Spartaco
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Spartaco

Le armi e l'uomo

  1. 168 pagine
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Spartaco

Le armi e l'uomo

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Roma, anni Settanta del i secolo avanti Cristo. La terribile realtà dello schiavismo imperiale romano nell'epoca del suo culmine: fenomeno atroce e complesso, ma difficile da decifrare, perché gli antichi, che in tanti stati dell'anima ci sembrano vicinissimi, quando parlano dei loro schiavi, rivelano d'improvviso tutto l'abisso che li divide da noi. Un uomo che tentò di sconfiggere la Repubblica all'apice della potenza; il «miracolo» economico romano; la piú famosa e pericolosa rivolta servile della storia antica; la crisi delle istituzioni e dei gruppi dirigenti che avrebbe portato, qualche decennio dopo, al colpo di stato di Augusto. Quando la storia sa diventare autentico racconto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858421772

Capitolo terzo

Il soccombente

1. Quali erano i piani di Spartaco? Di quel che aveva in mente, non sappiamo nulla in modo diretto. La sua psicologia, il suo paesaggio interiore, ci sono completamente interdetti: un tema affascinante, ma del tutto oscuro. Le intenzioni del nostro protagonista sono solo deducibili dalla scarna sequenza delle sue azioni.
Se avesse pensato, sia pure soltanto adesso, di andar via dall’Italia, aveva di fronte un’occasione irripetibile. E se, prima, fosse stato trattenuto dall’atteggiamento di Crisso e dei suoi, come sembra supporre una parte della tradizione antica, ebbene, adesso era solo. Si era già spinto molto avanti verso il nord, sino alle soglie della pianura padana, e fra lui e le Alpi, a Oriente come a Occidente, dopo la sconfitta di Cassio Longino e di Manlio, il dispositivo militare romano non era che un velo fragilissimo, da potersi lacerare in qualunque punto, e in qualunque momento.
Ma Spartaco, ancora una volta, non scelse questa strada: semplicemente perché non l’aveva mai voluta. Aveva sempre inseguito altri progetti.
Organizzò dei grandiosi funerali in onore di Crisso – prova ulteriore che non c’era stata alcuna rottura con lui – nel corso dei quali sacrificò trecento prigionieri romani (Orosio scrive quattrocento), facendoli combattere fino alla morte in giochi gladiatori in onore del defunto: un capovolgimento simmetrico e terribile, destinato a provocare negli spettatori uno shock emotivo fortissimo, che invertiva clamorosamente i ruoli fra le vittime e i carnefici, e dava all’esercito di Spartaco la sensazione tangibile della posizione raggiunta, misurata sulla memoria del piú recente passato: erano diventati un’armata di uomini liberi, impegnati in una spietata campagna in territorio nemico, e autorizzati dalle consuetudini belliche a trattare come schiavi i loro prigionieri.
Poi, distrutti i bagagli non indispensabili, eliminati gli animali inutili, e ucciso in modo sommario quel che restava dei romani catturati (accadeva, nelle guerre antiche), Spartaco invertí la direzione di marcia, e puntò verso il sud, verso la capitale: «si diresse su Roma», scrive inequivocabilmente Appiano – e anche Floro riporta la stessa notizia, mentre da Ampelio sembrerebbe addirittura che Spartaco avesse già deciso d’incendiarla. Una valutazione realistica delle sue forze ci fa ritenere che avesse con sé non meno di sessanta-settantamila combattenti.
C’è a questo punto, sempre nel resoconto di Appiano, un piccolo particolare, un dettaglio in apparenza trascurabile, ma trattenuto forse non a caso da chi lo aveva riferito per primo. Dobbiamo valutarlo con cura.
Spartaco dunque stava ultimando i preparativi prima di muovere le truppe: «… e poiché si presentavano a lui molti disertori, non ne accolse alcuno». Non c’è ragione di dubitare del fatto, che Appiano trascriveva probabilmente da Sallustio (o magari da Livio). E allora? Cosa aveva spinto Spartaco a questa decisione, se ancora pochi mesi innanzi, fra la Campania e la Lucania, egli si era adoperato a reclutare uomini d’ogni tipo, purché capaci di impugnare le armi?
Credo che questa lieve incongruenza – come una smagliatura appena percettibile nella trama del racconto appianeo – nasconda una traccia importante, che dà conto della trasformazione avvenuta nella strategia della guerra. Quella stessa che abbiamo immaginato essere stata concepita nel lungo inverno precedente, e già anticipata nella separazione da Crisso. Alla sua base ritroviamo una nuova percezione che Spartaco aveva maturato di se stesso e della sua impresa.
I disertori venivano adesso respinti perché Spartaco non si sentiva piú il capo di un’armata di fuggitivi e di sbandati, ma si comportava ormai come un autentico comandante sul campo, un condottiero vittorioso venuto dall’Oriente, che la predestinazione divina aveva messo alla testa di un vero esercito, impegnato per un obiettivo che avrebbe mutato il corso della storia: colpire al cuore la potenza romana, e sottrarre l’Italia al suo dominio. Negli stessi mesi, si combatteva anche in Tracia, contro il proconsole Marco Terenzio Lucullo, che da console del 73, l’anno precedente, con Gellio, aveva assistito senza intervenire all’avvio della rivolta e alla sconfitta del pretore Varinio. Piú a est infuriava la guerra con Mitridate. È probabile che le coincidenze fossero note ai ribelli in Italia: e questo doveva accrescere in loro la sensazione di sentirsi protagonisti di un grande disegno. Possiamo immaginare che Spartaco non fosse lontano da questi pensieri. Quel che nell’inverno tra il 73 e il 72 forse non era stato piú di una prima intuizione, prendeva adesso, dopo le vittorie della primavera, una consistenza ben diversa.
Nella nuova prospettiva, la schiavitú era se non proprio dimenticata, almeno messa tra parentesi; non erano piú gli schiavi, i disertori, i disperati, gli irregolari – la «feccia del popolo» secondo l’espressione che poi avrebbe usato Cicerone – gli uomini cui bisognava unirsi. Se l’obiettivo era Roma, dovevano cambiare la qualità e il peso degli alleati. Si doveva poter contare su rivolte piú estese (lo vedremo meglio fra un attimo, in un secondo dettaglio rivelatore), dare altre basi alle operazioni di reclutamento e di ricerca delle risorse. Lo si era già tentato con Crisso, mandato a incendiare l’Apulia, per rinnovare le sollevazioni antiromane della guerra annibalica e di quella sociale. Ma l’inesperienza del capo gallo – forse sopravvalutato da Spartaco – aveva impedito al piano di prendere forma. Ora era arrivato il momento di ritentare, di costruire intorno all’esercito vittorioso qualcosa che somigliasse a un vero sistema di alleanze, finalmente radicato sul territorio. A questo scopo i disertori non servivano, e potevano addirittura sortire l’effetto contrario; occorreva invece andare verso un cambiamento deciso nella condotta della guerra.
La mia congettura è, insomma, che gli ultimi successi contro gli eserciti consolari avessero dato la spinta decisiva alle ambizioni e ai disegni di Spartaco, proiettandoli fuori dell’orbita della schiavitú. Non era piú un ex gladiatore colui che concepiva il disegno di puntare dritto contro Roma; né un simile obiettivo poteva essere raggiunto limitando la rivolta agli schiavi. L’idea ora abbracciata da Spartaco era quella di un grande comandante antiromano (cui era anche capitato di restare per qualche tempo prigioniero dei suoi nemici), che non poneva limiti alla sua strategia per condurre un’impresa memorabile: sconfiggere, in casa loro, e sfruttando i loro punti di debolezza, i padroni del mondo.
Spartaco, adesso, stava assumendo nuovi modelli cui ispirarsi. E in quelle circostanze, non poteva che essere Annibale il suo riferimento. Egli voleva portarne a compimento l’opera, ritenendo di poter cogliere le opportunità aperte dalle nuove ferite della guerra sociale e forse anche dagli sviluppi della lotta politica romana. Il confronto con il condottiero cartaginese ritorna infatti in Eutropio e in Orosio, probabilmente suggerito da Livio: ed è facile credere che si trattasse di un motivo risalente agli stessi anni di Spartaco – il nuovo Annibale, appunto.
2. Quella che stiamo proponendo è la sola spiegazione plausibile per comprendere i mesi cruciali dell’estate del 72. Due elementi che si sono venuti sovrapponendo, mi sembra, hanno contribuito a lungo a offuscarla: l’uno già antico, l’altro, invece, moderno. Il primo è l’immagine, solidissima nella tradizione romana, che ha cercato di inchiodare Spartaco al ruolo di schiavo fuggitivo, con l’eccezione, probabilmente, del solo Sallustio (vi ritorneremo). Egli non poteva essere che quella maschera. E dunque non poteva – seguendo lo stereotipo del fuggiasco – che voler ritornare innanzitutto a casa; e i suoi disegni dovevano comunque essere circoscritti al mondo servile, o per meglio dire, al modo in cui i romani si rappresentavano quel mondo – all’antropologia schiavista dei padroni. Tutto il resto finiva inevitabilmente tagliato fuori dalla costruzione letteraria e storica del personaggio, e appariva solo, e confusamente, ai margini estremi della figura. Noi, al contrario, stiamo cercando di riportare al centro della scena proprio il suo lato oscurato.
Il secondo elemento che ha ostacolato la nostra comprensione appartiene invece al mito moderno di Spartaco come interprete e massimo esponente di una piú o meno latente «coscienza di classe» degli schiavi romani: la sua rivolta avrebbe rappresentato il tentativo in qualche modo consapevole di una «rivoluzione servile» – e solo di quella – destinata a rovesciare, nelle intenzioni, le basi schiavistiche della società imperiale.
Entrambi questi punti di vista – l’antico e il moderno – hanno finito con il darsi reciprocamente man forte almeno su un punto, essenziale, che è proprio quello che noi stiamo mettendo in discussione: il confinamento dell’avventura di Spartaco e del suo significato solo all’interno dell’orizzonte della schiavitú romana – un limite da non oltrepassare in qualunque interpretazione.
Ma si tratta di due pregiudizi, egualmente infondati.
Del primo, abbiamo già avuto modo di dire. Fin dall’inizio, Spartaco non aveva mai progettato di fuggire dall’Italia, ma solo di combattere Roma, nelle condizioni migliori possibili. E da un certo momento in poi, diciamo dall’inizio della campagna del 72, e soprattutto dopo le vittorie sugli eserciti consolari in Appennino, questa decisione aveva preso la forma di un piano di attacco diretto contro la città, che non avrebbe potuto essere in alcun modo realizzato se la lotta fosse rimasta rinchiusa soltanto entro i confini di un’insurrezione di schiavi. Spartaco progettava qualcosa di diverso: un’iniziativa capace di investire l’insieme dell’egemonia romana in Italia, e (probabilmente) del controllo aristocratico sulla «res publica». Almeno dalla primavera del 72, egli aveva smesso di percepirsi come un capo di schiavi ribelli, e si comportava come il leader di un movimento antiromano che doveva andare molto al di là delle origini servili della rivolta.
Quanto al secondo degli elementi che abbiamo indicato, esso ci conduce al cuore di un fraintendimento assai grave, e merita qualche parola di piú.
In realtà, molto al di là del solo episodio di Spartaco, nessuna forma di «coscienza di classe» è mai esistita nella storia di Roma – e tantomeno gli schiavi ne hanno mai avuta una – per la semplice ragione che nella storia sociale antica non si può mai rintracciare la presenza di autentiche ‘classi’, nel senso moderno e forte di questa parola: ma solo di stratificazioni sociali, anche molto articolate, la cui dinamica e i cui contrasti, tuttavia, non diedero mai vita a strutture propriamente di classe. La loro nascita avrebbe presupposto condizioni che invece non si realizzarono mai in quel contesto. Lo stabilirsi, cioè, di un rapporto su larga scala, e giuridicamente paritario, fra padroni di terre e di manifatture da un lato, contadini e lavoratori degli opifici dall’altro, come sarebbe accaduto nell’Europa moderna fra possessori dei mezzi di produzione, e possessori (liberi) della propria forza lavoro. Una relazione che non emerse mai nelle società antiche, nemmeno in quella romana del I secolo, bloccate su questa strada proprio dal diffondersi della schiavitú, che con il suo intrinseco carattere coercitivo impediva al lavoro di presentarsi diffusamente sul mercato sotto forma di merce vendibile da lavoratori liberi, e quindi di dar vita a una struttura di classe. Quest’ultima presuppone sempre, infatti, l’esistenza di un mercato della forza lavoro, con le tensioni che storicamente vi si possono sprigionare fra l’eguaglianza formale dei contraenti, e la diseguaglianza sostanziale del loro diverso potere sociale ed economico. Mentre lí era l’intero schiavo, e non la sua sola capacità lavorativa, a figurare come merce. Il vincolo di dipendenza personale – la condizione di schiavo che riduceva gli uomini a cose – cancellava la separazione decisiva fra la persona del lavoratore e la vendita della sua forza lavoro – che è stata l’anima della modernità – e impediva perciò che si creasse la scissione costitutiva del rapporto di classe. L’esistenza di quella subordinazione aveva un’origine e una regolazione del tutto extraeconomica, e questo costituiva un limite insuperabile al formarsi delle classi: perché non metteva mai di fronte lavoratori e proprietari di terre o di manifatture, ma lasciava in campo sempre un’unica figura: colui che – secondo il peculiare modello signorile – era nello stesso tempo proprietario di terra (piú raramente di manifatture) e padrone di schiavi. Né consentiva di sviluppare quell’autopropulsività del processo produttivo tipica dei sistemi economici moderni, poiché mentre l’operaio libero è in certo senso ‘creato’ nella sua condizione di operaio dalla fabbrica, dalla produzione e dal contratto, lo schiavo non era ‘creato’ nella sua condizione servile dal latifondo o dalla villa, ma da cause extramercantili, al di fuori del ciclo economico, come la prigionia in guerra, o le razzie della tratta; poteva essere comprato e venduto, ma non poteva essere ‘prodotto’, in quanto schiavo, dal processo economico. In latino, non esisteva nemmeno una parola per esprimere la nozione (inesistente) di lavoro umano astratto, nel suo pieno significato moderno. Questa sarebbe nata in Europa solo con la rivoluzione industriale.
La società romano-italica del I secolo era certo una formazione molto articolata, che comprendeva di tutto: dall’«ordine senatorio» della grande rendita agraria, all’«ordine equestre» dei gruppi affaristici – commercianti, usurai, appaltatori d’imposte, proprietari di manifatture e di botteghe – a quel che restava dei vecchi ceti di piccoli contadini-possidenti, alla plebe urbana, alle masse di schiavi, ai disperati delle campagne. Ed era anche attraversata da contrasti politici feroci (qualcosa ne diremo fra poco). Ma rimase sempre una società di «ordini», di «status», non di classi, dove l’economia ebbe un ruolo importante ma non decisivo nel formarsi delle gerarchie sociali, rispetto al peso di altre funzioni: di volta in volta, nelle diverse epoche: i rapporti di parentela, la politica e gli uffici, le carriere militari, il potere burocratico. Un universo comunque incapace – per ragioni sia culturali, sia collegate all’intrinseca fragilità di una struttura produttiva soltanto servile – di innescare al proprio interno un’autentica accumulazione capitalistica, o qualcosa di simile a un decollo industriale, e mai in grado di dar vita a strati sociali ‘borghesi’, che riuscissero a mettere davvero al centro dei loro obiettivi la produttività e il reinvestimento, piuttosto che la rendita. Siamo sempre di fronte, insomma, a società unilineari, a vocazione esclusivamente signorile e aristocratica, con alla base masse plebee sformate dalla mancanza di lavoro e di legami sociali, e, ancora piú in giú, enormi quantità di schiavi cui era affidata per intero, nelle campagne, quasi tutta la produzione della ricchezza. E non è infatti un caso se nell’intero territorio dell’impero, dal Reno all’Eufrate, non è possibile per noi rintracciare (né archeologicamente, né per altra via) alcun insediamento che possa lasciarci presumere l’esistenza di una sola area industriale comparabile con quelle moderne, anche solo settecentesche.
Credo perciò che la dilatazione arbitraria del paradigma delle classi e delle loro (eventuali) forme di coscienza, fino a farne una specie di chiave universale dell’interpretazione storica, è stato (ed è tuttora) una delle forme peggiori di inquinamento della conoscenza del passato mai prodotte dalla cultura europea fra XIX e XX secolo. La divisione delle società in classi – se non diamo a questa parola solo un significato genericissimo e metaforico che travalica ogni definizione scientifica in termini di analisi sociale – è un fenomeno proprio soltanto alle società nate intorno alla rivoluzione industriale, e dunque limitato alla loro storia. La ‘lotta di classe’, che è un fatto grandioso e generativo della modernità stessa dell’Occidente (anche se, a essere rigorosi, non di tutta), individua uno specifico modello di conflitto e di soggettività collettiva il cui schema non può essere trasportato al di fuori del suo tempo storico: né all’indietro per spiegare Roma o la Grecia, né in avanti, sul nostro presente postindustriale – come ci stiamo bene accorgendo in questi anni.
Le rivolte degli schiavi romani non riuscirono perciò mai ad assumere un connotato di classe, né in Sicilia né altrove: furono innescate da masse servili labilmente unite da quella che ritenevano una comune sventura di cui liberarsi, non dalla percezione condivisa di un sistema economico da rovesciare una volta per tutte. E infatti nulla dei comportamenti che possiamo ricostruire ci autorizza a supporre – se non una proiezione moderna – che Spartaco abbia mai agito deliberatamente nel nome di tutti gli schiavi di Roma, o lottato per un loro generale riscatto, e che si sentisse comunque vincolato da uno schema classista; né, tantomeno, che nelle masse servili del I secolo ci fosse la consapevolezza di un orizzonte comune, di un legame che potesse avere un valore in qualche modo ‘politico’, e che esse abbiano mai vissuto la figura di Spartaco come quella di un liberatore universale.
Certo, il pensiero degli schiavi romani è per noi un universo perduto: nessuna voce ci è mai arrivata da quel mondo, se non filtrata attraverso la sensibilità e i pregiudizi dei padroni – la scrittura non era per loro; come del resto è perduta la quasi totalità dei miseri beni che riempivano la loro vita d’ogni giorno: perché sottoterra – nonostante i prodigi dell’archeologia – riusciamo a ritrovare i manufatti posseduti dai ricchi e dai potenti (grandi edifici, oggetti dell’uso quotidiano costruiti per durare), ma assai meno le cose della povera gente, ricavate da materiali piú umili e deperibili, che il tempo provvedeva subito a spazzar via: cancellate – come i sentimenti, il folklore, gli stati mentali – dalla irrimediabile distruttività che la storia riserva al ricordo dei deboli.
Siamo però in grado di dire che la schiavitú imperiale costituiva una galassia sociale polverizzata in una miriade di servizi e di funzioni produttive estremamente frammentata, all’interno della quale tutto lascia presumere che prendessero corpo attitudini soggettive e scelte personali assai differenziate – dalla resistenza e dal sabotaggio, fino alla completa adesione allo stile di vita dei padroni. Senza dubbio, Spartaco aveva raccolto nelle sue file combattenti in larga o larghissima parte di provenienza servile – non avrebbe potuto fare altrimenti, nelle circostanze date – e la sua sola presenza rappresentava un fattore di fortissima destabilizzazione per tutto il sistema schiavistico: di questo pericolo i romani erano evidentemente ben coscienti. Niente però lascia credere che egli avesse in mente qualcosa di simile a una «rivoluzione servile». La possibilità che la sua rivolta si allargasse, fino a coinvolgere in modo generalizzato e orizzontale le masse di schiavi che vivevano entro i confini dell’impero, era molto di piú, in quegli anni, un incubo dei ceti possidenti romano-italici, che una strategia del condottiero trace: un fantasma generato dal terrore dei padroni, assai piú che una possibilità effettivamente perseguita dalle loro vittime.
3. Una volta in movimento verso sud, le notizie sugli spostamenti di Spartaco e sulla sequenza degli scontri si ingarbugliano, nelle fonti di cui disponiamo, e probabilmente vi è piú d’una confusione nel racconto di Plutarco. Ma un fatto è sicuro. Nella sua marcia di avvicinamento Spartaco non scelse la via piú breve per Roma, che lo avrebbe portato a non discostarsi dalla dorsale appenninica e dalle grandi vie consolari, ma operò invece una deviazione verso est – come Annibale dopo il Trasimeno, nel 217 – e lo ritroviamo, ancora in estate, nel Piceno.
Perché proprio lí? L’unica risposta plausibile è che egli abbia cercato, prima di investire la capitale, di portare dalla sua parte popolazioni importanti, di acquistare profondità, di dare un retroterra al suo esercito. Il Piceno era stato uno dei principali focolai di rivolta durante la guerra sociale, e adesso Spartaco stava evidentemente provando a riaprire quella piaga, a ricostituire in quei luoghi un fronte antiromano.
I consoli, che avevano intanto ricompattato le loro legioni anche con nuovi reclutamenti, lo raggiunsero, per contrastarlo, «ai confini» della regione. Spartaco non li eluse – si sentiva ormai abbastanza forte – e lo scontro che ne seguí assunse i tratti di una vera battaglia campale, probabilmente combattuta in due fasi. In inferiorità numerica, è probabile che i romani abbiano cercato di aggirare il nemico, tentando un’ampia manovra su un fianco. Ma Spartaco non cadde nella trappola: e riuscí ad annientare la colonna – forte di due legioni, e comandata da un legato dei consoli, Mummio – che cercava di prenderlo alle spalle («molti caddero sul campo, molti gettarono le armi e si salvarono fuggendo»), per poi investire il resto delle forze romane, e respingerlo, con gravi perdite. Ora Roma era davvero vicina, e «la città era atterrita, presa da una paura non minore di quanto aveva trepidato con il fremente Annibale alle porte». Come allora, il pericolo arrivava da est: la prima volta dalle rive dell’Ofanto, dopo Canne; ora dall’estremo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Spartaco
  3. Prima dell’inizio
  4. Spartaco
  5. I. Il fuggitivo
  6. II. Il condottiero
  7. III. Il soccombente
  8. Fonti e bibliografia
  9. Le citazioni e qualche libro ancora
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright