La custode del silenzio
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La custode del silenzio

«Io, Antonella, eremita di città»

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La custode del silenzio

«Io, Antonella, eremita di città»

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Informazioni sul libro

Molti anni fa Antonella Lumini ha sentito un richiamo che l'ha spinta su una via già percorsa da tanti eremiti prima di lei. Vive a Firenze, dove lavora part time presso la Biblioteca Nazionale Centrale, ma appena rientra nel suo appartamento, chiude la porta e si apre al silenzio. Lontana dall'idea di rifiutare il mondo, questa donna dall'aspetto fragile, tanto riservata, quanto disponibile all'ascolto e all'accoglienza, dosa con disciplina la connessione a internet e l'uso del telefono. Le parole che pronuncia sono un balsamo per l'anima di chi va a trovarla, uomini e donne che cercano di dare un senso alla propria esistenza. Paolo Rodari l'ha incontrata e ha frequentato la sua pustinia, il suo deserto privato. Colpito dalla dimensione mistica di Antonella, ha deciso di narrarci la sua storia. «Caro Paolo, la mia è una consegna. Ti porterò dentro questo viaggio. Ora può essere raccontato».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858421291

1.

Pustinia.
Stamattina questa arcana parola è rimbalzata piú volte nella mia mente, mentre in treno partivo da Roma alla volta di Firenze. Sí, ho deciso: oggi entrerò in pustinia. E anche se mi sento pronto, anche se Antonella mi ha spiegato, sono un po’ ansioso.
Cosa mi dirà il silenzio?
Ho riletto gli appunti dei nostri dialoghi. È trascorso piú di un anno dalla prima volta che sono stato a casa sua, e non so spiegarmi perché solo dopo tanto tempo mi sia deciso a chiederle di poter varcare la porta della pustinia.
«Il silenzio parla, siamo noi che non sappiamo ascoltare», mi ha piú volte ripetuto, facendomi intuire che ognuno ha il suo momento, l’ora X in cui accetta di porsi in ascolto. Non serve forzare i tempi, piuttosto saper attendere.
Antonella abita in un antico palazzo nel centro di Firenze. Vicino all’entrata c’è la cucina, un ambiente piuttosto spazioso con una grande cappa di pietra sopra i fornelli, un tempo probabilmente alimentati a legna. Le nostre conversazioni le abbiamo fatte qui, seduti al tavolo di marmo bianco, davanti a una tisana preparata con erbe sempre diverse.
Anche oggi sediamo qui. Antonella è abituata a ricevere visite; però, trascorrendo molte ore in silenzio, ha bisogno di qualche minuto per ingranare nei ritmi della conversazione.
Le racconto del mio lavoro, della vita a Roma. Lei mi ascolta guardandomi con i suoi occhi scuri. E, come al solito, l’impressione è che loro, gli occhi, sappiano già ogni cosa prima che io parli. Sanno osservare, scrutare, paiono naturalmente capaci di cogliere tutto da pochi indizi.
Pian piano la tisana calda scioglie le parole. Le rende piú agili. Il tempo passa veloce senza che me ne renda conto.
– Si è fatto tardi, – mi dice Antonella. – Vogliamo andare in pustinia?
Dalla cucina imbocchiamo un ampio corridoio finestrato. Saliamo alcuni scalini ed entriamo in una stanzetta quadrata, illuminata da un lucernario incassato fra le travi.
Accostato alla parete di sinistra, sopra una stuoia, c’è un materasso. A destra una sedia e una piccola cassapanca di legno. In mezzo un tappeto e un panchetto. Sotto il lucernario, poggiato su un piccolo tavolo, un lumino davanti a una croce di legno, appesa al muro poco piú in alto. Di lato, su una mensola, un’icona della Madonna della tenerezza.
Antonella si sistema sul panchetto con le ginocchia che toccano terra.
– Mettiti dove vuoi, – mi dice. – C’è chi si siede per terra, chi su un cuscino o sulla sedia, chi sul materasso.
Scelgo la sedia. È un po’ scomoda, o forse sono io che non riesco a trovare la giusta posizione.
Accende il lumino, quindi si alza. Esce, ha dimenticato qualcosa. Dopo pochi istanti ritorna con una piccola campana tibetana fra le mani. La posa davanti al panchetto.
– Ha un suono molto vibrante, – mi spiega. – La uso per scandire i tempi. Tre colpi leggeri prima d’iniziare, altri tre alla fine, per indicare che il tempo del silenzio è terminato.
Si toglie le scarpe e prende di nuovo posto. Poi mi spiega alcune cose.
– Mettiti a tuo agio, Paolo. Non essere rigido. È importante che il corpo stia comodo. Siamo qui per vivere un momento di abbandono.
– Abbandono? Dobbiamo abbandonarci a chi, a che cosa?
– Allo Spirito Santo creatore che ci pervade, al suo abbraccio che ci contiene. È come un grembo materno che ci accoglie. Qui devi portare tutto te stesso. I tuoi pesi, le tue sofferenze, la tua vita, le gioie, i dolori. I rapporti a cui tieni, le persone che ami. La tua parte consapevole, ma anche quella inconscia. La luce dello Spirito tutto vede, penetra, rigenera. Anche le ferite profonde, quelle che nascondiamo perfino a noi stessi. Se vuoi puoi nominare qualcuno o parlare di certe situazioni in modo esplicito, oppure solo evocarle nel cuore dove rimangono custodite, perché il cuore è il luogo della memoria. Puoi non dire nulla, restare qui, in questa presenza amorosa.
A essere sincero mi aspettavo di ricevere delle indicazioni precise su come sedere, su come respirare. Invece no. Ciò mi rende un po’ ansioso, come accade a chi non sa che cosa lo aspetta. Forse Antonella lo intuisce, e riprende il suo discorso per tranquillizzarmi.
– C’è chi ha difficoltà a esprimersi e impara ad ascoltarsi interiormente. C’è chi sente subito il bisogno di parlare. C’è chi all’inizio non riesce a dire nulla poi, piano piano, si apre. Le reazioni sono diverse, l’importante è percepire che il silenzio è abitato dallo Spirito Santo, che avvolge, scava, risveglia la nostra scintilla interiore.
Ascolto con attenzione, quasi assorto. Lí per lí non so che dire, di ferite ne ho, ma le sento confuse.
Antonella è sempre in ginocchio. Sento la sua presenza ferma. Lentamente inizia il canto d’invocazione allo Spirito; mi invita a ripeterlo insieme a lei, ma non me la sento. Chiude gli occhi, la testa appena reclinata su di un lato.
Ruah Elohim, Ruah Elohim...
«Spirito di Dio» in lingua ebraica. Ripete quelle parole piú volte. Vibrano nella stanza come un mantra, e vibrando penetrano nel corpo e nell’anima. La voce passa da toni bassi a toni piú acuti toccando ciò che trova chiuso, aprendo, dilatando. Poi diviene cristallina come il suono di una corda ben tesa che si diffonde per lunghi istanti. Sembra stia chiamando qualcuno o qualcosa che abita lontano.
Il canto sfuma, lentamente muore.
Antonella riapre gli occhi, ed ecco il suono della campana tibetana. Il primo colpo, il secondo, il terzo.
Rimango immobile, ma sono contratto, non riesco ad abbandonarmi. È come se fossi legato. Avverto una pesantezza nel corpo, l’accavallarsi di pensieri nella mente. Non sono abituato a momenti di silenzio cosí lunghi e intensi. Mi pervade una specie d’irrequietezza, un disagio tra me e me. Vorrei uscire, respirare aria fresca.
Pian piano mi quieto. Percepisco il mio respiro, il cuore che batte. La vita fluisce in me, mi commuovo. Dopo un po’ affiora un’immagine lontana. Risale dal profondo il mio volto di bambino, scorgo negli occhi innocenti il sogno che fin da piccolo porto nel cuore. È ancora vivo e comprendo che non ci ho mai fatto seriamente i conti. È rimasto lí, sullo sfondo, non gli ho dato l’importanza che forse meritava. È strano che si ripresenti proprio qui. In pustinia si fa strada con forza. L’immagine è davanti a me. Anzi no, non davanti: l’immagine sono io, è il volto piú segreto di me stesso. Intanto il silenzio si srotola fra i miei pensieri. È come se il tempo non fosse piú, non scorresse.
D’un tratto ecco di nuovo il suono della campana. Vibra lentamente. Una, due, tre volte.
Antonella riapre gli occhi, solleva la testa.
Un forte bisogno di parlare mi spinge a raccontare il mio sogno. Riesco a dargli voce, a nominarlo liberandolo un po’ dalla nebbia che lo avvolgeva, ma sono solo poche parole. Non so decifrare bene le emozioni, le sensazioni, non aggiungo altro. Mi zittisco subito.
Antonella mi guarda e bisbiglia: – Bisogna fidarsi delle intuizioni che sgorgano dal silenzio. Lo Spirito parla nel cuore quando le voci esteriori si quietano.
Rimaniamo in silenzio ancora per alcuni minuti, poi lei mi porge il Vangelo e mi invita ad aprirlo. – Adesso, se vuoi, puoi leggere il brano che ti cade sotto gli occhi. Il silenzio parla attraverso la Scrittura. Vediamo cosa ha da dirti.
Sfoglio qualche pagina fino a che il mio sguardo si ferma sul Vangelo di Marco, capitolo XIII, versetti 28 e 29.
«Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; cosí anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte».
Subito penso che l’estate è vicina. Che il mio sogno sta prendendo corpo. Non è piú un’immagine evanescente, l’ho nominato, ha trovato posto nella mia coscienza. Sta maturando in me l’anelito custodito nell’anima.
Ci raccogliamo di nuovo. Anche se non riesco ad abbandonarmi del tutto, restare lí, in quel luogo, mi aiuta a entrare in contatto con me stesso. Penso con gioia che l’estate è alle porte. Una dolce speranza si fa spazio dentro di me, comincio a credere con fiducia che il mio sogno diventerà presto realtà. Avrei altre cose da far emergere. Le sento muoversi, agitarsi. Come se questi lunghi minuti di silenzio avessero fatto saltare un tappo. Avverto una massa oscura che vorrebbe uscire per farsi conoscere, ma mi placo, per oggi può bastare.
Non penso piú a nulla. Sento la pace dentro di me.
Antonella ringrazia e mi invita a recitare il Padre Nostro.
Con calma, ci alziamo e usciamo.
È tardi, devo correre alla stazione. La saluto. Scendo in fretta le scale. Dopo pochi passi sono in piazza Santo Spirito. La attraverso passando fra i banchetti dei contadini. La basilica mi guarda silenziosa e rassicurante con la sua nuda facciata color latte.

2.

Il giorno che conobbi Antonella a colpirmi fu il volto. Emetteva luce. Tanto che sul momento i suoi lunghi capelli grigi, raccolti sulla testa, mi sembrarono fuori posto, come dissonanti rispetto a un viso cosí luminoso. Fino a quel momento avevamo comunicato solo per telefono, eppure il suo sguardo mi fece sentire subito uno di casa.
Ricordai che avevo già provato una sensazione simile.
Parecchi anni fa mi capitò di essere ospitato per due giorni nella foresteria di un monastero di monache di clausura. Anche con loro, prima del mio arrivo, avevo avuto soltanto contatti telefonici, molti dei quali neppure andati a buon fine; avevo chiamato in orari sbagliati, quando le monache pregavano o si dedicavano al silenzio, e non avevo potuto fare altro che lasciare dei messaggi in segreteria.
Mi presentai una sera d’inverno. La madre superiora aveva dato disposizione di aspettarmi. Afferrai il grosso campanaccio appeso al portone esterno e tirai. Il rintocco mi tramortí, ed ebbi paura d’aver svegliato tutti. Ero cosí imbarazzato che stavo per andarmene, ma subito sentii girare la chiave e due monache, una piú anziana, l’altra giovane, mi accolsero con un sorriso sereno e luminoso che quasi m’abbagliò.
– Ben arrivato, Paolo, – mi dissero con grande cordialità.
– Mi spiace per l’ora, – risposi un po’ impacciato.
– Non preoccuparti, – continuarono dandomi del tu. – Sapevamo che saresti arrivato tardi. Non c’è nessun problema.
Non so motivare bene quanto sto per dire, ma ebbi l’immediata sensazione di essere a casa, appunto, in un luogo dove era normale che io fossi atteso, e che le persone che mi aspettavano sapessero tutto di me, quasi dietro i loro sorrisi ci fosse una comprensione totale della mia persona.
Il giorno successivo ebbi l’occasione d’incontrare altre sorelle nei parlatori, piccole stanze divise in due da una grata di ferro. Io da una parte, loro dall’altra. La situazione era cosí strana che una volta uscito faticavo a ricordare i discorsi. In compenso mi si erano scolpiti nella mente i volti, la luce che emettevano, la pace che emanavano da dietro la barriera che ci separava.
– È normale, – mi disse una delle monache quando le raccontai quell’impressione, – siamo tutto il giorno a contatto con Dio, perciò ne riflettiamo la luce. È una cosa che notano molti di quelli che vengono a trovarci.
La risposta mi colpí, e in seguito pensai che, forse, il velo col quale le claustrali coprono i capelli non è solo segno di rinuncia o di sottomissione, serve anche a far risaltare il viso, perché tutti possano coglierne la luminosità.
Arrivai da Antonella che era mattina presto.
Il motivo per il quale le avevo chiesto di incontrarla era un’inchiesta sui nuovi eremiti che dovevo realizzare per il mio giornale. Mi ero preparato leggendo alcuni articoli sulle persone che scelgono di ritirarsi non piú, come accadeva un tempo, in grotte inaccessibili o fra sperdute montagne, ma in appartamenti anonimi, magari in soffitte nascoste, nel cuore delle nostre città. Era stata un’amica a suggerirmi il suo nome. Mi aveva detto che era un’eremita sui generis, che viveva in solitudine nella sua casa nel centro di Firenze e che per mantenersi lavorava part time alla Biblioteca Nazionale, dove si occupava di libri antichi, soprattutto di Bibbie.
Fu proprio durante il primo incontro che Antonella mi parlò della pustinia, una forma eremitica tipica della tradizione ortodossa che lei stessa aveva scoperto grazie alla lettura di un libro, Pustinia: le comunità del deserto oggi, di Catherine de Hueck Doherty, uscito in Italia alla fine degli anni Settanta. Subito aveva sentito una forte sintonia con quell’esperienza, che corrispondeva, in parte, a ciò che lei stava vivendo.
– Cosa significa esattamente la parola pustinia? – le domandai.
– Nella lingua russa vuol dire deserto. Ma per un russo indica molto piú che un semplice luogo geografico. Designa un posto solitario e tranquillo in cui si può entrare per trovare il silenzio. Un luogo esteriore che aiuta a discendere nel silenzio interiore. I pustinikki, nella Russia dei secoli passati, erano uomini e donne che lasciavano tutto per ritirarsi in luoghi solitari, «nel loro cuore bruciavano dal desiderio di essere soli con Dio e il suo immenso silenzio»1. Questo irresistibile richiamo comporta la rinuncia a sé stessi. Silenzio e solitudine spogliano, per questo entrare nel deserto, nella pustinia, apre all’ascolto di Dio. Ma in Russia era molto frequente trovare anche nelle case un angolo nascosto da una tenda, da un paravento, in cui, seppure in famiglia, ci si poteva ritirare per restare da soli. Sarebbe una cosa molto utile anche da noi, per permettere alle persone di staccare dalle tensioni e dal continuo bombardamento mediatico che incombe.
Il particolare della tenda mi colpí. Pensai subito dove avrei potuto creare quell’angolo a casa mia.
Catherine Doherty fu una grande scoperta anche per me. La sua storia, il suo messaggio facevano proprio al caso mio. Fuggí dalla Russia al tempo della rivoluzio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La custode del silenzio
  3. 1.
  4. 2.
  5. 3.
  6. 4.
  7. 5.
  8. 6.
  9. 7.
  10. 8.
  11. 9.
  12. 10.
  13. 11.
  14. 12.
  15. 13.
  16. 14.
  17. 15.
  18. 16.
  19. 17.
  20. 18.
  21. 19.
  22. Post Scriptum
  23. Il libro
  24. L’autore
  25. Copyright