gustave flaubert1
Ci sono scrittori che scrivono solo per comunicare; e ci sono scrittori che sono anche creatori di linguaggio – Sprachschöpfer, dicevano i grandi romantici tedeschi. Semplificando molto potremmo dire che i primi fanno della lingua un mezzo, il semplice veicolo di un discorso che si presume neutro e referenziale. Gli altri fanno della lingua un fine, lo strumento grazie a cui il linguaggio stesso diventa percettibile, quasi tattile, e acuisce cosí i suoi effetti sul lettore.
Per i primi la lingua ha una funzione transitiva: agisce in modo che le parole servano i pensieri e nei pensieri svaniscano, vetri trasparenti che lasciano passare la luce. Per i secondi invece la lingua sa farsi opaca, consistente: trasporta il pensiero ma anche mette in scena se stessa, mira anzi a raddoppiare la forza del pensiero aggiungendo una sua forza di riserva, come uno scudiero fedele che porta le armi ma vuole anche combattere insieme. Il lettore è preso da quest’uso agonistico del linguaggio: sente che non può limitarsi a ricevere, inerte, il discorso che gli viene proposto, ma che in risposta deve impegnarsi ad accrescere le possibilità del suo stesso linguaggio, che deve adeguare simmetricamente il proprio potenziale linguistico a quello dell’autore, colludere con lui nel contrastare le inadeguatezze e i torpori della lingua d’uso.
Piú di molti altri scrittori classici Virgilio è un eccezionale Sprachschöpfer. Non voglio solo ricordare che Virgilio è un inventore di parole nuove ed efficaci o che è uno sperimentatore del linguaggio come lo erano stati Ennio o Plauto; voglio dire che per lui il pensabile arriva quasi a farsi sensibile, si materializza prendendo corpo e figura. L’interpretazione espressivistica dello stile dell’Eneide (e con essa anche quella espressionistica) crede che gli scrittori si servano dei procedimenti retorici per dire meglio, cioè che creino per esprimere. Virgilio sembra fare piuttosto il contrario: esprime per creare, si arroga il potere di ridescrivere la realtà e ridefinisce i rapporti tra gli elementi che la rappresentano linguisticamente. È criticamente improduttivo, infatti, credere che esistano, giacenti in un limbo noumenico, strutture semplici del linguaggio – siano elementi lessicali, morfologici o sintattici – da cui deriverebbero i costrutti verbali concretati nel testo: compito del filologo non è quello di cercare una «sostanza»(diciamo, un senso nudo e letterale) di cui sarebbe «accidente» ogni formazione linguisticamente complessa. Meno che per qualunque altra opera poetica sarà lecito tradurre (si potrebbe dire: ridurre) il testo virgiliano mediante un esercizio parafrastico fondato sulla formula «Virgilio voleva dire questo». Se voleva dirlo, l’avrebbe detto.
Il poeta vuole comunicare, ma per farlo è costretto quasi a ostacolare il suo discorso perché esso non scivoli via come un atto comunicativo immediato, bensí si fermi nell’orecchio e nella mente di chi lo riceve, vi faccia presa senza dissolversi, come se si reificasse. Il metro, le costrizioni formali e le arditezze retoriche fanno impedimento alla comunicazione ma solo perché cosí riescono a valorizzarla appieno: allertano il lettore e lo mettono in gioco facendone un collaboratore attivo. Il lettore, per poter percepire i significati che il discorso poetico comunica, deve colmare una distanza, valicare gli ostacoli che tolgono trasparenza al discorso. È ovvio che i significati non sono che parzialmente resi opachi dalla funzione retorica. Il poeta non vuole certo che i valori referenziali del suo discorso siano oscurati, solo vuole che per il lettore essi siano tutti sospesi all’instaurarsi di un nuovo sistema di riferimento. Il lettore è chiamato a confrontarsi dialetticamente con questo nuovo universo particolare, che è fatto di parole ma che con prepotenza aspira a una piena alterità esistenziale.
Virgilio lascia che la parola poetica mostri se stessa prima di mostrare le cose, e per questa via arriva a circoscrivere uno spazio straniato, a fondarlo. All’interno di esso possono valere nuove norme, e saranno non solo norme linguistiche ma anche ideologiche; nuovi significati possono esservi insinuati, resi possibili e accettabili proprio perché chiusi in uno spazio appositamente creato. Per demarcare questo luogo speciale, il discorso poetico virgiliano si dà regole proprie, utilizza il linguaggio ordinario ma lo manipola, lo tende, lo deforma, lo ristruttura, perché esso propizi la creazione di un mondo parallelo e alternativo, un mondo che sia in qualche misura vicino a quello reale ma anche capace di rivaleggiare con esso. Qui possono trovare ospitalità nuove cose (idee, speranze, inquietudini, provocazioni) proprio perché le accoglie uno spazio in cui le norme correnti sono state provvisoriamente sospese.
Ai giovani scolari che nella Monaco degli anni ’60 seguivano i suoi indimenticabili seminari sull’Eneide, Friedrich Klingner, per definire lo stile di Virgilio, amava ripetere una formuletta, che era il semplice condensato della sua lunga e intensa esperienza di virgilianista principe: «massima libertà nel massimo ordine». Perché il precetto non sia ridotto a generica banalità, bisogna dare un senso forte alle singole parole, che devono essere parafrasate piú o meno cosí: «non c’è forse poeta altrettanto capace di licenze e arditezze che siano integrate in un contesto espressivo altrettanto nitido ed equilibrato, fatto di compostezza e di decorum». Questo pensava Klingner, lo ricordo bene: e si potrebbe facilmente ritrovarne traccia in qualcuno dei suoi scritti virgiliani.
Credo, però, che Klingner volesse anche comunicare a noi che l’ascoltavamo la sua ammirazione per un aspetto dello stile dell’Eneide che non cessava mai di stupirlo: che Virgilio avesse potuto scrivere un racconto continuo di quasi diecimila versi – estesa narrazione di avvenimenti, descrizione di cose e personaggi – immettendo in ogni verso la stessa tensione creativa che avrebbe impegnato l’autore di un componimento lirico breve e contratto, caricando la forma dell’espressione con un’immensa raccolta di energia linguistica, potenziando indefessamente gli effetti di tutti i componenti del tessuto verbale, fonico, metrico. Sí che ognuno dei mezzi di comunicazione porta impressa su di sé la costante partecipazione dell’Io al racconto dei fatti narrati: una presenza mentale e affettiva che si mantiene sempre vigile, un’attiva sympatheia che l’autore impone a se stesso e pretende in risposta dal suo lettore. E sta proprio qui, credo, nell’ardita intensificazione del linguaggio, l’esito piú appariscente di quella «massima libertà» che nello stile di Virgilio s’accoppia, secondo Klingner, al «massimo ordine».
Ciò detto, non voglio però ridurre lo stile virgiliano all’attivazione sistematica di una serie di scarti espressivi che funzionerebbero come calcolate infrazioni rispetto a una supposta norma (e poi che cos’è norma? ciò che comunque dovrebbe essere? e secondo chi? oppure norma è ciò che è conforme alla maggioranza dei casi?). Su questa via, facilmente, il testo poetico si tramuterebbe in una collezione di monstra morfologici e sintattici, di sperimentazioni sorprendenti, una Ausdrucksdichtung il cui contenuto rischierebbe di estinguersi tutto a profitto dell’espressione. La formula dello ‘scarto’ è in sé equivoca, e credo perfino infelice, se non altro per queste sue evidenti implicazioni teratologiche2. D’altra parte, le convenzioni – che pure sono costitutive del linguaggio letterario – e tutte le altre strutture costanti che sono tipiche della dizione epica, non sono esse stesse scarti, anche se codificati? Rispetto ad esse ogni nuovo scarto sarebbe dunque scarto di scarti: e su questa via non ci si fermerebbe mai, forse all’infinito.
Eppure la nozione di scarto può servire purché le si attribuisca un valore puramente operativo. Può servire se non altro a misurare la distanza che il lettore deve percorrere per raggiungere il ‘proprium’ partendo dall’‘improprium’, che altro non è se non la forma straniata assunta dall’espressione. Ma non si devono immaginare i due termini del percorso linguistico come fossero due entità fisse, appartenenti a due linguaggi sostanzialmente diversi, bensí come i poli di un rapporto simmetrico e variabile, e insieme come punti di fuga. Il lettore li coglie insieme, li percepisce come fossero compresenti, vede ad un tempo lo scarto e la norma, l’’improprium’ e il ‘proprium’. La lingua che li produce è la stessa, una sola; diverso è invece il gesto, e perciò diversa è la funzione che l’uso poetico impone alla lingua.
Tutto questo è abbastanza ovvio. Ribadirlo serve, però, a impiantare su fondamenti chiari e semplici un’analisi dello stile virgiliano che qui vuol essere soprattutto empirica (e che preferisce rinunciare a qualunque discussione teorica piú complessa). Io, per parte mia, considero un po’ banale il criterio che oppone fra loro scarto e norma, ma i vantaggi che esso presenta in termini operativi lo riscattano in parte dalla banalità.
Virgilio è un eccezionale Sprachschöpfer soprattutto per una virtú del suo stile: la cattura di parole sotto tensione. Per creare i suoi effetti Virgilio non ha bisogno di una lingua aggressiva, né gli servono colori retorici troppo marcati; bastano le parole piú comuni, ma le percorre un’energia che rinforza i significati. Un antico detrattore di Virgilio (il successo straordinario gliene procurò súbito molti) lo accusava di essere «l’inventore di un nuovo tipo di affettazione stilistica, dovuta non ad ampollosità né a secca concisione ma costruita partendo da parole comuni e perciò surrettizia» (eum … appellabat novae cacozeliae repertorem, non tumidae nec exilis, sed ex communibus verbis atque ideo latentis)3.
Ci si può fidare degli antipatizzanti, la loro irritazione è sempre una buona spia. Di solito non sono buoni giudici, ma il loro stesso pregiudizio ne aguzza la sensibilità: notano e censurano proprio quei pregi che non riescono ad apprezzare. Cosí anche in questo caso. Giustamente si coglievano gli effetti stranianti dello stile virgiliano, si percepiva vagamente l’elaborazione di un’arte raffinata fatta di scarti e innovazioni efficaci, ma si voleva criticare comunque quel modo di scrivere perché appariva colpevolmente ricercato, artificioso (in «cacozelia» c’era soprattutto un’accusa di eccesso, di outrance, come se di Virgilio si condannasse una posa). Il fastidio maggiore nasceva dal fatto che la pretesa affettazione non era cosa evidente (latentis), mancava l’ostentazione tipica della «cacozelia», mancava l’enfasi facile di parole ampollose o inusuali, anzi il discorso si serviva di una lingua consueta, di «parole comuni». Questa era la novità dello stile virgiliano, tanto piú insidiosa perché dissimulata.
La tradizionale teoria aristotelica, sistematizzata rigorosamente da Teofrasto, aveva fondato il carattere poetico di un testo sulla ekloge delle parole, un’accorta selezione che, dosando parole e forme comuni con quelle estranee alla lingua corrente e con quelle figurate (un composto di kyria e xenika onomata), realizzava lo «straniamento» del discorso poetico, la xene dialektos. A partire dalla seconda metà del i secolo a.C., in polemica con la tradizione peripatetica, l’attenzione dei critici-filologi si spostò dall’ekloge verso la synthesis, vale a dire verso la composizione e la combinazione delle parole: l’opera di Dionigi di Alicarnasso, intitolata appunto ᴨεϱὶ συνϑέσεως ỏνομάτων (De compositione verborum), sarebbe stata grandemente apprezzata a Roma fin dai primi anni dell’età augustea.
Per la verità già alcuni rappresentanti del pensiero stoico (nel secolo precedente si era distinto soprattutto Cratete di Mallo, il kritikos pergameno che polemizzava con gli aridi grammatikoi capaci solo di classificazioni)4 avevano cominciato a teorizzare la natura sensibile della bellezza artistica; ma Dionigi fu certo il primo a individuare nella concretezza della synthesis verbale il movente estetico che raggiunge l’animo del lettore (o meglio dell’ascoltatore) e ne accende le emozioni5. La bellezza di un testo poetico non è data dai ϰαλὰ ỏνóματα, ma dalla loro συζυγία, dalla loro combinazione: anche le parole comuni e non ricercate (ỏνóματα μιϰϱὰ ϰαὶ ταπεινά) grazie a un loro sapiente «aggiogamento», grazie ad un’artistica combinazione, possono produrre poesia.
Non che Aristotele,...