«Jamais l’Europe n’a vu de pareille histoire», sentenziava, nel giugno 1738, il giovane, animoso e fremebondo principe reale di Prussia, che sarà di lí a un paio d’anni il re Federico II1. Alludeva al Siècle de Louis XIV di Voltaire. Il giudizio era, invero, ancora prematuro: l’opera era sgrossata, in qualche parte anche finita o quasi finita, ma ben lungi ancora dall’avere in tutto quella forma e quella veste che ebbe, e non definitiva nemmeno allora, soltanto tredici anni piú tardi, al suo primo apparire in pubblico2; il principe reale giudicava senza conoscenza piena dell’opera, e in quel giudizio, non scevro di un certo tono iperbolico e di una perentorietà troppo sicura di sé, non è difficile discernere un po’ di quella nube di incenso che in quegli anni si turibolavano a vicenda il giovane principe smanioso di figurare sulla scena del mondo e il letterato già circonfuso di fama europea; e sia pure solo, o principalmente, una fama «parmi un certain monde», come annotava con aristocratica, disdegnosa condiscendenza il duca di Saint-Simon, che quell’inquietante rampollo dei causidici Arouet aveva conosciuto e seguito, si può dire, dalla nascita, con l’occhio sospettoso e l’animo male predicente che accompagnano i giovani scapati3.
Ma, in sostanza, la posterità ha confermato il giudizio del principe di Prussia: «Jamais l’Europe n’avait vu de pareille histoire». E sí che la stagione culturale, nella quale Voltaire si era formato e viveva, e quella che lo aveva preceduto, non difettavano certo, almeno quanto al numero, di scrittori di storie. Si veda, per persuadersene, il Lenglet du Fresnoy4, cioè il piú ampio e diffuso e fortunato di quei non pochi manuali di metodica storica e di bibliografia storica che avevano corso al tempo di Voltaire: è un inventario strabiliante della produzione storiografica, e nemmeno completa, anzi solo o principalmente francese, italiana e un poco inglese, spagnuola e tedesca (ma in latino)5, degli ultimi cento o centocinquant’anni: è un pelago immenso di carta stampata che tanto piú sorprende perché questo è anche il tempo delle piú recise teorizzazioni del «pirronismo storico», cioè delle piú risolute negazioni di ogni realtà obbiettiva della storia6. Se da Leida, nei primi anni del secolo, il grecizzante Perizonio, a conclusione di una sua accademica dimostrazione, credeva di potere cantare le esequie al pirronismo storico, altre voci, dalla Francia e dalla Germania, gli ricordavano che, al contrario, esso era ben vivo: «A présent je commence à croire que toute histoire est un pyrrhonisme perpétuel», concludeva, altrettanto perentorio, il barone de La Hontan, che non era tuttavia un professionale della storia7. C’era una vena di scetticismo nel pensiero francese, che veniva da Rabelais, da Montaigne, da Charron, da Sanchez e proseguiva, nel ’600, in La Mothe Le Vayer, in Molière e nei «libertini» della fine del secolo; ma non era propriamente da questa vena che sgorgava il pirronismo storico, di cui qui si vien discorrendo. Lo scetticismo di Montaigne è uno scetticismo totale, in quanto nega alla ragione umana la capacità di giungere alla verità, qualunque sia il campo verso cui la ragione voglia dirigere i suoi sforzi: sempre cadrà inane, impari allo scopo. Che poi questa dimostrazione di nullità si cerchi di sostenere, per principio, proprio per mezzo della ragione cosí vilipesa, è un altro discorso, che si può fare ad ogni scetticismo integrale. Ma questo, di cui si fa forte il pirronismo storico della fine del ’600 e dei primi del ’700, non è uno scetticismo integrale che rinnega le virtú della ragione; anzi, in altri campi le esalta, mentre tende a metterne in rilievo la ineluttabile insufficienza e incapacità nel campo delle conoscenze storiche. Non è quindi difficile vedere le origini cartesiane di questo pirronismo, figlio di un razionalismo che fa un taglio netto fra mondo della natura e mondo della storia e nega che il secondo possa, come il primo, essere penetrato, scoperto, fatto proprio dalla ragione; e si intendeva dire la ragione matematica, astratta. La distinzione poteva essere feconda di sviluppi; per ora ci si fermò sulla proposizione che negava alla storia ogni razionalità e che andava, probabilmente, anche un poco al di là del pensiero stesso di Cartesio8.
Per grande e generale che fosse l’influsso del cartesianesimo in Francia e in Europa per un buon secolo almeno, e anche piú (quando si voglia ridurre sotto il comune denominatore razionalistico anche l’Illuminismo settecentesco), non era poi cosí grande e generale che potesse soffocare la storia, la quale vive, sia pur variamente atteggiandosi, sotto qualunque clima culturale; anzi, indirettamente, l’avvantaggiò e la promosse, costringendola a ripiegarsi su se stessa, a prendere piú netta coscienza di sé, a pensare, «chiaramente e distintamente» i suoi problemi, a difendersi, cioè ad arricchirsi di motivi offerti da quelli stessi che la impugnavano, ad opporsi ai «pirronisti», suoi negatori, che ne contestavano il diritto alla vita, vivendo. Tutto questo è specialmente visibile nell’erudizione storico-filologica dell’età cartesiana, ironizzata dal padre oratoriano Malebranche9, ma stabilita su piú solide basi metodologiche dai padri benedettini della congregazione di Saint-Maur, Mabillon e Montfaucon, per dire solo dei piú celebri e significativi. Non che essi respirassero soltanto l’atmosfera cartesiana; come nel pirronismo storico c’era un’eco anche dello scetticismo «libertino», cosí nel filologismo dei Maurini confluiva anche un dubbio metodico che non era di origine razionalistica cartesiana, ma traeva le sue origini da un empirismo formatosi, al di fuori di alti universali principî gnoseologici, nello studio critico della storia sacra vecchio-testamentaria, specialmente, e dell’agiografia10. Già i cronologisti avevano messo il campo a rumore e scossa la fiducia tradizionale, scoprendo che la traduzione greca dei Settanta calcola dalla creazione del mondo alla nascita di Abramo millecinquecento anni piú che non il testo ebraico11. E questi cronologisti non erano dei cartesiani, ma semplicemente dei filologi comparatori di testi. Già avanti Cartesio, Herbert of Cherbury, proseguendo Bacone, aveva esposto seri dubbi sulla accettabilità della rivelazione (1624); e dopo Cartesio, proseguendo Grozio e Spinoza, li aveva ripresi Richard Simon, con una critica sistematica del Vecchio e del Nuovo Testamento12, ma in maniera meno radicale di quanto solitamente la si prospetta, perché è difesa, contemporaneamente, dalla tradizione nella interpretazione dei testi sacri, nell’ispirazione divina di essi anche nei vari successivi rimaneggiamenti. Certamente, questa non era storia ancora, anzi, pareva fatta per concludere sbrigativamente che tutta la storia era un insieme di favole non credibili. Ma era fatta anche per accreditarla: contestabile, inficiata di menzogna poteva essere la storia tradizionale, non quella che la nuova critica riusciva sparsamente, fatto per fatto, ad accertare, e non solo nella critica testamentaria ma anche in altri punti della storia religiosa e profana. Come nella critica testamentaria l’erudizione cattolica era stata, generalmente, piú ardita che non quella protestante, cosí in quella agiografica la maggior audacia le veniva dalla necessità di difendersi contro gli attacchi dei protestanti che respingevano in blocco l’agiografia. Il gesuita padre Bolland e i suoi seguaci e continuatori, dal 1643 in poi, non arretrano di fronte ad agiografie sospette; e fosse o non fosse, come sospettava cento anni dopo Lord Bolingbroke che lo facessero per difendere meglio altri santi13, si deve pur dire che l’arma era a doppio taglio e poteva anche prestarsi a generalizzare il sospetto e la diffidenza su tutte le leggende e vite di santi. Il cartesianesimo in tutto questo si ripercuoteva non proprio come dubbio sistematico, ché i piú di questi critici-filologi erano persone pie e timorate di Dio, ma sí come esigenza generale della cultura di fondare le cognizioni su basi meno opinabili per mezzo di una piú rigorosa tecnica del pensare e come atteggiamento generale degli spiriti, meno ossequioso verso l’autorità degli antichi e verso la tradizione che l’aveva perpetuata.
Il cartesianesimo, dunque, che in linea teorica svalutava la storia, non si può dire poi che nel fatto, sulla storiografia in atto, avesse una influenza deprimente e paralizzante quale si potrebbe dedurre dalle sue premesse; anzi, per un rovesciamento di premesse e derivazioni cosí frequente nella storia e che ne costituisce il ritmo e la eterna originalità e creatività di forme nuove, impensabili a priori, finí col rivalutare la storia e col corroborarla, almeno nei suoi fondamenti critico-filologici; sicché, in periodo di trionfante cartesianesimo (benché qua e là vanamente e tardivamente osteggiato dall’autorità politica ecclesiastica, specie in Francia)14, il grande Bossuet doveva riconoscere, deplorandola, «cette insatiable avidité de savoir l’histoire», da cui sembravan presi i suoi contemporanei15.
Gli è che in questi grandi movimenti intellettuali (e il razionalismo cartesiano è indubbiamente un grande movimento intellettuale) conviene distinguere, per dare loro il peso e il posto che hanno nel complesso dello sviluppo storico, ciò che è enunciazione rigorosamente filosofica, quasi un tecnicismo per professionali iniziati, da ciò che è in essi lo spunto nuovo facilmente apprendibile e assimilabile e si direbbe quasi popolarizzabile, il loro fermento vitale che li fa lungamente operanti nella storia ben al di là della sempre ristretta schiera degli specialisti della filosofia; nel caso del cartesianesimo, distinguere la metafisica delle idee innate o lo scientifismo della circolazione sanguigna, dei tourbillons, ecc., dall’atteggiamento generale di dubbio rispetto alle idee e alle cognizioni comunemente tramandate attraverso le scuole e la cultura accademica, dall’invito quasi a riscoprire tutto con occhi nuovi e sgombri, non cogli occhi degli antichi, come aveva voluto la Rinascita, ma con gli occhi dei moderni. I motivi della famosa «querelle des anciens et des modernes» sono già tutti impliciti in Cartesio, e in Malebranche già tutti spiegati16, vent’anni almeno prima che traboccassero e si azzuffassero nel torneo squisitamente estetico-letterario della «querelle». Quando Voltaire, verso la metà del ’700, guardandosi addietro e tornando ai giorni della sua giovinezza, diceva che il cartesianesimo era venuto morendo verso il 1730 in Francia17, diceva cosa esatta, riferendosi a quel primo cartesianesimo strettamente filosofico; ma diceva cosa inesatta per l’altro cartesianesimo, quello dei non-filosofi, quello per cosí dire pandemio, divenuto abito mentale di tutta una cultura; ché anzi proprio allora, questo altro cartesianesimo, sia pur arricchito e complicato di altri motivi e filoni di idee (deismo ed empirismo di origine inglese, panteismo-ateismo spinoziano, ecc.) si apprestava, attraverso gli sviluppi del razionalismo illuministico fino al materialismo holbachiano, a celebrare i suoi piú grandi...