli per anno, media quinquennale.
Fonti: per la Gran Bretagna: W. H. McBurney, A Check List of English Prose Fiction, 1700-1739, Harvard U. P., Cambridge, Mass. 1960, e J. C. Beasley, The Novels of the 1740s, University Press of Virginia, Charlottesville 1972; entrambi parzialmente rivisti in J. Raven, British Fiction 1750-1770: A Chronological Check-List of Prose Fiction Printed in Britain and Ireland, University of Delaware Press, Newark 1987.
Per il Giappone: J. Zwicker, Il lungo Ottocento del romanzo giapponese, in Il romanzo, vol. III, Storia e geografia, Einaudi, Torino 2002.
Per l’Italia: G. Ragone, Italia 1815-1870, in Il romanzo, vol. III cit.
Per la Spagna: E. Martí-Lopez e M. Santana, Spagna 1843-1900, in Il romanzo, vol. III cit.
Per la Nigeria: W. Griswold, Nigeria 1950-2000, in Il romanzo, vol. III cit.
Cinque paesi, tre continenti, due secoli e mezzo, e la traiettoria è sempre la stessa: la venerabile metafora della rise of the novel – l’ascesa del romanzo – fatta immagine. In una ventina d’anni (per la Gran Bretagna, 1720-40; Giappone, 1745-65; Italia, 1820-40; Spagna, 1845-primi anni Sessanta; Nigeria, 1965-80), il numero di nuovi romanzi balza da cinque-dieci titoli l’anno, il che vuol dire un romanzo ogni mese o due, a circa un romanzo ogni settimana. E quando si raggiunge questo livello, l’orizzonte di attesa dei lettori cambia. Fin quando di romanzi ne esce una manciata l’anno, voglio dire, essi restano dei prodotti poco affidabili, che vanno e vengono senza preavviso, e sulla cui presenza non si può mai davvero contare: sono delle merci, sí, in vendita da stampatori e librai, ma delle merci ancora in attesa di un mercato vero e proprio. Con un nuovo romanzo a settimana, invece, siamo già al grande ossimoro moderno della novità regolare: l’inatteso che il mercato provvede a offrire con tale puntualità che si finisce ben presto col non poterne piú a fare a meno. Reading becomes a necessity of life, suona il titolo di un libro di William Gilmore-Lehne, e il secondo quarto del Settecento è appunto il momento in cui il romanzo diventa a sua volta una necessità della vita moderna. Le geremiadi che subito si levano da ogni parte – i romanzi fanno diventare pigri, stupidi, immorali, pazzi, ribelli: proprio come i film due secoli dopo – ne attestano il successo meglio di qualsiasi elogio.
II.
Il decollo del romanzo, dunque; o meglio, un decollo in una storia iniziata molti secoli prima, e che vedrà molti altri momenti di rapida crescita. A seguire il romanzo inglese dal 1710 al 1850, ad esempio (fig. 2), tre fasi distinte emergono chiaramente dal continuum storico, ognuna divisa a sua volta in un primo momento di crescita rapida, e un secondo periodo di stabilizzazione.
Figura 2. Il romanzo in Gran Bretagna, 1710-1850.
Numero di nuovi titoli per anno, media quinquennale.
Fonti: W. H. McBurney, A Check List of English Prose Fiction, 1700-1739 cit; J. C. Beasley, The Novels of the 1740s cit.; J. Raven, British Fiction 1750-1770 cit.; P. Garside, J. Raven e R. Schöwerling (a cura di), The English Novel 1770-1829: A Bibliographical Survey of Prose Fiction Published in the British Isles, 2 voll., Oxford University Press, Oxford 2000; A. Block, The English novel, 1740-1850, Dawsons, London 1961.
La prima fase, dal 1720 al 1770, inizia con l’accelerazione del 1720-40, appena descritta, dopo la quale il romanzo consolida le proprie posizioni, e diventa un dato costante del sistema culturale. Nella seconda fase, che va dal 1770 fin verso il 1820, l’impennata di fine secolo produce invece un effetto diverso. Fino a quel momento, alla lettura «estensiva» che è tipica del romanzo – leggere molti libri, una volta sola, e in modo un po’ distratto, invece che pochi libri, spesso, e con attenzione (come era per la lettura «intensiva» dei testi devozionali) – alla lettura estensiva, dicevo, non potevano mai del tutto bastare le novità dell’anno in corso, e i lettori erano dunque costretti a cercare altrove buona parte del proprio entertainment: ristampe di vecchi best-seller, riduzioni, libri stranieri, qualche classico, e anche quei pochi testi pervenuti in un modo o nell’altro dall’antichità. Il mercato del romanzo era insomma un luogo dove il passato, remoto e recente, aveva ancora un peso notevole. Ma quando il numero delle novità annuali raddoppia rispetto alla fase precedente – saranno 80 nel 1788; 91 nel 1796; 111 nel 1808 – la popolarità dei vecchi libri crolla di colpo3, e il pubblico romanzesco può volgersi risolutamente (e per sempre) verso la stagione corrente. In questi decenni, il romanzo diventa insomma davvero la forma del presente, come fu subito chiaro ai grandi romantici tedeschi: ma lo diventa, credo, non solo grazie al Meister del famoso aforisma di Schlegel4, bensí anche in virtú di questo sotteraneo, e perfino banale processo di crescita quantitativa.
Prima «ascesa»: si costituisce il mercato del romanzo. Seconda: il romanzo si volge verso il presente. E nella terza fase, che inizia intorno al 1820, e che purtroppo si può seguire solo per una trentina d’anni (dopo il 1850, i repertori bibliografici sono ancora in preparazione) a cambiare è infine la composizione interna del mercato romanzesco. Fin qui, il tipico lettore di romanzi era stato un «generalista» – uno che «legge di tutto, a casaccio», come scrisse con un po’ di disprezzo Thibaudet nel Liseur de romans5. Ora però l’ampliamento quantitativo del mercato è tale da permettere ogni sorta di nicchie per lettori e generi «...