1. La riproduzione.
In Italia, fin dal periodo compreso fra le due guerre mondiali, la transizione demografica, cioè quel processo caratteristico delle società in corso di modernizzazione che consiste nella contemporanea diminuzione degli alti livelli della natalità e della mortalità, aveva preso un andamento e dimensioni chiaramente riconoscibili. La accompagnavano tutte le modificazioni demografiche connesse: aumento della popolazione, innalzamento delle aspettative di vita, innalzamento dell’età matrimoniale. Come gli altri paesi europei, anche l’Italia ha registrato temporanee alterazioni e inversioni di tendenza del processo di transizione demografica a causa delle guerre, delle carestie, dell’epidemia dell’influenza “spagnola”, delle grandi ondate migratorie. Ma anche delle campagne demografiche attivate dal regime fascista: fatti tutti che incidono, nella prima metà del XX secolo, sull’andamento della crescita della popolazione1. Inoltre la transizione demografica si è, almeno per un certo periodo, sviluppata coerentemente con il grado di modernizzazione delle diverse zone del Paese: che vuol dire che nel Nord, nel Nord-Ovest e nel Centro ha preceduto l’avviarsi dello stesso fenomeno nel Centro-Sud e nel Sud. Un caso a sé è la Sardegna, che registrò precocemente il calo sia delle nascite che dei decessi. La specificità del caso italiano comincia a delinearsi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: benché a quella data la natalità sia oramai mediamente scesa a livelli “modernizzati”, essa continua a diminuire, fino a toccare e poi oltrepassare verso il basso la soglia dell’equilibrio tra nascite e decessi: siamo in presenza della possibilità, definita con un nome un po’ sinistro, del cosiddetto “coma” demografico. A tutt’oggi, come si è detto, la tendenza non si è modificata e le nascite continuano a diminuire.
Di quali mutamenti culturali è spia questo processo?
Come già detto, non credo che la transizione demografica possa essere esaminata solo nei termini dei suoi contenuti culturali.L’industrializzazione, l’urbanesimo, la trasformazione delle identità, delle competenze, della struttura stessa degli impieghi e dei mestieri, ma anche la progressiva secolarizzazione e democratizzazione di almeno alcuni dei paesi europei, sono le pre-condizioni all’interno delle quali il calo delle nascite prende il via. Ciò che fa problema nella situazione italiana è che a tutt’oggi non si è ancora arrestato.
Paese di forte tradizione familistica, imbevuto di un cattolicesimo che quasi mai si mantiene estraneo alla vita civile e sociale nazionale, nel quale per giunta ancora negli anni Cinquanta e Sessanta vigeva il codice fascista che proibiva ogni genere di pratiche anticoncezionali come delitti contro la razza, l’Italia sembrava destinata a muoversi lentamente sul sentiero della transizione e a non addentrarsi troppo in esso.
Viceversa, il decennio della ricostruzione postbellica e del cosiddetto boom economico rappresentarono sicuramente una rottura radicale, materiale e fattuale e non ancora ideologica, come sarà poi con il consumismo, di quello che era stato il modello di vita economico della grande maggioranza degli italiani stessi, specialmente degli addetti all’agricoltura, settore che allora occupava la parte maggiore della popolazione attiva in quasi tutte le regioni. Paese povero, l’Italia aveva un’alimentazione povera, abitazioni povere, abiti poveri, circa la metà della popolazione adulta era ancora analfabeta, la mortalità infantile era a due cifre percentuali. La penuria, la scarsità erano la regola del mondo materiale; fame, malattie, debiti alimentavano insicurezza, incertezza, paura del nuovo o dell’ignoto, le forme tipiche che il negativo dell’esistenza assumeva in quel contesto. I valori erano costruiti sulle risorse disponibili per contrastare questi mali: capacità di lavorare, anzi di faticare, risparmio fino alla privazione, riuso e riciclo di tutto ciò che si adoperava e infine, ma in realtà prima di tutto perché si tratta del vero grande valore della cultura contadina, la rassegnazione intesa come capacità di sopportare la durezza della vita e gli imprevisti della sorte, ma anche come capacità di non abbandonarsi a sogni irrealizzabili, buoni solo a rendere la vita ancora piú dura.
Negli anni Cinquanta l’avvio della ricostruzione e poi la messa in moto di un intenso e rapido processo di industrializzazione trasformarono la struttura del sistema produttivo e del mercato del lavoro. L’industrializzazione, intensa nelle regioni settentrionali e scarsa in quelle meridionali, dalle quali però partirono i grandi flussi migratori diretti verso il Nord e verso l’Europa, contribuí direttamente o indirettamente a diffondere in tutta Italia (e sia pure in alcune zone piú che in altre) una novità inaudita e davvero fondamentale: il salario interamente in denaro, erogato regolarmente alla stessa data tutti i mesi e sicuro nella misura in cui era sicuro il lavoro in base al quale veniva corrisposto. Confrontato con l’insicurezza, l’aleatorietà, le incertezze della condizione contadina, anche di quella meno povera dei mezzadri e dei piccoli proprietari coltivatori, il regime di vita di salariato nell’industria o nei servizi appariva piú che buono, ottimo. Tanto piú se si considera che ben presto intorno a questa massa di addetti all’industria, che cresceva, vennero ad aggregarsi i sindacati e i partiti, in quegli anni inesauribili promotori di sempre nuove rivendicazioni e di tutele dei diritti acquisiti.
Se negli uomini questi cambiamenti radicali alimentarono una inedita aspirazione a una mobilità sociale ascendente, da realizzarsi anche preparando un destino diverso per i propri figli («… deve avere tutto quello che io non ho avuto»), le donne furono coinvolte dalla trasformazione in modo totale, in un processo che tendenzialmente investiva tutti i ruoli e gli status in cui si articolava la loro esistenza, non soltanto il loro ruolo di madri.
Perché il quadro sia piú chiaro, va detto che nel campo della procreazione ciò che era stato prescritto, asserito, ribadito per un ventennio e piú, era lontano dai comportamenti di fatto. Un certo contenimento delle nascite c’era sempre stato: a onta dei precetti della Chiesa cattolica e delle minacce contenute nelle leggi di difesa della razza, e in mancanza di altri anticoncezionali disponibili, le donne abortivano. Tutte: ricche e povere, giovani e meno giovani, cittadine e contadine. In condizioni la cui pericolosità aumentava in ragione inversa del denaro che la donna aveva da spendere. Abortivano nell’apparente ignoranza di tutti coloro con cui vivevano, a cominciare dal marito: l’aborto infatti rientrava in quella ampia e ambigua categoria delle «cose di donne», di cui era bene che solo le donne si occupassero. Infatti, e a onta della diffusione della pratica, rimanevano vigenti due giudizi di valore assolutamente negativi: le donne che abortivano non amavano «il frutto del loro seno», erano egoiste, si sottraevano al loro primo dovere e ingannavano il marito, non informandolo; e anche se si fosse voluto credere che lo scarso numero delle loro gravidanze era “naturale”, restava il fatto che avevano pochi figli, cioè non erano feconde, non facevano crescere la famiglia. Questo era quanto veniva asserito. Quando, prima ancora dell’abolizione delle leggi razziali e della legalizzazione degli anticoncezionali e della interruzione volontaria di gravidanza, cominciò a circolare l’idea che fare pochi figli fosse bene, un segno di responsabilità e di saggezza, una cosa “civile” in confronto ai «tanti figli come le bestie», quando il numero “giusto” dei figli cominciò a essere pubblicamente fissato a «due - massimo tre», tutto questo dovette arrecare un grande sollievo, un senso di liberazione e di recuperata dignità, alle decine di migliaia di donne italiane che tentavano di trovare un modus vivendi tra gravidanze a ripetizione e pericolosi aborti clandestini.
Tuttavia, la situazione non era semplice: se il modello della modernizzazione e del progresso prescriveva pochi figli; se, soggettivamente, le donne erano d’accordo nell’adottare questo modello (anche per il proprio bene, non solo per il bene dei figli), sussistevano tuttavia ostacoli pesanti. I pregiudizi sulla donna che non vuole essere madre ed è, dunque, un “mostro” erano, abbiamo visto, cosí radicati e diffusi da generare non solo ostilità e giudizi negativi verso le donne che evitavano le gravidanze, ma anche sensi di colpa e angosce nelle donne stesse. Inoltre fino alla metà degli anni Settanta – cioè fino a dopo il referendum che confermò la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza – non esisteva presso le istituzioni sanitarie alcun tipo di assistenza o semplicemente di consulenza e orientamento sulle pratiche anticoncezionali.Anche dopo l’approvazione della legge, sfruttando il fatto che autorizzava l’obbiezione di coscienza, una parte cospicua dei medici italiani si rifiutò di eseguire aborti e pure di occuparsi di educazione sanitaria alla contraccezione, peraltro anch’essa fortemente osteggiata dalla Chiesa cattolica: e persino in questo settore si finí per costruire un sistema “all’italiana”, basato sull’intelligenza delle donne, sulla generosa disponibilità di una parte minoritaria del personale sanitario e su molta arte d’arrangiarsi da parte di tutte le interessate.
Ridotto drasticamente il numero di figli per coppia, il progetto di non far mancare ai figli nulla di quello di cui erano stati privati i genitori si rivelò realizzabile ma carico di conseguenze che investivano tutta la vita sociale, oltre a quella familiare. L’istruzione di base, obbligatoria e gratuita, fu estesa nel 1961 fino ai quattordici anni. Ne occorrevano altri cinque per conseguire un diploma tecnico che permettesse di esercitare alcune professioni, come quelle di ragioniere, geometra e simili; e addirittura nove o dieci per raggiungere la laurea. Nasce in questo contesto un nuovo tipo di famiglia, forse il piú tipico dell’Italia della seconda metà del XX secolo: la famiglia in cui entrambi i coniugi sono breadwinners, titolari della responsabilità di nutrire la famiglia e di farla crescere, guadagnando un salario al di fuori di essa. In genere, il salario di uno dei due coniugi copriva le spese di base, mentre il salario dell’altro era destinato alle spese eccezionali, come gli studi dei figli, il mutuo per l’acquisto di un appartamento ecc. Questa divisione del lavoro di riproduzione permise in moltissimi casi di realizzare i progetti di mobilità sociale cosí appassionatamente coltivati. Il numero di professionisti e impiegati provenienti da famiglie operaie o contadine crebbe significativamente almeno per due decenni, auspice anche un mercato del lavoro ancora in grado di assorbirli sia nei comparti pubblici che in quelli privati.
Poiché in questi casi il lavoro dipendente extradomestico veniva assunto dalle donne per contribuire a migliorare il tenore di vita delle famiglie e il destino dei figli, nessuno le etichettava come egoiste senza cuore che abbandonavano la prole, anche se per tutti la condizione ottimale continuava a essere ritenuta quella della «donna a casa, che non sia costretta (corsivo mio) a lasciare i bambini». Per le donne si trattò comunque di un’opportunità consistente come mai prima (salvo che nei contesti migratori) di uscire di casa, abbandonare il ruolo di casalinga o quello, riconosciuto alle donne contadine coltivatrici dirette, di coadiuvanti, per definizione subalterno e subordinato a quello dell’uomo capofamiglia e capoazienda. Ma a fronte di questa opportunità del tutto nuova (tranne forse nelle città capoluoghi delle regioni piú industrializzate), di assunzione di ruoli professionali riconosciuti, di titolarità di un salario, di aumento di importanza dentro la famiglia, e anche fuori, le donne si scontrarono con ostacoli gravi e imprevisti. La Stato non prese nessuna iniziativa per agevolare il lavoro domestico delle donne che lavoravano fuori casa; e, poiché il lavoro extradomestico salariato veniva vissuto come un’opportunità preziosa, ma congiunturale, necessaria in certe situazioni e periodi, ma non destinata a entrare stabilmente nella struttura delle “vere” famiglie, non ci fu nessuna reale elaborazione culturale collettiva delle nuove condizioni che la situazione creava e che richiedevano nuove conoscenze e nuovi valori. Il risultato fu che gli uomini italiani continuarono a disinteressarsi totalmente del lavoro domestico e della gestione della quotidianità familiare, mentre le donne si trovarono caricate di un doppio lavoro per totali giornalieri di dodici, quattordici, quindici ore2. Tuttavia, forse per la prima volta, si scoprirono anche non disponibili alla rassegnazione.
L’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta era un Paese carico di energia, di progetti, di aspirazioni ad andare oltre. Pur senza liberarsi definitivamente delle sue tare strutturali la società italiana ambiva a modernizzarsi e a progredire verso un benessere diffuso che correggesse almeno alcune delle grandi diseguaglianze esistenti. È in questa diffusa atmosfera culturale che trovano terreno favorevole le grandi “lotte”, come furono chiamate, che caratterizzarono i due decenni: le l...