Manuale di lettura creativa
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Manuale di lettura creativa

  1. 184 pagine
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Manuale di lettura creativa

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A leggere si impara da bambini. Quando si capisce che le parole nascondono un significato, e si possono toccare. Diventare «lettori creativi» è un piccolo passo in avanti; non si tratta solo di comprendere, ma di provare a sentire cosa c'è dietro le parole. L'emozione ogni volta diversa che comunicano. Ciascuno di noi quando apre un libro è un lettore creativo, perché non è solo libero di mettere se stesso dentro la storia, ma deve farlo. In queste pagine riverbera l'eco di un amore viscerale: brevi saggi brillanti e confidenziali che possono rivelarci un punto di vista nuovo e inedito sulla letteratura. Dai classici dell'Ottocento a Salinger e Sciascia, passando per i nuovi giallisti italiani; senza mai dimenticare Grazia Deledda, Sergio Atzeni e i tanti maestri della scuola sarda. Le confessioni di un lettore d'eccezione, di un autore che «se si dimentica di prendere un libro per andare in bagno, legge tutte le indicazioni per l'ammollo dei detersivi e tutte le composizioni degli shampoo». Un manuale che non vuole insegnare nulla, ma essere un aiuto per perdersi nelle storie senza smarrire la consapevolezza.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858422885

Ossessioni

Lo stupore dell’ovvio11

«Ero ossessionato dall’idea di dover scrivere qualcosa», questo racconta di sé Raymond Carver: aveva 18 anni allora, amava lo scrivere ma non sapeva ancora di avere una scrittura. Ci vollero anni prima che questa pulsione si trasformasse in una tendenza chiara, in un’idea precisa: «… e all’improvviso tutto gli fu chiaro», cosí, citando il suo amatissimo Čechov, Raymond Carver racconta questa svolta. Senza la presunzione di insegnare, egli ci insegna che uno scrittore è tale solo quando dimostra una qualche capacità di analizzare, se non quanto ha scritto, i motivi che l’hanno spinto a scrivere. Un esercizio che attraversa questioni non solo di metodo, quanto di poetica. Il punto, racconta Carver, non è tanto quello che si scrive, ma perché lo si scrive in quel modo. E qui Čechov: «… e all’improvviso tutto gli fu chiaro», vale a dire che il senso di quanto si scrive risiede in un preciso snodo che ha certo a che fare con lo stile, con la sintassi, con l’esperienza, ma, soprattutto, con la tensione che una storia può generare. Occorre saper descrivere l’istante di rottura, lo straordinario, ma non è possibile ottenere ciò se non si sa descrivere, pensare, l’ordinario. E l’ordinario si rappresenta degnamente a patto che si applichi alla propria scrittura quello che Kafka avrebbe chiamato «un violento dominio di sé». Dentro a questa citazione sostanziale del suo maestro, Carver, vede la capacità di mantenere un tono della narrazione sul filo della tensione e, di conseguenza, mantenervi il lettore. Il genio russo delle scene a tavola gli aveva insegnato quella che lui si spiega come «teoria delle omissioni», volendo specificare quanto, nell’esercizio della tensione, valga ciò che si racconta, ma anche ciò che non si racconta affatto. Ora, dal punto di vista di Raymond Carver, saper fare tutto questo, o non saperlo fare, non è questione di talento. Egli afferma di non conoscere autori che non abbiano talento, ma di conoscere pochi autori che sappiano ragionare sul proprio talento. Una discriminante assoluta, che la dice lunga sull’inconsistenza di chi ha visto questo autore come un «minimalista» volendo dire sintetico, scarno, asciutto, senza considerarne il peso in termini di elaborazione e complessità. Raymond Carver è uno scrittore che conosce il peso dell’inquietudine come dispositivo narrativo. Capisce cioè che quanto deve apparire chiaro al lettore è il momento preciso in cui avviene la svolta piú che la svolta stessa. E lo capisce da lettore prima che da scrittore. Ogni cosa si gioca nello spazio istantaneo in cui tutto, improvvisamente, diventa chiaro. Come si fa a mettere in moto una reazione chimica all’interno di una miscela apparentemente inerte, fatta di lettere e frasi, come la scrittura? Carver, come Kafka, risponde che ciò può accadere solo a patto di saper governare il senso dell’inquietudine. Perché l’assenza d’inquietudine e quindi l’incapacità di generare moto, produce inerzia e quindi morte. Persino stilisticamente.
Il traguardo è mettere a fuoco il fulcro stesso del rapporto fra lo scrittore e la sua inquietudine. Non, moralisticamente, la Verità. Ma, eticamente, la Verosimiglianza. In letteratura mentire non è peccato. Neanche quando si finge di parlare di sé per dare una sorta di credibilità aggiuntiva alla propria storia. È inquietante parlare con gli scrittori perché nessuno di loro potrà garantirvi di mantenere il vostro segreto. È inquietante la natura stessa dello scrivere e del raccontare perché arriva all’esperienza tramite il falso/vero piuttosto che tramite il vero/falso.
La letteratura, dunque, ribadisce, fra gli altri, Carver, dovrebbe costantemente rivendicare il diritto di generare inquietudine. Senza ambiguità, perché passare attraverso il non detto, non è certo omettere, ma, al contrario, selezionare. E «senza trucchi». Hofmannsthal asseriva che in letteratura la sostanza è tutta nella superficie, sintetizzando un’inquietante sequenza di paradossi che da sempre determinano, e rendono enzimatico, il fare letterario; fra queste il concetto che la semplicità in letteratura è complicatissima da raggiungere, mentre non c’è niente di piú semplice che scrivere complicato, appunto. La letteratura, in modo davvero inquietante, tende a «ribadire l’ovvio» piuttosto che a stupire, e questo solo perché è piú stupefacente lo stupore dell’ovvio che lo stupore dello stupefacente.
La letteratura, per Carver, non è «vita senza inquietudine», non è un territorio di esercizio passivo, ma attivo; non un luogo di consolazione, ma di crisi. Ora, i detrattori, in questi tempi spicci, tagliano dicendo che tutto ciò ha a che fare con la pesantezza piuttosto che con la leggerezza. E forse proprio ignorando, o volendo ignorare, questa sua precisa tendenza, si tende a rubricare Carver nella lista degli autori «semplici». Noi italiani sappiamo molto bene cosa significhi questo luogo comune quando accostiamo Italo Calvino a un’accezione automatica e fuorviante di leggerezza. Si definisce immotivatamente minimalista Carver come se si tralasciasse di considerare che «il faticoso», in scrittura, si rappresenta ai massimi livelli nella sua totale assenza. Sarebbe a dire che è artista, scrittore, solo chi sa nascondere la fatica del suo fare. E Carver, come Calvino, sa risultare lineare, persino scarno; ha la compostezza di quel tuffatore sempre invaso da «un violento dominio di sé» che a Kafka sembrava la metafora perfetta dello scrittore. Chi parla di Carver per sanare la propria incapacità di conquistare la leggerezza e la semplicità senza passare dalla pesantezza e dalla complessità, dal lavoro, dalla lettura, evidentemente non ha letto neanche Carver. Perché altrimenti capirebbe che, nella linea dell’inquietudine, egli è fra i piú inquietanti in assoluto dei contemporanei.
Quanto all’attuale egli tende a voler essere moderno, è un narratore che arriva alla poesia. Non un «poeta nato», ma un narratore, un autore di racconti, prestato alla poesia, che lavora sulla frase con la stessa accortezza di un cesellatore. Egli ha capito che dentro alla capacità di sintesi della grande poesia sussiste il centro di ogni prospettiva di permanenza. «Bisognerebbe scrivere il minimo possibile di cose attuali su cui non si è ragionato abbastanza» risponde la Szymborska a chi le chiede quale sia il suo rapporto con l’attualità e con questa risposta sacralizza la distanza attraverso la quale ogni arte tende a diventare immortale. Ci vuole una modesta presunzione, pare spiegare Carver. Avere la presunzione dei poeti e l’umiltà dei narratori. Il patrimonio dei primi e la capacità di spenderlo dei secondi. Da qui la miscela affatto inimitabile di Carver. Quel fraintendimento che lo trasporta nella lista degli autori piú superficialmente ritenuti «imitabili».
Se si leggono i suoi saggi intorno alla scrittura, si capisce quanto rappresentino precisi resoconti di quale pignoleria Raymond Carver abbia applicato alle sue storie, lottando costantemente per sanare ogni «debolezza di specificazione», che, secondo Henry James, era l’unico difetto insanabile della scrittura e dello scrittore.
«Mi piace pasticciare con i miei racconti. Preferisco armeggiare attorno a un racconto dopo averlo scritto e poi armeggiarci di nuovo in seguito, cambiando una cosa qui e una cosa lí, piuttosto che scriverlo la prima volta. La stesura iniziale mi sembra la parte difficile da superare per poi andare avanti e divertirmi con il racconto. La revisione per me non è un obbligo sgradito – anzi, è una cosa che mi piace fare. Forse sono per natura piú riflessivo e attento che spontaneo, e qui sta forse il motivo di questa predilezione».
Raymond Carver vede la sua scrittura come un’unione riuscita, un matrimonio perfetto e «funzionale tra necessità e convenienza». E vede in questo un’ipotesi di immortalità. Da questa inquietudine si sostanzia il mestiere dello scrivere e «se siamo fortunati, tanto come scrittori che come lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e resteremo poi seduti un momento o due in silenzio».
11 Una prima stesura di questo capitolo – qui presentato in una versione riveduta – è stata pubblicata in R. Carver, Il mestiere di scrivere, a cura di W. L. Stull e R. Duranti, Einaudi, Torino 2015.

Sento che potrei tacere benissimo12

Lui, di suo, Antonio Giulio Cesare Vincenzo Maria Delfini, classe 1907, sarebbe stato un tipo posato, se non che un’infanzia agiata e senza padre, una calvizie precoce, una malinconia di pan di Spagna e alchermes, un’istruzione autarchica «non ho letto i classici non sono andato a scuola...» lo costrinsero a essere poeta, poeta emiliano, e quindi spiccio. Istantaneo e bruciante. Poeta sempre, persino nel narrare: una maledizione bella e buona. Padano, per l’appunto, e non montano: altra maledizione. Tutto liscio, aerodinamico e ficcante «una volta mi venne voglia di diventare campione mondiale di scherma...» dove gli altri suoi crinuti coetanei: Buzzati, Pavese, Landolfi, Moravia, erano ruvidi, spigolosi e riflessivi. Lui era sghembo «... perché dovete sapere che io sono mancino e anche abbastanza snello...» dove quegli altri erano dritti come fusi. E indolente «... perché io non sono niente...» dove quegli altri erano rocciosi e fattivi. Nella tassonomia dell’intellettuale italico, infatuato, per poco, dell’avventura fascista, e poi tornato alle origini solidaristiche della democrazia praticata, egli rimane fra i piú fulminei e dinamici, e solipsisti, scrittori del dopoguerra. Di quelli cioè che, insieme a Zavattini e Guareschi, «quei ragazzi fiammanti col fazzoletto al collo» hanno avuto, nonostante la placida, ostinata e porosa orizzontalità della pianura, un imprinting lunatico, un ingegno bizzarro, uno stigma sulfureo, un approccio ciclotimico nei confronti della realtà.
Nell’Italia postbellica si mettono a punto i motori della ricostruzione, solo che in montagna si pensa al progresso e in pianura alla velocità. La Fiat fa macchine per tutti; la Scuderia Ferrari, la Maserati, l’Alfa Romeo fanno macchine velocissime. Da una parte il senso pratico dell’elaborazione, dall’altra l’impatto fulmineo dell’intuizione. Dalla piemontese Fiat 509, velocità massima 70 chilometri orari, si poteva guardare il paesaggio nel suo dipanarsi di spazio asciutto, affamato di rinascita; mentre dall’emiliana MM Tipo 26, 180/200 chilometri orari, il paesaggio si frantumava in una poetica, sinestetica scia indistinta. «Perché si sa | che Anche le ragazze | piú avanzate | scordano per un minuto | l’alfa romeo... | per vedere il poeta». E qui risiede quella reazione etimologicamente sensazionale che, dopo aver letto gli scritti di Antonio Delfini, Natalia Ginzburg formalizzò in «rapidità vertiginosa». Ma anche quella condizione di sottile sindrome ansiogena; quell’accelerazione costante, quasi un’istantaneità controllatissima; quella melanconica disillusione, che finirà per diventare la sua cifra stilistica. È un pensare che non riposa mai. È un’immobile ansia irriverente. È un tratto esasperato del linguaggio che oscilla tra il sussiego e il turpiloquio, tra l’umido e l’asciutto.
Fin dall’inizio, dal preciso momento cioè in cui il mestiere dello scrittore non gli pare piú impraticabile, Antonio Delfini coltiva un pigro senso d’urgenza, gonfio di niente; scrive cioè con l’immobile fibrillazione di un corpo in cui cova la febbre: «Malinconia | di una ribellione | che vuol durare ancora».
Irriverente per genetica, ma obbediente nelle forme. Innamorato di Baudelaire come tutti. Sintetico ed enigmatico come il De Chirico delle Piazze d’Italia: «Duomo torre e casa mia | voglio con te andar via». In posa e fibrillante come nel migliore Donghi, Antonio anch’esso: «chissà quanti amori». Performatico e Dada. Superficialmente surrealista.
Dentro alla stagione antagonista il poeta Delfini è azzimato e funereo, col passo dondolante del nullafacente, del perditempo, del biassanot: Je suis un poète flâneur et débauché. L’apprendistato è un immenso camminare o desiderare di farlo: «oh come andare vorrei | tra i deserti del mondo; e potessi un giorno | camminare da solo». Ma la tensione al vagabondare pare risolversi nei versi, è correre da fermo, come compete a chi, potendo scegliere tra diventare un campione sportivo o un poeta, ha deciso per la seconda opzione che, a ben vedere, è l’unica a comprenderle entrambe, perlomeno virtualmente. Da poeta si può fingere di correre, ma in corsa non si ha tempo ed estro per la poesia.
Non ci si può aspettare un progetto a lungo termine da Antonio Delfini, semmai obiettivi perseguiti con puntiglio. Come quando la sua prosa, siamo nella stagione di Ritorno in città, e quindi agli albori degli anni Trenta, sembrerebbe un calco padano da matrice evidentemente baudelairiana. E Baudelaire, lontano anni luce da lui, era per l’appunto un puntiglio stilistico, un innamoramento non ricambiato, perché nella testa, e soprattutto nella penna, del poeta modenese, il motivo primo della spinta stilistica del poeta parigino, sarebbe a dire l’invito al viaggio, non era nient’altro che esercitare, pigramente, il proprio estro vagabondo supportato da un motore ben oliato. Ecco: Delfini passa col suo genio cialtronesco sopra ai fenomeni come lo schermidore, appunto, che saltella a lungo prima di colpire. Due, tre anni prima, a passeggio per Viareggio, è il 1928, con un amico sconosciuto che poi, tanto per cambiare, non gli sarà piú amico, apprende che la Certosa di Parma, eternata da Stendhal, non sarebbe a Parma, ma nella sua Modena. Lui il romanzo in questione non l’ha letto, ma la faccenda è appetitosa. L’amico, poi ex amico, insiste perché legga quel capolavoro, e lui, Antonio, inizialmente cede. Arriva a pagina trenta poi, sfiancato dalla noia, abbandona l’impresa («alla trentesima pagina mi annoiai e l’abbandonai»). Ma non abbandona quel puntiglio di dimostrare che la Certosa, descritta da Stendhal, si trovava a Nonantola, a due passi da casa sua, e non nella sussiegosa Parma, sino a tenerselo in serbo per piú di trent’anni, fino al 1962, quando pubblica Modena 1831 città della Chartreuse.
Ora tutta quella che può essere definita la sua produzione poetica giovanile, dagli anni Venti fino al ’35, risente di questo preciso senso di aggressività a tratti gratuito, piú nella scia dei fenomeni che dentro ai fenomeni stessi. La genetica antagonista delfiniana soffre, come soffrono tutti gli antagonismi ostentati, di una sorta di cinismo coercitivo, come una strada obbligata. Una specie di depressione ambientale che rende indolenti, allenta i freni inibitori, incattivisce. Altrove, in altri ambienti, suoi coetanei stanno agendo la metafisica, dopo aver invitato lo specifico italico, scafato e relativista, a entrare nello studio psicoanalitico della agonizzante civiltà mitteleuropea. Delfini inforca la metafisica come una Ducati, urla perché il motore al massimo sovrasta la sua voce e scopre, attraverso il Futurismo, che si può fare poesia assemblando parole, frasi, concetti, scritti, elaborati, pensati da altri. È la stagione dei collages. Poesie autarchiche, ottenute dal riciclo, come un cappotto risvoltato, come un abituccio in rayon, fibra italica che imita la seta. Incontri amichevoli è del ’40:
Nove pazzi arsi vivi
infliggendo una nuova sconfitta a Jago
avanzano
conquistano l’Alto di
RODI
affidato a una ragazza ventottenne
celebrata da un’ultracentenaria
È quasi possibile estrapolare per ogni «verso», o gruppo di versi, il tipo di materiale giornalistico da cui proviene: cronaca locale, recensione teatrale, corrispondenza di guerra, cronaca rosa. Il senso c’è: è senso poetico propriamente detto, impulso evocativo, vaghezza di rimandi e richiami. Ma c’è anche la Storia, il sapore d’Italietta, nei diversi tipi dei caratteri di stampa e in quell’endemico guardare altrove proprio quando si apre l’abisso. Non troverete accenni di cronaca nera, perché nel paese della Saponificatrice di Correggio e, tra breve, di Rina Fort – nel paese dove l’affare Girolimoni si chiude con un’indagine e una condanna sbrigative ed eclatanti che servono a dimostrare la rettitudine pelosa della nazione fascista –, la cronaca nera non esiste, sbiancata dall’assenza di garanzie e dalla propaganda. È per questo che dentro alle poesie autarchiche di Delfini si è depositato un sapore altro, non si sa se imprevisto dal poeta stesso. Ed è possibile che qualche frase da lui ritagliata appartenesse alla mano, alla testa, alla penna di Dino Buzzati che, dal 1928, faceva il corrispondente per il «Corriere della Sera». O a qualche lacerto di un sottilissimo elzeviro di Ennio Flaiano. Sotto all’astrazione del componimento poetico, insieme alla Coccoina, inventata a Voghera nel 1927, che serviva per incollare le strisce stampate, si era impiantata la realtà nel suo nudo svolgersi di guerra coloniale, compleanni, incidenti sul lavoro, feste, prime cinematografiche, discorsi dal balcone. Ma sussisteva anche un atto segreto in quei componimenti, come l’azione nascosta di un delatore che stesse componendo una denuncia anonima e temesse di essere scoperto attraverso la propria grafia. Quell’immorale di Delfini spulcia la notizia alla ricerca della frase e non della notizia; gli altri lavorano, lui fa il poeta.
E lo fa prendendo le distanze. Dal 1935 si è trasferito da Modena a Firenze, ma solo per occupare uno spazio entro il quale esercitare con piú impegno la marginalità. Tra la Toscana e Delfini non si sarebbe certo potuto instaurare un affetto profondo, semmai una convivenza indolore. Il punto è che a Modena non si può in alcun modo essere modenesi. Da qui Firenze, che era una specie di porto franco per intellettuali in cerca di apolidismo – il milanese Gadda ci approda nel ’40, il genovese Montale c’è dal lontano ’27, il frosinate Landolfi vi si è laureato nel ’32 –, e da cui si poteva esercitare la scrittura di un luogo senza il pericolo di localismo. Del resto è proprio in questo esilio collinare che Delfini mette a punto la prima versione della raccolta in prosa Ricordo della Basca dove Modena, protagonista assoluta, è diventata una città scarnificata, irreale, ma anche dolcemente indolente, nobilitata dalla distanza, sottratta al contingente e offerta nuda al lettore. Certo un posto pieno di pericoli, specialmente per un poeta troppo poeta. Per salvare la propria personalità a Modena bisogna andare soli e senza donne e tenere il braccio pronto a significare gesto osceno: è una fatica ma c’è chi arriva a salvarsi... Da Firenze almeno questo problema è scongiurato.
Da Firenze si può ritornare alla forma e al vezzo internazionalista. I versi che ne conseguono si chiamano Les ­presqu’automatiques, sarebbe a dire i quasi automatici, piccoli componimenti costruiti sulla capacità che lemmi e metri hanno di calamitarsi a vicenda. L’ottava cerca l’ottava: «Sovra ponti e sovra scuri | Chi di noi saranno i puri? L’endecasillabo cerca l’endecasillabo: Una bombarda è una farfalla aperta | Che aspetta di esser mossa a primavera...» Il suono cerca il suono, quasi una replica, in absentia di forbici e colla, di quel gioco combinatorio che erano i collages. Questo Delfini è un meccanico provetto quando pacifica i sistemi, perché si pone il problema formale di controllare i giri del motore della sua immaginazione, farlo andare a pieno ritmo col minimo consumo. E Les presqu’automatiques sono quanto di piú vicino alla meta egli riesca a elaborare, piccoli capolavori di sintesi, spesso miniature di quell’universo feroce e irriverente che va costruendo sul versante della prosa. Eppure, non senza un certo snobismo, a partire dal titolo, devono apparire come divertimenti, niente di che. Una specie di esito tardivo del suo innamoramento parigino per i surrealisti che auspicavano l’automatismo dell’immaginazione verbale e l’immediato distacco dal proprio elaborato. È la stessa stagione de Il fanalino della Battimonda, l’ultimo tributo cioè a quella stessa formazione surrealista in cui, per grazia di Dio, proclamava di essersi formato solo superficialmente. Tanto per cambiare. Questo distanziarsi dalla sua scrittura corrisponde dunque in tut...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Manuale di lettura creativa
  3. Introduzione
  4. Confessioni
  5. Genere
  6. Radici
  7. Ossessioni
  8. Elenco dei nomi
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright