La nobile arte del bluff
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La nobile arte del bluff

  1. 208 pagine
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La nobile arte del bluff

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Informazioni sul libro

Colson Whitehead gioca a carte da sempre. Piccole poste tra amici, perlopiú scrittori con cui vince facilmente grazie alla sua «faccia da poker». Quando «Grantland», una rivista sportiva, si offre di pagargli l'iscrizione alle World Series di Texas Hold'em di Las Vegas, capisce però che deve fare sul serio. Cosí si sottopone a un duro allenamento per resistere ai sette giorni di torneo che lo aspettano, alla tensione e ai buffet dei casinò. La nobile arte del bluff è il racconto della sua immersione in un mondo che finora abbiamo conosciuto solo tramite la Tv. E una riflessione, tanto caustica quanto divertente, sull'America di oggi, la depressione e il peso dei nostri fallimenti. «Stupefacente...acuto...Tom Wolfe incrociato con Thomas Pynchon».
The Washington Post «Un guida letteraria al bizzarro mondo dei tornei di poker».
The Wall Street Journal «Raccontando il cupo scintillio dei casinò e il gioco d'azzardo, Colson Whitehead riesce a essere divertente e tragico, un perdente di gran classe».
The New Yorker

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858423295

Il fattore M

Continuo a nominare il jerky. In quel primo viaggio a Vegas, nel ’91, capitammo in un Paese delle meraviglie.
Era un posto sudicio in Freemont Street, subito dopo il Four Queens e il Binion’s, incastrato in un’eruzione di negozi di souvenir. The House of Jerky. Conoscevo gli Slim Jim, bastoncini speziati fatti di un impasto di orecchie e grugni. Ma questa era tutta un’altra cosa. Strabuzzammo gli occhi in gioioso sconcerto davanti alle file di confezioni di plastica trasparente piene di pezzi scuri di carne magra, stagionata e affumicata. Minuscole bustine di essiccante in fondo per mantenerla croccante. Il jerky mi ricordava gli antichi boschetti di Anedonia, o meglio, la corteccia, da staccare e mangiare nei periodi di siccità e nelle feste principali. Avanzammo lungo le corsie. I gusti erano i soliti, d’accordo. Pepe, teriyaki, barbecue. Ma quell’arca di Noè di proteine aveva del miracoloso: manzo, salmone dell’Alaska, bufalo, tacchino, coccodrillo, cervo, struzzo.
Il proprietario era un asiatico di mezz’età di nome Dexter Choi. Incredibile che la peculiare visione di quell’uomo potesse generare una tale abbondanza! Era l’America, quella esposta di fronte a noi, dondolante da barre di metallo piantate in tavole di truciolato malconcio. Con tanto di ampi spazi aperti, perché il negozio aveva scorte modeste. Frutta secca. Noci e noccioline di vario genere. Ma soprattutto jerky.
Il signor Choi non si lasciò commuovere dai nostri «cazzarola» e «porca vacca». Trovavamo The House of Jerky kitsch, ma quel giorno restammo dentro il sogno da deserto di quell’uomo. Sapevi che doveva essersi levato un coro di gufi quando aveva esposto il suo piano. «Lascia perdere il jerky, Dexter, studia per l’esame da elettricista», «Sí, d’accordo, il jerky è uno snack con poche calorie e alto contenuto di sodio, Dexter, ma quand’è che la smetti di stare con la testa fra le nuvole?» «Guarda queste labbra, Dexter… la tua carne essiccata ti bacerà mai come ti bacio io?»
Dexter tenne duro. Costruire una House of Jerky equivale a un trionfo sulle probabilità avverse, erigere un monumento pieno di nitrati alla possibilità e alla perseveranza individuale. Dexter Choi era un fuorilegge. Aveva affrontato il fato e scoperto il suo full.
Magari quanto a numero di passanti le cose avrebbero potuto andare meglio, ma non potei evitare di commuovermi. Da quel giorno il jerky di manzo è diventato sinonimo di libertà e saporiti spezzafame fra un pasto e l’altro. Comprammo un po’ di buste di quella dolce corteccia per quando avremmo attraversato la Death Valley e ci rimettemmo in viaggio.
Come potevo immaginare che lo spuntino da cowboy sarebbe diventato il simbolo del poker industriale, anzi della commercializzazione di tutta Las Vegas? Adesso il jerky di manzo è la faccia coriacea e massificata del poker moderno. Gli snack di carne producono un fatturato da 1,4 miliardi di dollari l’anno, e la Jack Link’s è uno dei principali operatori del settore. Fondata nell’ultimo ventennio del XIX secolo da un immigrato, Chris Link, che forniva carni affumicate e salsicce ai pionieri del Wisconsin, la Jack Link’s è ormai l’azienda del comparto con la crescita piú rapida in tutto il mondo, con cento prodotti diversi venduti in quaranta Paesi. «È trascorso piú di un secolo, – dichiarava la sezione La nostra storia sul sito aziendale, – ma le tradizioni e i principî della famiglia Link rimangono gli stessi: lavoro, onestà e l’impegno a guadagnarsi il rispetto del consumatore offrendogli gli snack di carne piú buoni al mondo».
E io infatti li rispettavo. Dal 2008 l’azienda era uno degli sponsor ufficiali del Main Event, la cui denominazione è: «Le World Series of Poker presentate dal jerky di manzo Jack Link’s». In effetti, da quando avevo messo piede al Rio me ne andavo in giro in una grande busta di plastica. Questo spiegava la cronica sensazione di soffocamento.
Il logo rosso e nero dell’azienda punteggiava lo studio della Espn nella sala Amazon e risaltava sull’abbigliamento dei giocatori sponsorizzati come un marchio sul bestiame. La serie di pubblicità televisive della Jack Link’s «Messin’ with Sasquatch» – un pilastro all’interno dei programmi dedicati al poker – aveva come protagonista Sasquatch, umiliato da giocatori di golf, campeggiatori e membri di associazioni studentesche, che alla fine si arrabbia e gli pianta un Piedone su per il culo. Il significato latente? Malgrado la morte della frontiera e l’opprimente monotonia della vita moderna, il Selvaggio cammina ancora fra noi. Lui, perché Betty White non era disponibile.
Guarda qualsiasi servizio sul poker della Espn e vi troverai «Jack Link’s Beef Jerky Wild Card Hand», in cui il conduttore, Norman Chad, cerca di divinare la composizione di una mano attraverso i betting patterns. La telecamera che riprende le carte personali è stata un’innovazione cruciale per il boom populista del poker, perché ha consentito ai telespettatori di vedere che cosa hanno in mano i giocatori. Prima di lacerare questo velo, guardare il poker in Tv era come assistere a una partita di baseball con una palla invisibile, ovvero ancora piú noioso di una partita normale. La telecamera sulle carte personali permetteva commenti simultanei, proprio come negli sport veri! I tifosi partecipavano allo spettacolo anticipando le mosse, mettendo in competizione i loro calcoli e le scelte dei pro. Imparavano. Miglioravano. Cominciarono a giocare agli eventi che prima guardavano soltanto in Tv.
Il poker divenne un teatrino da milioni di dollari, il che spiega il passaggio dalla coppa d’argento cesellato di Johnny Moss ai braccialetti incrostati di diamanti. E io ero coinvolto in questo grande business. «Grantland», la rivista che mi aveva inviato, era di proprietà della Espn. La Espn era di proprietà della Disney. Ecco perché avevano avuto problemi a trovare il mio assegno. Fluttuava nell’ufficio contabilità del Caesars, che era di proprietà dell’Harrah’s, proprietario delle Wsop. Al banco della registrazione avevo piú volte nominato la Espn e «Grantland» come miei benefattori, quando invece l’assegno era stato emesso dalla Disney. Eravamo tutti un po’ confusi.
La gente mi chiedeva se avrei potuto tenermi i soldi incassati se fossi andato a premio alle Wsop. Sí, mi era stato detto esplicitamente. Non ero pagato per l’articolo, il mio compenso era la quota di ingresso che pagavano per me. Mercanteggiare sull’eventuale vincita con un modesto free lance? Per la casa madre erano noccioline. Scrivevo per un’entità di proprietà di un’azienda che faceva milioni su milioni con la diretta delle Wsop. In un certo senso, le mie parole erano pubblicità. Avrebbero aumentato la consapevolezza del gioco. Ispirato qualche ragazzino disadattato a darsi al poker. Diffuso il vangelo in lungo e in largo. Chissà, magari un giorno una tappa del circuito si sarebbe svolta ad Anedonia. Sulla costa orientale, una frequentata località di vacanza spesso priva di cadaveri.
«Grantland». Espn. Disney. Tutto in famiglia.
Il banco vince sempre.
Che figo essere al Rio, sedermi nello studio della Espn dopo aver guardato tutto quel poker in Tv, anni a ingrossare le fila del pubblico da casa. Ero un tifoso. Ecco perché ero lí. Quando tornai nello studio, il giorno 5…
Aspetta, si sta gingillando sugli spalti il giorno 5? Non dovrebbe giocare? Spoiler: non vinsi il Main Event. Come dici, avevi qualche sospetto? Tanto per cominciare, il sottotitolo di questo libro sarebbe: La stupefacente e vivificante storia di un imbecille qualunque che vinse le World Series of Poker! E poi, ti pare che un bastardo che ha vinto un maledetto milione di dollari parlerebbe cosí? Ti verrebbe da pensare che forse aggiungerei qualche aggettivo piú brioso. Se avessi vinto, magari non leggeresti questo libro proprio adesso. Voglio dire che l’avrei scritto comunque – imperativo artistico e balle varie – ma non cosí presto. No, me ne starei ancora ai Caraibi a veleggiare sul mio yacht con una squadra di figone disperate. Le Perdute, quelle scartate da Hip Hop Honeys al primo turno. Okay, hanno l’aria provocante con quelle salopette scialbe e della misura sbagliata, ma i talent scout non le calcolano per via di quel loro sorriso inquietante e dello sguardo lontano. La compagnia che piace a me, insomma. Ci rilassiamo sul futon a poppa, tiriamo su i marlin, agitiamo il miscelatore per cocktail per preparare la piña colada. Lo skipper è mezzo sbronzo, ma chissenefrega, il libro lo scrivo quando torno a casa.
Tuttavia, per quelli che vogliono aggrapparsi a una speranza, diciamo che stavo guardando il giorno 5 di una non meglio precisata edizione delle Wsop, non necessariamente quella del 2011 (anche se era proprio cosí).
Il giorno 5 la sala della Tv, l’Amazon, era l’unica aperta. Il Main Event si era ridotto a trecentosettantotto giocatori, per cui avevano già cominciato a sbaraccare. La triste atmosfera da fine-partita delle convention di tutto il mondo. Lo schermo che dall’atrio circolare aveva fornito dati 24/7 era stato portato via, i festoni erano mezzi strappati, le gigantografie delle leggende del gioco già arrotolate per l’anno seguente. La Pavilion era chiusa. Sbirciai all’interno: nella vasta sala vuota alcuni addetti impilavano le sedie e le caricavano su piattaforme. Niente piú legioni di potenziali eroi con fantasie sporcaccione di gloria pokeristica. O giocavi nella sala Amazon, oppure eri stato eliminato.
Dato il numero di combattenti, il tavolo per la diretta era un distillato di bravura. Come Allen Cunningham, che aveva vinto il braccialetto cinque volte e mi aveva fulminato per giorni dalla gigantografia sulla parete dell’atrio circolare. Di persona, un po’ intorpidito. Insignificante in camicia a quadrettini bianchi e bottoni sul colletto. Si spartiva i primi piani con Jean-Robert Bellande e Daniel Negreanu, che con la loro fama di pokeristi televisivi si erano intrufolati in altri reality show, Survivor e Millionaire Matchmaker rispettivamente. Erano piú che star del poker, erano star televisive, e sapevano stare di fronte alle telecamere. Bellande si appropinquò al tavolo per la diretta, tutto impomatato, trascinandosi dietro un tizio scheletrito con un completo nero. – Tutto a posto? – Sta per iniziare lo spettacolo, signor Bellande. Chiese di contare le chips – come siamo messi tutti prima che inizi il prossimo livello? – e si mise in posa per una foto con un fan.
Il pubblico parlottava. Mi fai un autografo, Kid Poker? Negli ultimi giorni avevo visto un radioso Negreanu dispensare perle di saggezza ai giornalisti mentre controllavano i blog, ridacchiare durante un massaggio al tavolo, le meche bionde scintillanti. Rilassato, vispo. Tutto questo l’aveva già vissuto, il demonietto. Fra una mano e l’altra lui e Bellande risero per un qualche incidente su Twitter e criticarono la scocciatura delle regole del torneo. Le podestà superiori erano sempre lí a istituire nuovi protocolli per contenere la corsa agli armamenti di chi può mettersi l’abbigliamento piú sponsorizzato a favore delle telecamere e per gestire la comunicazione ai tavoli. Negreanu era affabile, scherzava con concorrenti e fan, ma aveva cominciato la giornata con metà dello stack medio ed era sceso a venti bui. Poi arrivò a quindici…
Quando cominciò il livello successivo – bui da 6000 e 12 000, ante da 2000 – io ero talmente in palla che nella testa sentivo la voce del commentatore Tv, che sommergeva quello dal vivo. Quando lo guardai alla Tv, mesi dopo, la Espn aveva intitolato l’episodio Kid Poker: ultimo atto, con sottofondo di chitarra heavy metal per enfatizzare.
«Giocatore dell’anno! [power chord!] Milioni vinti ai tornei! [power chord!] Celebrità e gloria! [Kid Poker solleva mazzette di banconote] Daniel Negreanu ha vinto tutto nel poker tranne l’obiettivo piú grande e piú tosto: il Main Event! [Kid Poker si allontana a grandi passi dopo una mano fallita] Stasera o la va o la spacca per Kid Poker e il suo stack calante. Continuerà a scalare le piú alte vette del poker o ancora una volta non sarà all’altezza?»
Dal vivo, la fine del suo Main Event fu meno drammatica. Piú umile e a misura d’uomo. L’area riservata agli spettatori conteneva solo un paio di file di poltrone, ma le luci cobalto scuro le davano una falsa profondità in Tv. A contendersi i posti, gli amici dei giocatori dilettanti dalle alte performance approdati al tavolo per la diretta e i fan dei pezzi grossi. Alcuni erano già piazzati. L’azione al tavolo era trasmessa in streaming con una differita di trenta minuti. Il che significava che ogni spettatore sapeva che cosa i giocatori avevano in mano allo showdown un paio di mani prima. E potevano informare i loro amichetti. Mi spiace dirtelo, ma quella stava bluffando con 5-10 di seme diverso. Che razza di range ha spinto quello svedese alto ad andare all-in? I tuoi compari riferiscono informazioni via Sms o fanno cenno di avvicinarti per un rapido consulto sulla tattica, per aiutarti a correggere la rotta. «Bello, ti è entrato nella testa trentuno minuti fa». La telecamera che riprende le carte personali colpisce ancora.
Quando gli fu servita una coppia di dieci, Negreanu non ebbe scelta e andò all-in. Tutti buttarono le carte nel mucchio tranne Rupert Elder, un pro britannico, che scoprí le sue: A-7. Elder tenne la bocca chiusa, forse perché stava soffocando con quel maglione bianco a trecce.
Negreanu saltò dalla sedia, lanciando fendenti all’aria. – Ci serve un dieci e siamo a posto! – Girò su sé stesso. – Voglio proprio vincere questa mano! Sí! – Non sapevo se si rivolgesse ai suoi sostenitori che facevano il tifo a gran voce, ai telespettatori o a sé stesso. Forse era una danza per gli dèi del poker, mentre Maud of the Magic River teneva d’occhio i pescatori di frodo. Era stato bravo o cattivo?
Il flop fu 9-5-3… di nessun aiuto. – ’Ste World Series fanno schifo! Ogni volta che sono due a uno, perdo!
Elder non disse nulla. Negreanu rimaneva il favorito. Se uno degli dèi del poker era fra noi, era Tim Old Spice, impegnato a tenere fresco Elder. Che non batté ciglio.
Il turn gli diede una coppia di assi. Non era piú due a uno.
– Deve beccare un dieci, – disse il commentatore, – altrimenti sarà eliminato.
– Un dieci, – implorò Negreanu.
River: non era un dieci. Kid Poker era fuori.
Bellande scosse la testa.
– Che ne dite di un grande applauso per Daniel Negreanu! – Kid Poker diede a Elder una pacca sulla spalla. – Buona fortuna, fratello, – gli disse, e si consegnò a una breve intervista di Kara Scott prima di uscire. Poi scomparve.
Sicché le uniche vecchie glorie rimaste al tavolo erano Cunningham e Bellande. Che uscí il giorno dopo piazzandosi settantottesimo. Presto Cunningham lo seguí, finendo sessantanovesimo. Si erano fatti un po’ di soldi. Tanto agosto torna presto ed è subito un altro torneo.
Yosemite Sam e la sua posse erano stati deposti da giovani assi come Kid Poker, e adesso Kid Poker doveva scrollarsi dalla giacca giocatori ancora piú giovani. Con oltre dieci milioni di vincite al poker, era un bel po’ po’ di giacca, ma erano anche un bel po’ po’ di ragazzini. Al tavolo finale del 2011 i concorrenti avevano fra i venti e i venticinque anni, tranne Badih Bounhara, un dilettante quarantanovenne che era riuscito a saltare sulla scialuppa. A vincere fu Pius Heinz, un tedesco di ventidue anni che aveva cominciato on-line e si era avvicinato al gioco guardando le inquadrature delle carte personali dei Main Events in televisione. L’ultima in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La nobile arte del bluff
  3. La Repubblica di Anedonia
  4. Making the Nature Scene
  5. Le chips sono lerce
  6. Disgraziati come me
  7. E adesso chi glielo dice a Cujo?
  8. Ogni ante è un’anima
  9. Il fattore M
  10. Nota
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright