Storia moderna e contemporanea. III. L'Ottocento
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Storia moderna e contemporanea. III. L'Ottocento

  1. 400 pagine
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Storia moderna e contemporanea. III. L'Ottocento

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Il trionfo dell'Europa borghese, il completamento della rete di drenaggio al tutte le risorse della terra, che ormai sono attirate da un solo centro: l'Europa occidentale, e particolarmente Londra. Sorretta da questo enorme afflusso di ricchezza, la società e la politica europee cercano, nell'ordine, la strada di un progressivo allargamento, di una prudente apertura ai ceti popolari, paternalisticamente sorvegliata. Non ci riusciranno.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858421895
Argomento
Storia

Capitolo sesto

Modernizzazioni in periferia e nuovo colonialismo

Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta dell’Ottocento l’economia mondiale conobbe una stagione di grande prosperità. Il centro del mondo era allora l’Inghilterra. Ma anche la Francia, il Belgio, l’Olanda, l’Austria, la Svizzera, i paesi scandinavi avevano già realizzato tutte le premesse indispensabili, sul piano politico e sociale, per affrontare da una posizione di forza i decenni a venire. C’era in quei paesi una florida borghesia, un libero mercato del lavoro, uno Stato moderno, una forma costituzionale che garantiva piú o meno la libertà politica, e in ogni caso quella economica.
L’Italia e la Germania seppero cogliere in quel quarto di secolo l’occasione per costruire la loro unità nazionale, al riparo dalle piú gravi tensioni sociali che la recessione avrebbe comportato negli anni successivi. Uno di questi due paesi, la Germania, divenne anche una grande potenza. L’altro, l’Italia, riuscí almeno a rimanere agganciata al treno dello sviluppo.
Altri tre paesi: gli Stati Uniti, la Russia e il Giappone, riuscirono nello stesso periodo ad affrontare i loro maggiori problemi strutturali. Per gli Stati Uniti e la Russia il problema principale era la liberazione del mercato del lavoro, tuttora vincolato rispettivamente dalla schiavitú e dalla servitú della gleba. Per gli Stati Uniti c’era anche, irrisolta, la questione della compiuta unità nazionale. La Russia e il Giappone dovevano modernizzare i loro rapporti sociali, di natura ancora feudale. Quanto al Giappone, la stessa forma dello Stato moderno e centralizzato era ancora da costruire, cosí come le strutture industriali e militari in grado di competere a livello internazionale. Gli Stati Uniti e il Giappone riuscirono comunque ad entrare nel club delle grandi potenze, la Russia riuscí a non uscirne.
Gli altri paesi persero invece l’occasione fornita da quel ventennio di congiuntura altamente positiva e accumularono un ritardo che divenne poi difficilissimo da colmare. I paesi maggiori dell’America Latina, fra i quali soprattutto il Brasile, sembrarono affacciarsi ad una modernizzazione comunque fragile e tardiva, e incapace di tener testa alle grandi potenze industriali. Il loro tentativo nel complesso fallí: essi non riuscirono a trasformare nel profondo i propri antiquati rapporti sociali. I due giganti asiatici, l’India e la Cina, sprofondarono invece del tutto nella colonizzazione e subirono una vera e propria devastazione sociale, culturale e morale.
In sostanza il mondo si polarizzò, come mai era successo prima di allora, fra un piccolo nucleo di potenze «imperialiste» e un vasto numero di paesi che persero l’appuntamento con la modernizzazione e piombarono in una situazione di dipendenza. La geopolitica dello sviluppo e del sottosviluppo, che avrebbe caratterizzato il secolo XX, si disegnò in quei venti o trent’anni.
1. L’esempio contagioso del nazionalismo europeo.
A cominciare dal continente europeo, nell’Ottocento i popoli si stavano trasformando in nazioni, e le nazioni in stati. Volendo prendere lo stesso problema da un altro punto di vista, gli stati si sforzavano di darsi una veste «nazionale», per giustificare lo sforzo di mobilitazione e il coinvolgimento delle masse popolari nella creazione di una potenza moderna. Il problema dello Stato moderno e della nazione è un po’ come quello dell’uovo e della gallina. Tuttavia oggi si ritiene per lo piú che siano state le istituzioni politiche centralizzate a trasformare i popoli in nazioni, ad imprimere loro un bisogno di appartenenza nazionale.
In ogni caso la «nazionalizzazione delle masse», l’idea dello Stato-nazione si sarebbero diffuse molto rapidamente a gran parte dei paesi del mondo, facendo del nazionalismo una delle forze piú vitali, contagiose e prepotenti del mondo contemporaneo. Il problema dell’imperialismo, sia per i paesi dominatori che per quelli colonizzati, è intimamente legato a quello del nazionalismo. I paesi europei, piú gli Stati Uniti e il Giappone, hanno costruito nella seconda metà dell’Ottocento la loro identità nazionale attraverso lo spazio che sono riusciti ad occupare, e al confronto-scontro con gli altri, per la spartizione del mondo. I paesi aggrediti, o quelli tagliati fuori dalla spartizione, hanno cominciato a loro volta a costruire la loro identità nazionale attraverso la speranza di riscossa.
Di solito i nazionalismi si contrappongono ai particolarismi regionali, ai dialetti, alle tradizioni locali, che devono essere sacrificate e unificate nell’interesse generale della nazione-Stato. Ma si contrappongono anche agli universalismi: ai poteri e ai principî che uniscono tutti i popoli o tutti gli uomini del mondo. Sia che ci si identifichi solo con i membri della propria tribú, sia che ci si senta fratelli di tutti i figli dello stesso Dio, il vincolo nazionale, per opposte ragioni, risulterà compromesso.
Queste contrapposizioni non sono sempre e necessariamente equivalenti. I nazionalismi conservatori si sono spesso fondati sul particolarismo, per radicarsi al passato contro il grande nemico: l’universalismo liberale. Il «carlismo» spagnolo (vedi supra, cap. III, § 5) per esempio, in lotta contro il centralismo vagamente modernizzatore della monarchia di Madrid, riteneva infatti che le vecchie tradizioni locali spagnole, cattoliche, gerarchiche e monarchiche, fossero abbastanza uniformi e sane da caratterizzare tutte insieme la vecchia Spagna, da saperla difendere dal contagio democratico, e additarle la via di una presunta armonia tradizionalista. I nazionalismi tradizionalisti rischiano però di spaccare la nazione, di creare nazionalismi regionalisti. Per esempio il nazionalismo basco è nato proprio dal carlismo. A forza di difendere appartenenze tradizionali, si finisce inesorabilmente per attaccarsi ad identità molto locali.
All’opposto, i nazionalismi democratici, come quello di Mazzini, si proiettavano sull’universalismo utopico del futuro contro il nemico dei popoli, che per i democratici era l’autoritarismo bigotto e reazionario. Al rivoluzionario genovese, e ai tanti che la pensavano come lui, tutti i popoli del mondo sembravano abbastanza simili fra di loro per essere nazionalisti senza conflitti: fratellanze superiori agli egoismi individuali e capaci di insegnare all’umanità la pace e la cooperazione. I nazionalismi democratici facilmente diventano internazionalisti. Cosí è successo nel nostro secolo a moltissimi «movimenti di liberazione nazionale» dei paesi colonizzati.
In linea di massima il nazionalismo europeo teneva una posizione intermedia, né tradizionalista, né messianica: combatteva sia gli interessi o le appartenenze locali, sia i poteri o gli ideali sovranazionali, e costruiva stati centralizzati e masse popolari educate ad un vero e proprio culto dei valori nazionali, dell’uniformità all’interno dei confini e della differenza dai vicini. Molte cose potevano servire a questo scopo: la scuola innanzi tutto, con la diffusione della lingua nazionale, i simboli, le feste commemorative, i monumenti agli eroi del passato, la storia patria, i cori e gli inni, le associazioni di ginnastica per l’esercizio fisico collettivo, le bandiere. Tutto doveva servire a far dimenticare il campanile del paese ma anche la comune fratellanza universale, e a far emergere invece l’identità di tedeschi, di francesi, di italiani.
Per altro, la costruzione di una nazione è un processo storico lungo e complesso, che può scontrarsi o allearsi di volta in volta con conflitti locali, con egoismi individuali, con poteri rivali, o con forze sociali di respiro internazionale, ciascuna portatrice della propria ideologia, della propria utopia.
In ogni caso il nazionalismo stava completando il suo trionfo, dopo la metà dell’Ottocento, in tutta Europa, con la conquista delle due roccaforti storiche del particolarismo regionale e dell’universalismo imperiale e papale: l’Italia e la Germania. In entrambi questi paesi, al posto dei vecchi equilibri fra staterelli e poteri multinazionali, si erano ormai creati due forti stati piú o meno centralizzati, fondati sul realismo politico e sull’identificazione fra stato e nazione. In entrambi i casi si era costituita una monarchia autoritaria ma costituzionale, tenuta a battesimo da un politico geniale, in Italia moderato: Cavour; in Germania apertamente reazionario: Bismarck. La democrazia, le speranze del Quarantotto, la fraternità e la pace erano state abbandonate, cosí come cinquanta o sessant’anni prima le idee rivoluzionarie erano state sacrificate alla costruzione della «grande nazione» francese. E anche i poteri locali erano stati fortemente ridimensionati. In Germania e in Italia insomma non si era scelto nessuno dei due estremi: né un nazionalismo democratico universalista, né un nazionalismo particolarista: in Italia un nazionalismo abbastanza simile al modello francese, statalista e accentratore; e in Germania un nazionalismo ancora piú statalista, anche se meno accentratore, inoltre aggressivo e minaccioso nei confronti dei vicini.
2. Nazionalismo, democrazia e particolarismo in America.
Negli Stati Uniti invece le cose andavano alquanto diversamente. All’origine, negli ultimi decenni del Settecento, una specie di nazionalismo era stato la bandiera del partito moderato, quello «federalista», che voleva un potere centrale forte – federale, appunto – per tenere a bada le masse popolari, che durante la rivoluzione avevano dato il loro tributo di sangue alla nascita del paese, e che volevano contare nella vita pubblica. Il particolarismo era stato difeso invece dalla tradizione democratica, che intendeva appoggiarsi sull’autonomia dei tredici stati – le ex colonie – per contrastare i moderati federalisti. Ma col tempo le cose si erano profondamente trasformate. Per decenni il potere era stato tenuto dai democratici, e il partito federalista si era dissolto, mentre il principio unitario nazionale era stato tutelato dalla Corte suprema, cioè dall’istituto posto al vertice della magistratura, e incaricato di pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi. Quindi il nazionalismo si identificava in un organo giudiziario anziché in una forza politica: in un’istituzione dello Stato, garante della costituzione e massimo organo di controllo del potere politico negli Stati Uniti, che aveva vietato ai diversi stati membri dell’Unione di invadere il campo delle competenze federali. Era uno strano nazionalismo, quello americano: senza miti o rituali, e senza costruzioni ideologiche; un nazionalismo «freddo», per cosí dire. Fu proprio il presidente della Corte suprema, e non un leader politico, a dichiarare nel 1821 che «gli Stati Uniti formano, sotto molti importantissimi aspetti, una sola nazione».
Del resto oltre alla Corte suprema, anche la diplomazia americana, di un paese nato dalla guerra di liberazione, era abbastanza naturalmente orientata verso uno spiccato nazionalismo. Nel 1812 gli Stati Uniti avevano condotto una guerra contro la Gran Bretagna per difendere la propria recente indipendenza, e addirittura nel ’23, con la «dottrina Monroe» mettevano in guardia la Santa Alleanza da un intervento in America Latina e dichiaravano tutto il continente americano sotto la loro protezione. Il presidente Monroe sembrava allora aver fatto il passo piú lungo della gamba: era alla guida di un piccolo paese, eppure pretendeva di escludere le potenze europee dal teatro americano. Ma la sua intuizione era stata giusta, e la sua «dottrina» sarebbe diventata il pilastro piú durevole della politica estera americana.
Pure la politica economica della giovane potenza era caratterizzata da una scelta tipicamente nazionalista: cioè dal protezionismo doganale, che rafforzava il mercato interno e quindi la produzione nazionale, sottraendola alla sudditanza dal colosso inglese. Al riparo dalla concorrenza straniera, la società americana poteva crescere e costruire una sua identità autonoma, i suoi collegamenti interni, la sua economia nazionale. C’era del resto un ulteriore e importantissimo fattore di unità e di rafforzamento del potere centrale: la superficie dell’Unione era in continua e rapida espansione e i nuovi territori di frontiera, che venivano comprati o conquistati, erano gestiti dal potere federale prima di diventare nuovi stati, quando raggiungessero i 60 000 abitanti. Ma trasformandosi in nuovi membri dell’Unione, a pari merito con i tredici «soci fondatori», incidevano ovviamente sugli equilibri politici e territoriali, e la loro ammissione alla dignità di nuovo stato era oggetto continuo di discussione politica condotta al livello centrale, una grande questione nazionale, di equilibri interni, politici e costituzionali.
Proprio i nuovi territori – la frontiera in continua espansione – erano la straordinaria risorsa umana, economica e morale degli Stati Uniti, ed erano il grande serbatoio dell’egualitarismo, della democrazia di quella giovane nazione. Essi diventarono cosí la vera questione nazionale, il punto sul quale costruire un’ideologia e una battaglia per la nazione americana. Negli anni Trenta del secolo la situazione era quindi molto mutata rispetto a quarant’anni prima. Il partito democratico era rimasto attaccato alle sue radici particolariste, ma era diventato anche a suo modo nazionalista, perché rappresentava soprattutto la frontiera democratica; aveva le sue roccaforti in comunità nuove ed egualitarie, che non avevano tradizioni autoritarie e gerarchiche da difendere ma anzi erano povere e prive di istituzioni consolidate, quindi bisognose di sostegno federale. Nasceva cosí anche in America un nazionalismo «caldo», tenuto insieme dalla passione democratica, al posto del nazionalismo piú freddo delle oligarchie «federaliste» della costa orientale degli Stati Uniti, che avevano guidato il paese nei primi decenni, sostenute dalle sentenze della Corte suprema, o dalla diplomazia, o dalle scelte di politica economica.
Il momento culminante di questo paradossale nazionalismo particolarista ma democratico fu la presidenza di Andrew Jackson, a partire dal 1829. L’Ovest egualitario e il Sud particolarista si impadronivano del potere, sconfiggendo quello che restava del nazionalismo oligarchico di vecchio tipo. E anche infrangendo le regole della politica nazionale, introducendo quel particolarismo di partito, apertamente e cinicamente clientelare: lo spoil system, destinato a caratterizzare per molti decenni l’occupazione democratica del potere. Lo spoil system è un’esasperazione del diritto della maggioranza di occupare le istituzioni: chi vince le elezioni piglia tutto, occupa tutto, si spartisce tutte le cariche, gestisce tutte le risorse del paese, piazza i propri uomini per compensarli della loro fedeltà.
Jackson smantellò inoltre la vecchia banca privilegiata che dirigeva la politica economica a scapito degli stati piú poveri dell’Unione, e per un certo tempo il sistema bancario fu completamente decentrato e sregolato. La banca centrale aveva rappresentato gli interessi dell’oligarchia della costa orientale, che non era piú la nazione. La nazione americana era ormai vasta, decentrata e sregolata e il presidente faceva il suo interesse disgregando il sistema bancario. Mentre in Europa il nazionalismo si costruiva sulla centralità dello Stato, in America si fondava sul decentramento delle risorse finanziarie.
Sembrava cosí che l’unità nazionale, almeno dal punto di vista economico, sarebbe andata in pezzi. Ma non era cosí. Anzi, proprio in questa battaglia politica anticentralista si rafforzò paradossalmente un nuovo nazionalismo americano. Per la prima volta, intorno all’elezione presidenziale, il popolo degli Stati Uniti fu chiamato a pronunciarsi e a schierarsi in un grande argomento di interesse generale e non locale, e a riconoscersi nel presidente come suo leader nazionale, un presidente deciso a far uso del diritto di veto, cioè a bloccare l’approvazione delle leggi, e ad appellarsi all’opinione pubblica contro le decisioni del Congresso (il Parlamento), presentato come espressione di oligarchie, di poteri forti contrari all’interesse generale. Non c’è nessun autentico nazionalismo senza un leader piú o meno carismatico capace di appellarsi al popolo contro gli egoismi particolari. Il presidente Jackson rappresentò una versione fortunata, perché non troppo autoritaria, di questo nazionalismo populista: un nazionalismo nuovo e moderno, per alcuni aspetti simile a quello che si stava per affermare in Europa, ma insieme piú democratico, quindi piú universalista, e piú rispettoso delle identità locali.
3. La schiavitú dei neri e la guerra di Secessione.
Ma sfortunatamente l’evoluzione pacifica e democratica del nazionalismo americano si interruppe tragicamente e condusse ad una terribile guerra civile, la piú sanguinosa di tutte le guerre del secolo, dopo quelle napoleoniche.
Benché parlassero tutti la stessa lingua e avessero le stesse tradizioni politiche, gli stati membri dell’Unione appartenevano a due mondi profondamente diversi. Quelli del Nord avevano un’agricoltura povera e un’industria in espansione, puntavano al rafforzamento del mercato interno ed erano quindi favoriti dal protezionismo doganale. Invece quelli del Sud si fondavano sull’agricoltura di piantagione e impiegavano il lavoro degli schiavi; inoltre erano integrati nel grande commercio mondiale ed erano danneggiati dalle tariffe doganali protezioniste. Ne risultavano concezioni completamente diverse della libertà, dell’uguaglianza, della convivenza civile, dell’ordine pubblico, della tradizione, della cultura politica. Della libertà, soprattutto, che negli stati del Sud era del commercio internazionale, e in quelli del Nord era dell’individuo, e quindi del mercato del lavoro.
Tali differenze esistevano fin dall’origine, ma per i primi sessanta o settant’anni di vita degli Stati Uniti non avevano dato luogo a conflitti, perché fra le due aree si manteneva un certo equilibrio, e comunque entrambe potevano sviluppare i propri interessi verso l’Ovest: il Nord creando un vasto mercato per i propri prodotti industriali, e il Sud estendendosi al basso corso del Mississippi, e quindi accrescendo la propria capacità produttiva di cotone e il proprio ruolo nel mercato mondiale, insieme alla credibilità del proprio sistema politico ed economico.
Ma progressivamente questa crescita si squilibrò a favore del Nord, sia in termini di ricchezza che di popolazione. I territori dell’Ovest divennero produttori piú di cereali per i porti del Nordest che di cotone per quelli del Sud, e l’alleanza dell’Ovest col Sud, che aveva portato Jackson alla presidenza, si ruppe. Nasceva invece una vasta area settentrionale estesa anche a gran parte dell’Ovest, in forte espansione, ben integrata negli scambi fra industria e agricoltura. E nasceva un Sud indebitato, che si sentiva sfavorito dal potere federale, e quindi si arroccava nella difesa della facoltà dei singoli stati di annullare – si diceva «nullificare» – le politiche federali.
L’economia degli stati del Sud si fondava sempre piú massicciamente sul lavoro degli schiavi neri, in controtendenza con lo sviluppo capitalista del mercato del lavoro in espansione al Nord e in Europa. Gli stati meridionali avevano una produzione di cotone in continua crescita che giustificava e remunerava l’investimento in schiavi. Quello delle piantagioni non era un lavoro flessibile. Era invece semplice e sempre richiesto. Non era necessario quindi poter licenziare o incentivare la produttività. Perciò, a differenza della maggior parte dei settori produttivi dell’economia capitalista, il lavoro degli schiavi andava ancora bene. Fin dall’inizio, all’epoca dell’indipendenza dall’Inghilterra, quando ancora nessuno sollevava il problema morale della schiavitú, a nord c’erano due schiavi ogni cento abitanti: una realtà marginale, quindi, mentre a sud ce n’erano trentacinque. Il che poneva problemi completamente diversi al Sud, sia dal punto di vista economico, perché il lavoro coatto era la maggiore risorsa del paese, sia da quello dell’ordine pubblico, perché rendeva necessario un controllo sociale autoritario e razzista. Lo schiavo infatti, poiché non riceve alcun compenso per il proprio lavoro, non ha alcun interesse a lavorare, e tende a farlo il meno possibile, richiedendo una continua costrizione.
Fin dall’inizio dell’Ottocento, gradualmente tutti gli stati del Nord abolirono del tutto la schiavitú, proprio mentre quelli del Sud, con lo sviluppo del cotone, ne rafforzavano sempre di piú il ruolo economico, a patto di un forte investimento nei sistemi repressivi: tanto che il prezzo di uno schiavo qualificato per il lavoro agricolo aumentò di quattro volte in pochi decenni. E piú cresceva l’importanza del lavoro coatto dei neri, piú la gente del Sud si convinceva fermamente che la schiavitú era un bene: «un bene, signori, proprio un bene» come disse un importante uomo politico del Sud, vicepresidente al tempo di Andrew Jackson; una forma di sfruttamento della mano d’opera di gran lunga preferibile al lavoro salariato, colpevole secondo i proprietari sudisti di abbandonare l’operaio al proprio destino. Incredibile ma vero: il mondo della piantagione riusciva ad addurre ragioni umanitarie per giustificare la schiavitú.
Negli stati del Nord si diffondeva invece il movimento d’opinione antischiavista. Si raggiunse un compromesso: a nord di un certo parallelo la schiavitú sarebbe stata proibita, quindi implicitamente tollerata a sud. Gli schiavi cominc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia moderna e contemporanea. III. L'Ottocento.
  3. I. La Restaurazione e le rivoluzioni degli anni Venti
  4. II. Lo sviluppo del capitalismo e il successo del modello anglosassone
  5. III. I nazionalismi europei e la rivoluzione democratica
  6. IV. Il mondo a metà dell’Ottocento
  7. V. La politica europea e le unificazioni italiana e tedesca
  8. VI. Modernizzazioni in periferia e nuovo colonialismo
  9. VII. Il Regno d’Italia
  10. VIII. Il movimento operaio
  11. IX. La seconda rivoluzione industriale e l’imperialismo
  12. X. Pubblico e privato nell’Europa della borghesia
  13. Appendice
  14. Bibliografia
  15. Elenco dei nomi
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright