L'italiano che resta
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L'italiano che resta

Le parole e le storie

  1. 224 pagine
  2. Italian
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L'italiano che resta

Le parole e le storie

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Con garbo nella scrittura e rigore nell'indagine, Gian Luigi Beccaria ci accompagna tra le pieghe delle parole, sottolineando l'elemento permanente di quell'organismo mutevole che è una lingua. Della nostra, rileva il filo rosso dell'eredità classica che ne ha foggiato la consistenza stilistica. Sino a ieri la lingua letteraria procedeva attraverso libri fatti coi libri; ora lo scrittore fa di meno i conti con la tradizione: cinema, televisione, l'oralità, determinano la sensibilità generale verso la scrittura. Si osserva un evidente processo di «mondializzazione», che sembra uniformarsi verso standard universali riconoscibili ovunque. L'autore sviluppa anche il tema della bellezza intrinseca che possiedono le parole «abbandonate», ma soprattutto affronta polemicamente punti chiave della vita civile attuale: gli slogan, il deteriorarsi della vita politica, i problemi della scuola e degli studi umanistici, le nostre provinciali inclinazioni esterofile, la crisi della lettura attenta e consapevole.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858423745
Copertina. «L'italiano che resta» di Gian Luigi Beccaria

Gian Luigi Beccaria

L’italiano che resta

Le parole e le storie

Einaudi
Tra giravolte e divagazioni, frugando al mio solito tra memoria e presente delle parole, tra voci “abbandonate” e voci nuove, tra forme della vicinanza e forme della lontananza, affronto alcuni tra i temi piú attuali dell’italiano che resta, che verrà, o che è stato.
Le pagine che seguono sono quasi tutte inedite, salvo sporadiche rifusioni di articoli comparsi su «La Stampa» o su «L’Indice», e salvo parte del par. VI del primo capitolo, che viene da Caproni lettore, di se stesso, in E. Bricco (a cura di), Caproni poeta europeo, Convegno internazionale nel centenario della nascita (Genova, 8-9 novembre 2013), San Marco dei Giustiniani, Genova 2014, pp. 17-21, o il par. VII dello stesso capitolo, che rifà da capo il mio Elogio della lentezza, Aragno, Torino 2004, o il par. I del terzo capitolo, già comparso in F. Cugno, L. Mantovani, M. Rivoira e M. S. Specchia (a cura di), Studi linguistici in onore di Lorenzo Massobrio, Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano, Torino 2014, pp. 69-74. Sono grato a Santina Mobiglia, a Marinella Pregliasco, a Emilio Jona e a Marco Casavecchia per i loro preziosi suggerimenti.
Criteri di trascrizione fonetica.
Ho adottato per le voci dialettali un criterio uniforme e tipizzante, riportando la trascrizione alla grafia dell’italiano. Ho perciò evitato le grafie codificate (salvo rari e necessari casi), e i segni diacritici. Faccio eccezione per le vocali turbate ö (fr. fleur) e ü (fr. mur), per la ë vocale indistinta (fr. je), in qualche caso per la ä, il fonema intermedio tra a e o aperta; per le consonanti, ho indicato con š la fricativa prepalatale sorda dell’it. scena, con
la realizzazione non vibrata di /r/, con z la s sonora; con n- indico la pronuncia velare di n. L’accento è esclusivamente tonico, non segna apertura o chiusura. Quando l’accento manca, significa che la parola è piana.

L’italiano che resta

Capitolo primo

Italiano, tra libertà e norma

1. Italiano, la grande bellezza.
Cesare Cases, nelle Confessioni di un ottuagenario, parlando del tedesco ch’egli dominava meglio di un tedesco annotava: «Io ho sempre sentito l’italiano come un attestato di nobiltà culturale». L’italiano è intriso fino all’osso di aulico e antico, di latino e di greco. Dopo la componente principale del lessico italiano, quella latina, il greco è parte essenziale del linguaggio intellettuale: sono di matrice greca idea, parola, scuola, storia, filosofia, logica, fantasia, psicologia, democrazia, politica, teatro, metafora, atomo, elettricità, cibernetica e migliaia d’altre. Nelle scienze in particolare l’incremento del greco è altissimo. Il grecismo in questo settore, cosí come nel lessico colto, è un elemento internazionale. Lo stesso inglese ha in modo massiccio fatto ricorso alla lingua greca. Nei linguaggi scientifici si ricorre piú al greco che al latino, anche se quest’ultimo è stato per secoli la lingua ufficiale della scienza. Ciò è dovuto al fatto che il greco ha maggiore ricchezza di strutture formative (da idro-, elettro-, termo-, eco- ecc.). Nelle lingue moderne i formativi di origine greca (prefissi, suffissi, prefissoidi soprattutto) sono numerosissimi. Riccardo Tesi ci faceva notare che in francese il Nouveau Dictionnaire Étymologique et Historique di Albert Dauzat, Jean Dubois e Henri Mitterand1 contiene 567 elementi prefissoidali greci contro ai 91 latini. Bisognerebbe ripetere la verifica su un dizionario della lingua italiana. Certo, da un punto di vista generale, non posso sostenere che monocolore sia piú scientifico, piú “preciso” di unicolore, ma s’ha da notare che le lingue moderne hanno di solito preferito utilizzare nei settori specialistici gli elementi piú rari, quelli meno frequenti nell’uso comune, piú distanti dall’impiego nel lessico quotidiano. Cito soltanto il caso del cosiddetto tubo di Torricelli, al quale si preferí barometro. Il greco, rispetto al latino, gode di una posizione favorevole. Il suo numero altissimo di formanti lo rende meno implicato nella pratica comunicativa quotidiana, piú distante da essa2.
«Nobiltà culturale» della nostra lingua, diceva Cases. Guardando alla lingua della letteratura, si rileva immediatamente che nell’italiana piú che nelle altre si assiste al prevalere del filo d’oro del classicismo, dai primi secoli sino a tutto l’Ottocento e oltre. Abbiamo cercato sin dalle origini di fare nostra la sintassi solenne del latino. Abbiamo conservato piú a lungo, accanto al lusso ornamentale della lingua, il senso robusto, classico del periodo, l’amore per l’onda lunga, compatta, che ricerca l’equilibrio delle parti, gli effetti retorici delle clausole finali, la simmetria nella rispondenza di concetti e di ritmi. Tutto ciò è dovuto al modello latino, che ha plasmato per secoli la nostra lingua, in particolare la prosa. Pensiamo all’organismo gerarchico che governa il periodare del modello Boccaccio, con principali e tante subordinate, l’uso e abuso di gerundi e participi assoluti, le inversioni dell’ordine progressivo delle parole che realizzano intrecci e incastri alla latina. L’impianto ciceroniano del periodo durerà sino ai nostri grandi prosatori dell’Ottocento. Anche in poesia abbiamo ampiamente guardato a una tradizione lontana, a quelle forme depositate nelle scritture dignitose della classicità. Penso a Carducci, a quanto amasse i costrutti latineggianti, e si estasiasse di fronte a tutte le forti trasposizioni: «Bella è la donna mia se volge i neri | di soave languore occhi lucenti» scriveva, come Dante che, al modo latino, deponeva parole a fine verso dopo un membro interruttore che lo staccava dall’elemento a cui avrebbe dovuto naturalmente esser congiunto: «mirar le membra d’i Giganti sparte», «ch’esser ti fece contra Carlo ardito».
I costrutti latineggianti, col loro andamento macchinoso, costituirono uno degli inciampi maggiori soprattutto per una prosa piú moderna. Questa nobile, meravigliosa ma eccessiva predisposizione al solenne faceva da freno a un periodare analitico, icastico, a quel parlato-scritto piú agile che nelle nostre lettere si è aperto col passare degli anni varchi sempre piú larghi. Furono soprattutto i francesi, tra Sei e Settecento, a pretendere l’esclusiva dell’«ordine naturale» e «razionale» della lingua. Protestavano i nostri scrittori, impegnati a difendere un italiano ritenuto lingua piú libera (lo stesso Voltaire, in una lettera al Cesarotti, 10 gennaio 1766, affermava che la lingua italiana «dit tout ce qu’elle veut, et la langue française ne dit que ce qu’elle peut», anche se poi, in altra occasione, insisteva sulla monotonia dell’italiano), un italiano ritenuto la sola lingua adatta alla grande poesia, mentre il francese, poco armonioso e privo di «maestà», poteva eccellere soltanto nella prosa, alla quale non occorreva l’«epica gravità» e la «dolcezza» che l’italiano aveva nel sangue, eredità del greco e del latino. Il latino – cosí annotavano i difensori della nostra favella – può ad esempio suggerire alla nostra lingua quelle inversioni (ancora Voltaire, nella lettera del 24 gennaio 1761 a Deodati de’ Tovazzi: «Vous possédez, monsieur, des avantages bien plus réels; celui des inversions») che il padre Bouhours trovava invece «arrangement bizarre», «desordre».
Negli ultimi cento anni un contributo al raggiungimento di uno stile piú svelto e incalzante lo ha dato il modello giornalistico (e non solo). Dopo tanta “onda lunga” ora si ama il telegrafismo. Anche nella narrativa, molta parte di essa mostra spiccata predilezione per i periodi strabrevi, a singhiozzo, con una sola proposizione. Non s’è ancora cominciato a parlare e già c’è il punto. Appunti o narrazione? Una mia lettrice mi scrive sottoponendomi una frase: «La vita è bella. E pure misteriosa e intrigante», e conclude: «Mi sembra gravemente sbagliata… Ho torto?» Le ho suggerito di leggere un articolo o un libro di Ilvo Diamanti. Ma è questione di punti… di vista. La citata lettrice si aspetterebbe «La vita è bella, ed è pure misteriosa e intrigante». Però la prima versione non è «gravemente sbagliata». È soltanto ellittica (è caduta una «è» nel secondo segmento, cosa poco consueta, ma lecita), e ha il punto fermo per indicare una pausa forte, a conclusione di una sentenza, un motto («La vita è bella»). Nello stile giornalistico piú disinvolto da un po’ di tempo in qua si amano periodi introdotti da una «E» che apre frasi nominali, cioè senza verbo, e spesso molto brevi, per farle risaltare con evidenza, e conferire un ritmo secco e veloce alla scrittura. Vezzi di stile insomma, non “regolarità” grammaticali. Si tende ad alleggerire fortemente la sintassi. La mia generazione invece, rispetto alle nuove, si atteggiava di piú sull’antico. Con tutto ciò, non ci si sentiva prigionieri. Sentivamo la nostra lingua assai libera, molto stratificata, ispessita dalla eredità culturale del passato, e nello stesso tempo malleabile, dalla pasta ben modellabile anche grazie al suo fondo antico, il cui tessuto sembrava aver lasciato calare una singolare varietà e quantità di registri. Lingua «libera» e «ardita», come diceva Leopardi; e insieme, come scriveva in una lettera da Recanati al Giordani (8 agosto 1817): «questa nostra lingua sovrana immensa onnipotente».
2. Lingua libera?
Anni fa Benvenuto Terracini, riguardo ad alcuni caratteri salienti della nostra lingua, scrisse che l’italiano svetta come lingua tra le piú «libere» delle europee, se si pensa alle sue possibilità sintattiche (la relativa libertà nell’ordine delle parole) ed espressive, per un verso delicate, per altro verso vistose e violente, appena la si confronti per esempio col piú discreto francese, cosí simile – diceva Verlaine – a dei begli occhi dietro a un velo. L’italiano sa essere delicato, e insieme aggressivo, e variegato anche grazie al colorito mosaico dei suoi spiccati tratti regionali e dialettali, capaci di arricchire con arguti o espressionistici sussulti sia il parlato e sia lo scritto. Se rivolgiamo la domanda a uno straniero, insieme alla «musicalità», indicherà come singolare la possibilità di esprimere attraverso l’alterazione ora la piccolezza (-ino, -etto), ora la grandezza (-one) con dei suffissi per l’appunto diminutivi, vezzeggiativi, accrescitivi (un piccolo tavolo è tavolino, uno grande un tavolone, uno malandato un tavolaccio, e cosí via). L’abbondanza la si misura anche nella ricchezza dei sinonimi. E in altre sue peculiari sottigliezze: si può dire (non cosí in altre lingue, per esempio l’inglese) «ho comprato una grande casa» e «ho comprato una casa grande». Di solito l’aggettivo precede il nome quando ha un valore descrittivo. Difatti ho comprato una grande casa ci dice che la casa in questione è grande, ma non la si oppone alle altre. La si oppone invece alle altre in ho comprato una casa grande. L’aggettivo grande che segue il nome indica che ci sono piú case a disposizione, piccole e grandi, e fra esse se ne indica una grande, che si distingue da altre. In questo caso l’aggettivo che segue il nome che qualifica ha un valore restrittivo. La differenza di senso è molto accentuata. Se dico «È un grande pennello», il significato è di ordine moralemetaforico. Si vuole dire che si tratta ...

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