Eclisse della ragione
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Eclisse della ragione

Critica della ragione strumentale

  1. 176 pagine
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Eclisse della ragione

Critica della ragione strumentale

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Nato da una serie di lezioni tenute alla Columbia University nel 1944, questo libro è una esposizione, ormai classica, del pensiero della «scuola di Francoforte» nel periodo in cui Horkheimer e Adorno vivevano in America e mettevano a punto i testi della Dialettica dell'illuminismo. La ragione di cui si delinea la crisi è la ragione oggettiva, sostituita nella moderna società industriale dalla ragione soggettiva, strumentale, che non bada alla razionalità dei fini, ma solo all'efficacia dei mezzi. La filosofia, che Horkheimer difende contro i tentativi dei pragmatisti e dei neopositivisti di risolverla nei moduli puramente strumentali del sapere scientifico e tecnologico, addita la necessità di conciliare ragione soggettiva e oggettiva, ma tale conciliazione può aver luogo solo in un mondo emancipato. Se la filosofia è ancora indispensabile, il suo compito - avverte Horkheimer -non va quindi sopravvalutato: «la denuncia di ciò che attualmente viene chiamato ragione è il massimo servigio che la ragione possa rendere».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420737

Capitolo primo

Mezzi e fini

Quando chiediamo all’uomo comune di spiegare che cosa s’intende col termine ragione, quasi sempre lo vediamo esitante e imbarazzato. Sarebbe un errore credere che questo atteggiamento indichi una saggezza troppo profonda o un pensiero troppo astruso per poter essere tradotti in parole. In realtà, esso tradisce la sua sensazione che non ci sia nulla da chiedere, che il concetto di ragione si spieghi da sé e che la domanda sia superflua. Quando insistiamo perché ci dia una risposta, l’uomo medio dirà che le cose ragionevoli sono le cose di evidente utilità, e che da tutti gli uomini ragionevoli ci si deve aspettare che sappiano capire che cosa è utile per loro. Naturalmente bisogna tener conto delle circostanze particolari ad ogni situazione, oltre che delle leggi, dei costumi, delle tradizioni. Ma la forza che in ultima analisi rende possibili azioni ragionevoli è la facoltà di classificare, la facoltà di induzione e di deduzione, cioè il funzionamento astratto del meccanismo del pensiero, sempre identico quale che sia il contenuto specifico. Questo tipo di ragione si può chiamare ragione soggettiva. Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto fra mezzi e fini, l’idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che in genere si dànno per scontati e che si suppone si spieghino da sé. Essa non attribuisce molta importanza alla questione se in sé gli scopi siano ragionevoli. Se si preoccupa dei fini (ammesso che lo faccia), dà per certo che anche essi siano «ragionevoli» in senso soggettivo, che cioè rispondano all’interesse del soggetto per l’autoconservazione: si tratti dell’autoconservazione dell’individuo singolo o di quella della comunità, dalla cui sopravvivenza quella dell’individuo dipende. L’idea che un fine possa essere ragionevole in sé – in forza di virtú che conosciamo che esso possiede in sé – indipendentemente da un qualche vantaggio soggettivo, è completamente estranea alla ragione soggettiva anche quando, sollevandosi al di sopra della considerazione dei valori immediatamente utilitari, essa tiene conto dell’interesse della società nel suo complesso.
Per quanto ingenua e superficiale possa sembrare tale definizione della ragione, essa è il sintomo importante di un profondo mutamento avvenuto negli ultimi secoli nel pensiero occidentale. Per molto tempo era prevalsa una concezione diametralmente opposta della ragione; secondo questa concezione, la ragione esisteva non solo nella mente dell’individuo ma anche nel mondo oggettivo: nei rapporti fra gli esseri umani e fra le classi sociali, nelle istituzioni sociali, nella natura e nelle sue manifestazioni. Grandi sistemi filosofici, come quelli di Platone e di Aristotele, la filosofia scolastica e l’idealismo tedesco, furono impostati sulla base di una teoria oggettiva della ragione. Partendo da questa, si era cercato di stabilire una gerarchia di tutti gli esseri, in cui erano compresi l’uomo e i suoi fini. Il grado di ragionevolezza di una vita umana dipendeva dalla misura in cui essa si armonizzava con la totalità; e la struttura oggettiva di questa – non solo l’uomo e i suoi fini – doveva rappresentare la pietra di paragone per saggiare la ragionevolezza dei pensieri e delle azioni individuali. Questa concezione non negava l’esistenza della ragione soggettiva, ma la considerava solo un’espressione limitata e parziale di un’universale razionalità da cui si deducevano criteri per tutte le cose e per tutti gli esseri. Quel che piú contava, nell’ambito di tale concezione, erano i fini, non i mezzi. Scopo supremo di questo tipo di pensiero era riconciliare l’ordine oggettivo del «ragionevole», cosí come lo concepiva la filosofia, con l’esistenza umana (compresi l’amor di sé, l’interesse egoistico, il desiderio di sopravvivenza). Per esempio Platone, nella sua Repubblica, cerca di dimostrare che chi vive nella luce della ragione oggettiva vive anche un’esistenza felice e fortunata. La teoria della ragione oggettiva non era imperniata sulla coordinazione di comportamento e fine ma su concezioni – per quanto mitologiche possano sembrarci oggi – riguardanti l’idea del massimo bene, il problema del destino umano, il modo di realizzare i fini ultimi.
C’è una differenza fondamentale fra questa teoria, secondo la quale la ragione è un principio immanente alla realtà, e la dottrina secondo la quale la ragione è una facoltà soggettiva della mente. Secondo quest’ultima dottrina solo il soggetto può, propriamente parlando, possedere la facoltà della ragione: quando diciamo che un’istituzione o una qualunque altra realtà sono ragionevoli, in genere intendiamo dire che gli uomini le hanno organizzate in modo ragionevole, applicando ad esse, in modo piú o meno tecnico, la loro capacità di logica e di calcolo. In ultima analisi, la ragione soggettiva è la capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine. Tale definizione si accorda perfettamente con le idee di molti filosofi eminenti, in particolare con quelle dei pensatori inglesi da John Locke in poi. Naturalmente Locke tenne il debito conto di altre funzioni mentali che potevano esser fatte rientrare nella stessa categoria, per esempio il discernimento e la riflessione; ma queste funzioni contribuiscono indubbiamente a quella coordinazione di mezzi e fini che dopo tutto è il fine sociale perseguito dalla scienza e in certo modo la ragion d’essere della teoria nel processo sociale della produzione.
Nell’ambito della concezione soggettivistica, quando si parla di «ragione» per definire non un atto ma una cosa o un’idea, ci si riferisce esclusivamente al rapporto di quell’oggetto o concetto con un certo fine, non all’oggetto o al concetto in sé; si vuole cioè dire che l’oggetto o il concetto sono buoni per qualcos’altro. Nessun fine è ragionevole in sé, e non avrebbe senso cercar di stabilire quale, di due fini, sia piú «ragionevole» dell’altro; dal punto di vista soggettivistico un paragone del genere è possibile solo quando i due fini servono a un terzo, superiore ad entrambi, se cioè non sono fini ma mezzi1.
Il rapporto fra questi due modi di concepire la ragione non è semplicemente di opposizione: storicamente, sia l’aspetto soggettivo sia quello oggettivo della ragione sono stati presenti sin da principio, e il predominio del primo sul secondo è il frutto di un lungo processo. La ragione nel suo senso proprio di logos, o ratio, è sempre stata messa in rapporto con il soggetto, con la sua facoltà di pensare. Tutti i termini usati per indicarla erano in origine espressioni soggettive; cosí il termine greco logos ha la stessa radice di λέγειν, «dire», che indica la facoltà soggettiva di parlare. La facoltà soggettiva di pensare fu l’agente critico che distrusse la superstizione; ma nel denunciare la mitologia come falsa oggettività, cioè come creazione soggettiva, essa dovette far uso di concetti che considerava appropriati, e in questo modo creò una nuova oggettività. Nel platonismo la teoria pitagorica dei numeri, che aveva le sue origini nella mitologia astrale, si trasformò nella teoria delle idee che cercò di definire il contenuto ultimo del pensiero come un’oggettività assoluta al di là del pensiero, benché in rapporto con esso. La crisi odierna della ragione consiste fondamentalmente nel fatto che a un certo punto il pensiero è diventato incapace di concepire una tale oggettività, o ha cominciato a negarla affermando che si tratta di un’illusione. Il processo si è allargato gradualmente fino ad investire il contenuto oggettivo di tutti i concetti razionali; alla fine nessuna realtà particolare può essere considerata ragionevole in sé; tutti i concetti fondamentali, svuotati del loro contenuto, hanno finito per essere solo involucri formali. Soggettivizzandosi, la ragione si è anche formalizzata2.
Il formalizzarsi della ragione ha implicazioni teoriche e pratiche di vasta portata. Per la concezione soggettivistica, il pensiero non può essere di nessuna utilità per stabilire se un fine è desiderabile in sé. La validità degli ideali, i criteri delle nostre azioni e convinzioni, i principî basilari dell’etica e della politica, tutte le nostre decisioni fondamentali son fatti dipendere da fattori diversi dalla ragione: da una scelta, da una predilezione soggettive. Ed appare ormai privo di senso parlare di verità nel prendere decisioni pratiche, morali o estetiche. «Un giudizio di fatto, – dice Russell3, uno dei piú oggettivisti fra i filosofi soggettivisti, – è suscettibile di possedere una qualità chiamata “verità”, e la possiede o non la possiede indipendentemente da quello che io o voi ne possiamo pensare… Ma… non vedo nessuna proprietà analoga alla “verità”, che un giudizio etico possa possedere o non possedere. Bisogna ammettere che questo pone l’etica in una categoria diversa da quella della scienza». Russell è però consapevole, piú di quanto lo siano altri filosofi, delle contraddizioni insite nella sua teoria. «Un sistema incoerente può benissimo contenere meno falsità di uno coerente»4. E in contraddizione con il suo sistema filosofico, che considera soggettivi «i fondamentali valori etici»5, altrove egli sembra istituire una distinzione fra le qualità morali oggettive delle azioni umane e la nostra percezione di esse: «Quello che è orribile, io lo vedrò come orribile». Russell ha il coraggio dell’incocrenza e cosí, sconfessando certi aspetti della sua logica antidialettica, rimane un filosofo e nello stesso tempo un umanista. Se volesse tenere fermo con coerenza alla sua teoria scientistica, dovrebbe ammettere che non esistono azioni orribili né condizioni disumane, e che il male che noi vediamo è solo una illusione.
Secondo queste teorie il pensiero può servire per qualunque scopo, buono o cattivo. È uno strumento di tutte le azioni della società, ma non deve cercare di stabilire le norme della vita sociale o individuale, che si suppone siano stabilite da altre forze. Nelle discussioni profane come in quelle scientifiche, la ragione ha finito per essere comunemente considerata come una facoltà intellettuale di coordinazione la cui efficienza può essere aumentata con l’uso metodico e con la rimozione di tutti i fattori non intellettuali, come le emozioni consce o inconsce. In realtà, la ragione non ha mai guidato la realtà sociale; ma adesso è stata depurata cosí a fondo d’ogni tendenza o preferenza specifiche, ch’essa ha rinunciato persino a giudicare le azioni e il modo di vivere dell’uomo, che affida ormai, per una sanzione definitiva, ai contrastanti interessi di cui il nostro mondo sembra oggi alla mercè.
La ragione è dunque relegata in una posizione subordinata, in netto contrasto con le idee dei pionieri della civiltà borghese, rappresentanti politici e spirituali della borghesia in ascesa, i quali erano concordi nel credere che la ragione fosse uno dei fattori fondamentali, o addirittura il piú importante, del comportamento umano. Per loro, buon governo era quello le cui leggi erano conformi alla ragione; la politica nazionale e internazionale era giudicata in base al suo conformarsi o meno alle norme della ragione; si credeva che quest’ultima determinasse le nostre preferenze e i rapporti degli uomini fra loro e con la natura. Si pensava alla ragione come a un’entità, a una forza spirituale presente in ogni uomo; e tale forza era considerata come l’arbitro supremo anzi come una forza creativa che stava dietro le idee e le cose cui gli uomini dovevano consacrare la loro esistenza.
Oggi quando uno di noi è chiamato a render conto delle proprie responsabilità in un incidente automobilistico e il giudice gli chiede se guidava in modo ragionevole la domanda significa: «Ha fatto tutto quello che era in suo potere per rispettare la vita e la proprietà sue ed altrui e per obbedire la legge?» Il giudice dà per implicito che tali valori vadano rispettati; la sua domanda riguarda solo il problema se il comportamento dell’automobilista si sia conformato a queste norme di validità generalmente riconosciuta. Nella maggior parte dei casi, essere ragionevoli significa non essere ostinati, cioè adattarsi alla realtà cosí come è; il principio dell’adattamento si dà per scontato. I primi filosofi che concepirono l’idea di ragione, pensarono ch’essa potesse servire a qualcosa di piú che non semplicemente a regolare i rapporti fra mezzi e fini; la considerarono uno strumento capace di comprendere i fini, addirittura di stabilirli. Socrate morí per aver sottoposto le idee piú sacre e piú comunemente accettate della sua comunità e del suo paese alla critica del «demone», o pensiero dialettico, come lo chiamò Platone. Nel far questo, egli si batté contro il conservatorismo ideologico e contro il relativismo mascherato da progressismo ma in realtà subordinato a interessi personali e professionali; in altre parole, si batté contro la ragione soggettiva e formalistica di cui si facevano campioni gli altri sofisti. Mettendo in crisi le tradizioni religiose della Grecia, il way of life ateniese, egli preparò il terreno per forme di vita sociale e individuale radicalmente diverse. Socrate era convinto che la ragione, intesa come intelligenza universale, dovesse determinare le convinzioni umane e regolare i rapporti fra uomo e uomo e fra uomo e natura.
Benché proprio nella sua dottrina si possano trovare le origini filosofiche della concezione secondo la quale il soggetto è in ultima istanza l’unico giudice del male e del bene, egli non parlava della ragione e dei suoi verdetti come di puri nomi e convenzioni, ma credeva che riflettessero la vera natura delle cose. Per quanto negativistiche possano essere state le sue dottrine, in esse era implicita l’idea di una verità assoluta, e Socrate le presentava come intuizioni oggettive, addirittura come rivelazioni. Il suo demone era un dio piú spirituale ma non meno reale di quanto si credeva che fossero gli altri dei; per Socrate e per i suoi seguaci il suo nome denotava una forza viva e reale. Nella filosofia platonica il demone socratico, che è forza intuitiva e coscienza, il nuovo dio che vive nel soggetto singolo, ha detronizzato i suoi rivali o quanto meno li ha trasformati in miti. Essi sono diventati idee. Platone non dubita neppure che queste possano essere sue creature, prodotti o contenuti simili alle sensazioni del soggetto, come vuole la teoria dell’idealismo soggettivo. Al contrario, esse conservano alcune prerogative degli antichi dei: abitano una sfera piú alta e piú nobile di quella in cui vivono gli uomini, sono modelli, sono immortali. A sua volta il demone si è trasformato nell’anima, e l’anima è l’occhio capace di percepire le idee; essa si rivela come visione della verità o come facoltà del soggetto di percepire l’ordine eterno delle cose e di conseguenza la linea d’azione che l’uomo deve seguire nell’ordine temporale.
Il termine «ragione oggettiva» indica cosí da una parte, come essenza di essa, una struttura immanente alla realtà che di per sé impone in ogni caso specifico uno specifico tipo di comportamento, si tratti di un atteggiamento pratico o teoretico. Questa struttura si manifesta a colui che si sobbarca alla fatica di pensare dialetticamente o che (ed è lo stesso) è capace di eros. D’altra parte, il termine «ragione oggettiva» può anche designare lo sforzo e la capacità di riflettere l’ordine oggettivo della realtà. Tutti conosciamo situazioni che per la loro stessa natura, indipendentemente dagli interessi del soggetto, impongono una certa linea d’azione: pensiamo per esempio a un bambino o a un cane sul punto d’annegare, a una popolazione che sta morendo di fame, a una malattia. Ognuna di queste situazioni parla, per cosí dire, un linguaggio suo proprio; ma siccome esse sono soltanto segmenti della realtà, può accadere che ci si debba passar sopra in quanto esistono strutture piú vaste che impongono altre linee d’azione, egualmente indipendenti dai desideri e dagli interessi dell’individuo.
Nei sistemi filosofici della ragione oggettiva era implicita la convinzione che si potesse scoprire una struttura fondamentale, comprensiva di tutta la realtà, e che da questa si potesse dedurre una concezione del destino umano. Essi concepivano la scienza – la scienza degna del suo nome – come uno strumento della riflessione o speculazione filosofica, e rifiutavano ogni epistemologia che riducesse la base oggettiva della nostra conoscenza a un caos di dati privi di coordinazione e identificasse il lavoro scientifico con quello di organizzare, classificare o calcolare quei dati. Per i sistemi classici della ragione oggettiva queste ultime attività, in cui la ragione soggettiva vede la principale funzione della scienza, sono subordinate alla riflessione filosofica. La ragione oggettiva a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Eclisse della ragione
  3. Prefazione
  4. I. Mezzi e fini
  5. II. Contrastanti panacee
  6. III. La rivolta della natura
  7. IV. Trionfo e decadenza dell’individuo
  8. V. Sul concetto di filosofia
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright