Business Adventures
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Otto storie classiche dal mondo dell'economia

  1. 432 pagine
  2. Italian
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Otto storie classiche dal mondo dell'economia

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Il piú rovinoso flop dell'industria automobilistica di tutti i tempi, il clamoroso successo della prima macchina xerografica da ufficio, la causa legale da cui è partita la normativa sull'insider trading. I saggi di John Brooks, pubblicati in origine negli anni Sessanta, dopo essere stati «riscoperti» da personaggi del calibro di Warren Buffett e Bill Gates, sono oggi considerati un caposaldo del pensiero economico. Senza tecnicismi e con un gusto per l'ironia che rende spassoso persino un saggio sul sistema fiscale americano, Brooks esamina otto vicende economiche e finanziarie esemplari dalle quali continuiamo ad avere molto da imparare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858421598
Argomento
Economia

1. Xerox Xerox Xerox Xerox

La prima macchina da ufficio per la duplicazione meccanica della pagina scritta si chiamava mimeografo, e fu messa in commercio nel 1887 dalla A. B. Dick Company di Chicago, con risultati non proprio entusiasmanti. Mr Dick era un ex commerciante di legnami che, stufo di copiare a mano i propri listini prezzi, aveva dapprima cercato di inventare una sua macchina duplicatrice ma poi, non essendoci riuscito, aveva acquistato da Thomas Alva Edison, inventore del mimeografo, i diritti di sfruttamento industriale della scoperta. Ma le vendite non andavano affatto bene, e Mr Dick era alle prese con un formidabile problema di marketing. «Una macchina capace di copiare un documento decine e decine di volte non interessava a nessuno», spiega suo nipote C. Matthews Dick Jr, attuale vicepresidente della A. B. Dick Company, produttrice di una vasta gamma di copiatrici e duplicatrici per ufficio. «I primi acquirenti del mimeografo non furono uffici ma chiese, scuole, associazioni di boy-scout. Per attirare l’attenzione delle aziende e degli studi professionali, il nonno e i suoi soci dovettero fare un’enorme opera di convinzione. A quei tempi la duplicazione meccanica dei documenti era un’idea nuova e sconvolgente, che mandava all’aria routine aziendali consolidate da tempo. In fin dei conti la macchina per scrivere era arrivata da poco piú di dieci anni, ed erano ancora in pochi a usarla; idem per la carta carbone. Quando un uomo d’affari o un avvocato avevano bisogno di cinque copie di un documento, andavano da un impiegato e gli chiedevano di copiarlo cinque volte: a mano, beninteso. La gente diceva a mio nonno: “Perché dovrei riempirmi l’ufficio di copie di questo e di quello? Sarebbero solo un accumulo inutile, oltre che una tentazione per i curiosi e uno spreco di carta”».
Volendo considerare la situazione da un altro punto di vista, può anche darsi che le difficoltà incontrate da Mr Dick Senior dipendessero dalla cattiva fama di cui godeva da secoli lo stesso concetto di duplicazione dei materiali grafici: una cattiva fama che si rispecchia nelle varie connotazioni di «copia» e del verbo «copiare» nella lingua inglese. Basta consultare l’Oxford English Dictionary per farsi un’idea dell’aura di disonestà che ha ammantato la parola nel corso dei secoli: nel tardo Cinquecento, e fino all’epoca vittoriana, copy e counterfeit (rispettivamente «copia» e «falso») erano quasi sinonimi. Verso la metà del XVII secolo, inoltre, l’accezione medievale di copy nel senso di «prosperità» o «grande quantità» scomparve definitivamente dalla lingua inglese, sopravvivendo soltanto nella forma aggettivale copious. «Le sole copie buone sono quelle che mettono in chiaro il ridicolo dei cattivi originali»1, scriveva nel 1665 La Rochefoucauld nelle sue Massime. «Non comprate mai la copia di un quadro», ammoniva John Ruskin nel 1857, invitando i suoi lettori a guardarsi non dagli imbrogli ma dall’involgarimento. E anche la copiatura dei documenti scritti era spesso osservata con sospetto: «Per quanto la copia autenticata di un documento sia una buona prova, tuttavia la copia di una copia, ugualmente autenticata e sempre da testimoni credibili non sarà ammessa come prova in giudizio»2, scriveva John Locke nel 1690. Piú o meno nella stessa epoca, l’industria della stampa contribuí ad arricchire il lessico della lingua inglese con la suggestiva espressione foul copy, ovvero «brutta copia», mentre in epoca vittoriana si usava dire che un certo oggetto o persona non era che «la pallida copia» di qualcosa o qualcun altro.
Nel XX secolo, però, le necessità pratiche connesse all’industrializzazione hanno prodotto un drastico cambiamento di vedute, e le esigenze di riproduzione dei documenti sono aumentate in breve tempo. (Può sembrare paradossale che il fenomeno abbia coinciso con la diffusione del telefono, ma forse non è poi cosí strano. È ampiamente provato che la comunicazione tra persone, quale che ne sia il mezzo, genera inevitabilmente il bisogno di altra comunicazione). Nell’ultimo decennio dell’Ottocento la macchina per scrivere e la carta carbone erano ormai diffusissime, e nei primi anni del nuovo secolo anche la mimeografia diventò una normale pratica di molti uffici. «Nessun ufficio è completo senza un Mimeografo Edison», grandeggiava la Dick Company nel 1903. In quell’anno le sue macchine in circolazione erano all’incirca centocinquanta; la cifra salí a duecentocinquanta nel 1910 e a quasi mezzo milione nel 1940. Piú o meno in quegli anni furono messe sul mercato le prime versioni da ufficio delle stampatrici offset – animose concorrenti in grado di produrre copie esteticamente molto piú gradevoli di quelle ottenute con un mimeografo – tuttora utilizzate in molti grandi uffici. Ma poiché (come nel caso del mimeografo) il processo di copiatura necessita di una matrice speciale, la cui preparazione è impresa piuttosto lunga e costosa, la stampa offset presenta dei vantaggi economici solo nel caso in cui sia necessario fare un numero sostanzioso di copie. Nel gergo delle macchine per ufficio si è soliti distinguere tra «duplicatrici» e «copiatrici», e poiché la linea di confine tra le une e le altre si colloca in genere tra le dieci e le venti copie, sia la stampatrice offset sia il mimeografo rientrano nella categoria delle macchine duplicatrici. Nel settore delle copiatrici il progresso tecnologico è andato a rilento, e ci è voluto molto prima di avere a disposizione macchine efficienti ed economiche. I primi dispositivi fotografici (il piú famoso dei quali era ed è il Photostat) che non richiedevano la preparazione di una matrice apparvero intorno al 1910, ma a causa del costo elevato, della lentezza e della difficoltà di funzionamento, il loro uso rimase perlopiú limitato alla copiatura di progetti, disegni tecnici e documenti legali. Fino agli anni Cinquanta, lo strumento piú pratico per la copiatura di lettere d’affari o pagine scritte era pur sempre la macchina per scrivere con un foglio di carta carbone nel rullo.
Gli anni Cinquanta del Novecento sono stati il periodo embrionale e pionieristico della copiatura meccanizzata. In breve tempo si è affacciata sul mercato un’intera nidiata di macchine capaci di riprodurre la maggior parte dei documenti d’ufficio senza bisogno di una matrice, al costo di pochi centesimi per copia e nello spazio di un minuto, se non addirittura meno. Le tecniche impiegate erano le piú diverse: la copiatrice Thermo-Fax della Minnesota Mining & Manufacturing, messa in commercio nel 1950, utilizzava carta termosensibile; la Dial-A-Matic Autostat della American Photocopy (1952) si basava su un perfezionamento del comune processo fotografico; la Verifax della Eastman Kodak (1953) funzionava in base a un metodo detto fotoriproduzione. Quale che fosse il principio, quasi tutte le macchine – a differenza del mimeografo di Mr Dick – incontrarono i favori del mercato, in parte perché rispondevano a un bisogno autentico, e in parte (ora è chiaro) perché esercitavano un potente fascino sui loro utilizzatori. In una società che gli esperti insistono a definire «di massa», l’idea di trasformare l’unico in molteplice stava diventando una vera e propria fissazione. Ma le prime copiatrici dell’èra pionieristica avevano, quale piú e quale meno, gravi e scoraggianti difetti: Autostat e Verifax, per esempio, erano scarsamente maneggevoli e producevano copie umide che andavano messe ad asciugare; la Thermo-Fax sfornava copie che tendevano a scurire se esposte a calore eccessivo; tutte e tre le macchine, poi, funzionavano soltanto con le carte speciali fornite dal fabbricante. Perché la fissazione si trasformasse in vera e propria mania occorreva dunque una rivoluzione tecnologica; e la rivoluzione arrivò al volgere del decennio grazie a una nuova macchina basata su un principio chiamato xerografia, che permetteva di ottenere senza troppa fatica copie asciutte, inalterabili, di buona qualità e su carta normale. L’eco della nuova scoperta fu immediata. Soprattutto per merito della xerografia, il numero di copie (non duplicati, ma copie) fatte ogni anno negli Stati Uniti sarebbe passato, secondo alcune stime, dai circa 20 milioni di metà anni Cinquanta a ben 9,5 miliardi nel 1964, raggiungendo poi, in soli due anni, i 14 miliardi – ai quali vanno aggiunti gli altri miliardi di copie prodotte in Europa, Asia e America Latina. Ma l’avvento della xerografia produsse altre e piú importanti trasformazioni: l’atteggiamento degli educatori nei confronti dei libri di testo cambiò visibilmente, come pure quello degli uomini d’affari nei confronti della comunicazione scritta; le avanguardie filosofiche inneggiarono alla xerografia come a una novità rivoluzionaria, simile per importanza all’invenzione della ruota; e le copiatrici a moneta si diffusero un po’ dappertutto, persino nei negozi di caramelle e nei saloni di bellezza. La mania – non improvvisa e dirompente come la febbre dei tulipani nell’Olanda del XVII secolo, ma forse destinata ad avere conseguenze molto piú ampie – imperversava ovunque.
Artefice di quella gran rivoluzione (da molti considerata il piú spettacolare successo aziendale degli anni Sessanta), nonché produttrice delle macchine che scodellavano la maggior parte di quei miliardi di copie era, ovviamente, la Xerox Corporation di Rochester, nello Stato di New York. Nel 1959, quando lanciò sul mercato la prima copiatrice xerografica automatica da ufficio, la società – che all’epoca si chiamava ancora Haloid Xerox Incorporated – fatturava 33 milioni di dollari. Nel 1961 i milioni erano già 66, e nel 1963 sarebbero diventati 167; nel 1966 si sarebbe superato il traguardo del mezzo miliardo. Come disse Joseph C. Wilson, amministratore delegato della società, il ritmo della crescita era tale che, se mantenuto per un paio di decenni (cosa fortunatamente impossibile, per il bene di tutti) il giro d’affari della Xerox avrebbe superato il prodotto interno lordo degli Stati Uniti. E se nel 1961 la Xerox non compariva nemmeno nella classifica di «Fortune» delle cinquecento maggiori società industriali statunitensi, tre anni dopo avrebbe occupato la duecentoventisettesima posizione, e nel 1967 la centoventiseiesima. La graduatoria di «Fortune» si basa sul fatturato annuo, ma se i criteri di classificazione fossero stati diversi la Xerox si sarebbe piazzata ancora meglio: all’inizio del 1966, per esempio, era la sessantatreesima azienda del Paese in base all’utile netto, probabilmente la nona in termini di rapporto tra utili e vendite, e la quindicesima o giú di lí in base al valore di mercato delle sue azioni. Da quest’ultimo punto di vista, la giovane azienda di Rochester sopravanzava alcune colonne portanti dell’industria americana come U.S. Steel, Chrysler, Procter & Gamble e Rca. Sospinte dall’entusiasmo degli investitori, le sue azioni erano diventate una sorta di Golconda dei mercati azionari anni Sessanta. Un titolo Xerox acquistato verso la fine del 1959 e tenuto in portafoglio fino ai primi mesi del 1967 avrebbe moltiplicato il suo valore di 66 volte rispetto al prezzo originale, e gli investitori tanto preveggenti da comprare azioni Haloid nel 1955 avrebbero visto il loro investimento rivalutarsi (quasi miracolosamente, verrebbe da dire) di ben 180 volte. E infatti ci fu, come era prevedibile, una nidiata di «milionari della Xerox»: svariate centinaia di fortunati, perlopiú residenti o originari della zona di Rochester.
La Haloid Company, fondata a Rochester nel 1906, era la nonna della Xerox, proprio come uno dei suoi fondatori – Joseph C. Wilson, ex gestore di un’agenzia di pegni ed ex sindaco di Rochester – era il nonno dell’omonimo capo della Xerox tra il 1946 e il 1968. La Haloid produceva carta fotografica e, come tutte le aziende del settore – soprattutto quelle situate a Rochester –, viveva all’ombra della sua gigantesca vicina, la Eastman Kodak. Ma anche da quell’oscurità aveva dato prova di sufficiente dinamismo, tanto da uscire relativamente indenne dalla Grande depressione. All’inizio del secondo dopoguerra, tuttavia, la concorrenza e l’aumento del costo del lavoro l’avevano spinta alla ricerca di nuovi prodotti. Tra le possibilità di sviluppo in cui si erano imbattuti i suoi ricercatori c’era un processo di copiatura al quale stava lavorando il Battelle Memorial Institute, un grande istituto di ricerca senza scopo di lucro che aveva sede a Columbus, nell’Ohio. Ma torniamo indietro nel tempo per qualche istante: 1938, quartiere di Astoria, nel Queens; un appartamento al primo piano, proprio sopra un bar. La cucina di quell’appartamento ospitava l’improvvisato laboratorio di un oscuro inventore trentaduenne, Chester F. Carlson: figlio di un barbiere di origine svedese, dopo la laurea in Fisica al California Institute of Technology aveva trovato lavoro a New York presso l’ufficio brevetti della P. R. Mallory & Co., un’azienda di Indianapolis che produceva componenti elettriche ed elettroniche; ma poiché era ansioso di conquistarsi fama, fortuna e indipendenza, dedicava il suo tempo libero all’invenzione di una nuova macchina copiatrice da ufficio. A dargli man forte nell’impresa c’era un tale Otto Kornei, fisico tedesco rifugiato negli Stati Uniti. Il risultato finale degli esperimenti fu un processo che permise ai due inventori, il 22 ottobre del 1938, di estrarre dal loro vasto e inadeguato armamentario non solo una considerevole quantità di fumi e cattivi odori, ma anche una copia su carta di un banalissimo messaggio che recitava: «10-22-38 Astoria». Il processo, che Carlson chiamò elettrofotografia, consisteva – e consiste tuttora – in cinque fasi fondamentali: la sensibilizzazione alla luce di una superficie fotoconduttiva caricata elettrostaticamente (ad esempio mediante strofinamento con una pelliccia); l’esposizione della superficie su una pagina scritta, in modo da ottenere un’immagine elettrostatica; l’aspersione della superficie elettrostatica con una polvere in grado di aderire soltanto alle parti caricate, consentendo di sviluppare un’immagine latente; il trasferimento dell’immagine su carta; il fissaggio a caldo dell’immagine. Ognuna di queste operazioni era abbastanza consueta in relazione ad altre tecnologie, ma la vera novità stava nel loro accostamento: talmente innovativo, in effetti, che i famosi re e condottieri del business furono lenti a riconoscere le potenzialità del processo. Tuttavia, forte dell’esperienza acquisita nel suo «vero» lavoro, Carlson non esitò a tessere intorno alla sua invenzione una complessa rete di brevetti, dopodiché cominciò a bussare a ogni porta (intanto Kornei si era trasferito altrove per motivi professionali, scomparendo per sempre dalla ribalta elettrofotografica). Per cinque anni, senza mai abbandonare l’impiego alla Mallory, Carlson si dedicò a un nuovo secondo lavoro: offrire i diritti per lo sfruttamento del processo a tutte le principali società americane nel settore delle macchine per ufficio. Dopo una lunga serie di dinieghi, nel 1944 riuscí finalmente a convincere il Battelle Memorial Institute a sviluppare ulteriormente il processo, cedendo in cambio i tre quarti delle royalty che avrebbe ricavato dalla sua vendita o dalla cessione dei diritti di utilizzo.
Fine del flashback; entri in scena la xerografia. Nel 1946 il lavoro del Battelle Institute sul progetto di Carlson attirò l’attenzione della Haloid, e in particolare del giovane Joseph C. Wilson, che stava per assumere la presidenza della società. Wilson ne parlò con un suo nuovo amico, Sol M. Linowitz, giovane e brillante avvocato con una forte coscienza sociale: appena smessa la divisa della marina militare, Linowitz progettava di aprire a Rochester una stazione radio di orientamento progressista che bilanciasse le posizioni conservatrici dei quotidiani del gruppo Gannett. Benché la Haloid avesse un proprio ufficio legale, Wilson chiese a Linowitz una consulenza una tantum sul progetto del Battelle Institute. «Siamo andati a Columbus a vederli sfregare della pelliccia di gatto su un pezzo di metallo», avrebbe poi raccontato Linowitz. A quel viaggio ne seguirono altri, e il risultato fu un accordo in base al quale la Haloid acquisiva i diritti sul procedimento inventato da Carlson in cambio del pagamento di royalty a Carlson e al Battelle Institute, e si impegnava a condividere con quest’ultimo i costi per la sperimentazione e lo sviluppo. Tutto ciò che venne dopo nasceva, in un certo senso, da quell’accordo. La ricerca di un nuovo nome per il procedimento di Carlson ebbe termine nel 1948, quando un funzionario del Battelle Institute andò a trovare un professore di Lingue classiche della Ohio State University: dall’unione di due parole in greco antico nacque il termine «xerografia», ovvero «scrittura a secco». Nel frattempo, le équipe di scienziati che al Battelle Institute e alla Haloid si erano messe all’opera per sviluppare il processo affrontavano una serie di inaspettati e sconcertanti problemi tecnici: dopo qualche tempo i dirigenti della Haloid si scoraggiarono, tanto da considerare l’ipotesi di vendere la maggior parte dei loro diritti sulla xerografia alla International Business Machines. Alla fine, però, l’accordo fu disdetto: la ricerca andò avanti e i costi lievitarono sempre piú, sicché poco alla volta la scommessa della Haloid divenne una questione di vita o di morte. Nel 1955 fu stilato un nuovo accordo in base al quale la Haloid acquisiva a pieno titolo i brevetti di Carlson e si sobbarcava i costi del piano di sviluppo, offrendo in pagamento al Battelle Institute un enorme pacchetto delle proprie azioni, alcune delle quali furono poi passate a Carlson. Intanto, i costi erano arrivati alle stelle. Tra il 1947 e il 1960 la Haloid spese nelle ricerche attinenti alla xerografia circa 75 milioni di dollari, ovvero il doppio dei suoi utili ordinari per lo stesso periodo; i fondi necessari furono raccolti in parte tramite prestiti, in parte con l’emissione di grandi quantità di azioni ordinarie, vendute a chiunque fosse abbastanza gentile, incosciente o preveggente da acquistarle. L’università di Rochester, desiderosa di sostenere l’industria locale, ne comperò un quantitativo enorme per il proprio fondo di dotazione: a causa di successivi frazionamenti del capitale sociale, il prezzo di acquisto risultò pari a 50 centesimi per azione. «Ma, per favore, non vi arrabbiate con noi se tra un paio d’anni ci troveremo costretti a venderle per arginare le perdite», disse a Wilson un timoroso funzionario dell’università. Wilson promise di non arrabbiarsi. Nel frattempo, lui e gli altri dirigenti della società ricevevano la maggior parte dello stipendio sotto forma di azioni, e alcuni arrivarono al punto di sostenere personalmente il progetto devolvendo risparmi o accendendo ipoteche sulle loro case. (Ai primi posti in questa gara di solidarietà c’era Linowitz, la cui collaborazione con la Haloid aveva finito per essere tutt’altro che una tantum: era diventato il braccio destro di Wilson, con competenze speciali in materia di accordi di brevetto e affiliazioni internazionali, e per un certo periodo aveva anche diretto il consiglio di amministrazione). Nel 1958, dopo opportuni scongiuri, la società cambiò nome e diventò Haloid Xerox, anche se all’epoca nessun prodotto xerografico di una qualche importanza era ancora stato immesso sul mercato. Il marchio commerciale «XeroX» era già stato acquisito dalla Haloid qualche anno prima, in sfacciata imitazione (come Wilson stesso aveva riconosciuto) del nome Kodak. La grande X finale fu ben presto degradata a minuscola quando si scoprí che comunque nessuno si prendeva la briga di scriverla in maiuscolo; ma il nome, quasi palindromo e non meno accattivante di quello inventato da George Eastman, fu mantenuto. «XeroX» o «Xerox» che fosse, il marchio fu adottato e difeso, come avrebbe poi raccontato Wilson, malgrado la veemente contrarietà di molti consulenti, preoccupati che il pubblico lo trovasse impronunciabile o lo associasse, chissà, a un antigelo per motori o al bisillabo piú sgradito nel mondo della finanza: zero.
Ma poi, nel 1960, arrivò il boom e tutto cambiò. Invece di paventare lo scarso gradimento del proprio marchio commerciale, ci si cominciò a preoccupare per l’eccessivo favore del pubblico: il nuovo verbo to xerox affiorava cosí frequentemente nella lingua scritta e parlata che l’azienda, temendo la violazione dei propri diritti patrimoniali, si imbarcò in una faticosa campagna per impedirne l’uso. (Nel 1961, poi, il nome Haloid venne definitivamente abbandonato e la società divenne semplicemente Xerox Corporation). E invece di angustiarsi per il proprio futuro e per quello dei loro familiari, i dirigenti della Xerox cominciarono a temere di aver perso la stima dei parenti e amici ai quali avevano prudentemente consigliato di non acquistare le azioni quando valevano 20 centesimi l’una. Di fatto, chiunque avesse in portafoglio un buon quantitativo di azioni Xerox era diventato ricco, o piú ricco: i dirigenti che avevano fatto economie e sacrifici, l’università di Rochester, il Battelle Memorial Institute, e perfino – chi l’avrebbe mai detto! – Chester F. Carlson, che dai vari accordi con la Xerox aveva ricavato un portafoglio di azioni del valore (a prezzi del 1968) di svariati milioni di dollari, tale da collocarlo secondo la rivista «Fortune» al sessantaseiesimo posto nella classifica degli uomini piú ricchi d’America.
Riassunta cosí, nelle sue linee essenziali, la storia della Xerox ha un sapore démodé, quasi ottocentesco: l’inventore solitario nel suo rozzo laboratorio, la piccola azienda a conduzione familiare, le prime avversità, la fiducia nel sistema dei brevetti, la scelta di un nome preso dal greco antico, il trionfo finale che glorifica il sistema della libera impresa. Ma c’è dell’altro nella vicenda della Xerox: in quanto esempio di senso di responsabilità verso la società civile nel suo complesso e non soltanto nei confronti dei propri azionisti, dipendenti e clienti, la Xerox si pone esattamente agli antipodi di molte aziende ottocentesche collocandosi, di fatto, all’avanguardia dell’imprenditoria del XX secolo. «Porsi traguardi ambiziosi, nutrire aspirazioni quasi irrealizzabili e convincere il pubblico che siano a portata di mano: per un’azienda sono cose importanti quanto il bilancio, o forse piú», diceva Wilson; mentre altri dirigenti della Xerox si sono piú volte prodigati a spiegare che il cosiddetto «spirito Xerox» non è semplicemente un mezzo per raggiungere uno scopo, bensí un modo di pensare che dà importanza ai valori umani in quanto tali. Questo genere di retorica da podio è tutt’altro che raro negli ambienti della grande industria, e il fatto che siano i dirigenti della Xerox a propinarla non ne modifica granché gli effetti, se non fosse che, data l’enorme fortuna dell’azienda, il consueto scetticismo è accompagnato da una certa irritazione. Ma la vera differenza sta nel fatto che la Xerox mantiene ciò che promette. Eccone le prove: nel 1965 la società ha donato a varie istituzioni educative e caritatevoli una somma pari a 1 632 548 dollari, saliti a 2 246 000 nel 1966; in entrambi gli anni i principali beneficiari sono stati l’università di Rochester e un apposito fondo della comunità locale, e in entrambi i casi le somme rappresentavano circa l’1,5 per cento dell’utile netto al lordo delle tasse. La percentuale è nettamente superiore a quella che molte grandi società destinano alla beneficenza: facendo un raffronto con due aziende spesso citate a esempio per la loro liberalità, risulta che nel 1965 la Rca abbia destinato a opere di bene lo 0,7 per cento dell’utile al lordo delle tasse, mentre le elargizioni della American Telephone & Telegraph sono rimaste ampiament...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Business Adventures
  3. Prefazione di Federico Rampini
  4. Business Adventures
  5. 1. Xerox Xerox Xerox Xerox
  6. 2. Il fiasco della Edsel. Favoletta con morale
  7. 3. Fluttuazioni. Il piccolo crollo del 1962
  8. 4. L’imposta federale sul reddito. Storia, vizi e virtú della tassa piú odiata
  9. 5. Un intervallo di tempo ragionevole. Insider trading alla Texas Gulf Sulphur
  10. 6. I filosofi aziendali. Incomunicabilità alla General Electric
  11. 7. L’ultimo corner. Un’azienda di nome Piggly Wiggly
  12. 8. Apologia della sterlina. Banche centrali, dollari e pound
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Copyright