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Una panchina lungo la ribalta, dinanzi alla buca del suggeritore. E gli attori seduti l’uno accanto all’altro, con la schiena al pubblico, per assistere al monodramma di Treplëv, interpretato da Nina. La sera del 17 dicembre 1898. Al Teatro d’Arte recitavano Čàjka (Il gabbiano).
Si erano tormentati a lungo nella ricerca dei toni giusti. Bisognava portare alla luce il «corso subacqueo» dei sentimenti, la segreta «texture» psicologica, le indistinte allusioni: tutto ciò che in Čechov pàlpita sotto l’invòlucro delle parole. Trovare cadenze sottili, smorzate, che non incrinassero la filigrana di pensieri inespressi, di sfumature impalpabili.
Gli attori stentarono a rendere la melodía čechoviana. Le prove: alti e bassi di speranza e sfiducia. Convinti di non saper incarnare le «nuove forme» agognate da Treplëv, furono piú volte sul punto di desistere. Un insuccesso avrebbe peggiorato la vacillante salute di Antòn Pàvlovič. Tanto piú che la sorella di lui, Màrija Pàvlovna, era venuta alle prove con brutte notizie da Jalta1.
La prima di Čàjka ebbe inizio in un clima di nervosità, di tensione. Odoravano tutti di gocce di valeriana.
Una panchina lungo la ribalta, dinanzi alla buca del suggeritore. E gli attori seduti l’uno accanto all’altro, con la schiena al pubblico, per assistere al monodramma di Treplëv, interpretato da Nina. Poiché il sipario del piccolo podio costruito da Treplëv nascondeva la luna splendente sul lago, al principio il palcoscenico era immerso nel buio.
Nelle pause, nei semitoni, nelle voci sommesse, che si componevano in una sorta di «pointillisme phonétique», pareva di sentire il respiro, la musica pigra d’una sera d’estate2. Per la prima volta echeggiava e vibrava in teatro l’indefinibile. Sussurrava il silenzio. «Silenzio, tu sei il meglio di tutto ciò che ho udito», scriverà piú tardi Pasternàk.
A mano a mano gli spettatori aderirono a questa recitazione fiévole e lenta, a questo ritmo lacustre, e anche il monologo maeterlinckiano di Nina, scandito con una cantilena inconsueta negli spettacoli russi, fu accolto senza bisbigli3. Stanislavskij ha cosí rievocato la fine del primo atto:
«Ci sembrava di aver fatto fiasco. Il sipario si chiuse in un silenzio di tomba. Gli attori timidamente si strinsero l’uno all’altro, tendendo l’orecchio al pubblico.
«Silenzio di tomba.
«Dalle quinte i macchinisti allungarono il capo, porgendo l’orecchio anche loro.
«Silenzio.
«Qualcuno si mise a piangere. La Knipper soffocava un singhiozzo isterico. Ci movemmo in silenzio verso le quinte.
«In quell’istante gli spettatori proruppero in gemiti e applausi. Ci lanciammo ad aprire il sipario.
«Dicono che eravamo rivolti a metà verso il pubblico, con facce terribili, che a nessuno di noi venne in mente di inchinarsi dal lato della platea, e che qualcuno restò addirittura seduto. È chiaro, non ci rendevamo conto di ciò che accadeva.
«Un enorme successo tra il pubblico, e sulla scena un’autentica Pasqua. Si baciavano tutti, non esclusi gli estranei che avevano fatto irruzione di dietro le quinte. Qualcuno si rotolava dall’isterismo. Molti, ed io pure, danzavano, per la gioia e l’eccitazione, una danza selvaggia»4.
Sembra ormai una leggenda, ma è certo che il successo si accrebbe da un atto all’altro. Lacrime, scrosci di osanna: un’ubriaca esultanza. Alla fine di ogni atto scena e platea si buttavano le braccia al collo5. Se Stanislavskij asserisce: «un’autentica Pasqua», Nemiròvič-Dànčenko parla addirittura (in una lettera a Čechov del 18-21 dicembre) di «risurrezione di Cristo»6.
E la festa fu tanto piú grande, in quanto temevano tutti che si ripetesse il memorabile fiasco dell’Aleksandrinskij, dove, il 17 ottobre 1896, la goffaggine degli attori e i lazzi del pubblico avevano subissato Il gabbiano. Di questo episodio parecchi hanno scritto. Lo narreremo anche noi nella seguente
STORIA DI UN INSUCCESSO
Per quale ragione l’attrice comica Elizavèta Levkèeva, interprete di vecchie zitelle e di parassite, la grassa e baffuta Levkèeva, che suscitava, al solo apparire, squillanti risate, per quale ragione la Levkèeva si scelse per la propria beneficiata un lavoro cosí disadatto come Il gabbiano? Si fermò forse su quel testo, ricordando che Čechov aveva, col nome di Čechonte, pubblicato raccontini e bozzetti burleschi su riviste umoristiche. Lei stessa d’altronde non vi recitava: sarebbe apparsa soltanto in un vaudeville, a chiusura della serata.
Poiché la Levkèeva premeva, il regista Evtichij Karpov restrinse la preparazione a poche prove affrettate. Gli attori, abituati alle insulse commedie di buone maniere e agli universi di cartapesta dei fabbricanti di effetti, affrontarono svogliatamente l’insolita tessitura di questo lavoro, che sostituiva agli artifici di teatro il semplice «tourne rond» della vita. Che potevano essi capire (tranne la Komissaržèvskaja) di quei sogni vulnerabili, di quelle aspirazioni inghiottite da una banalità divorante? Si pensi: a impersonare Treplëv fu chiamato il liscio e lustro Apollonskij, per cui Čechov era soltanto uno «scrittore da vagone» (un «vagònnyj pisàtel′»)7.
Per desiderio del poeta, il regista affidò la parte di Nina alla Sàvina, ma, dopo aver accettato, la Sàvina (nota per i suoi capricci) cambiò idea, sostenendo che le si addiceva piuttosto quella di Maša. In fretta diedero Nina alla dolce Komissaržèvskaja, togliendo Maša alla Čitau, per contentare la Sàvina. Ma súbito dopo la Sàvina rifiutò anche Maša, e il regista dovette scongiurar la Čitau di riprendersi quel personaggio8.
Quale fu lo stupore del pubblico che, recatosi a teatro per ridere grosso alle arguzie della Levkèeva, si trovò dinanzi a un lavoro inconsueto, pervaso di malinconía e cosí poco rassicurante, dinanzi a un testo «noioso» e per di piú recitato di malavoglia, con una sciattezza che riduceva i gracili sogni alla mediocrità di «sentiments paradeurs»9. Gli interpreti acciabattavano la parte senza credervi troppo, non fusi l’uno con l’altro, e persino la Komissaržèvskaja, che pure s’era distinta alle prove, si smarrí nel generale squallore.
Fischiava, il pubblico, e beccava con accanimento. Volgendo la schiena alla scena, gli spettatori delle prime file conversavano a voce alta coi conoscenti10. Ogni minuzia era un pretesto per motteggiare: Treplëv con la benda, Maša che annusa tabacco, le invocazioni di Nina, il simulacro del gabbiano. Nel quarto atto, prima del dialogo fra Nina e Treplëv, si scordarono di fare uscire Sòrin sulla poltrona a rotelle, e l’attore Davỳdov che lo impersonava dovette fingere di continuare a dormire11. La stampa avrebbe parlato di «commedia d’uccelli», di «cavillo su uomini vivi», di «esemplare da museo degli orrori», di «assurdità con figure»12.
Čechov al fratello Michaíl il 18 ottobre 1896: «La commedia è caduta ed ha fatto un fiasco solenne. C’era in teatro una penosa tensione di perplessità e di vergogna. Gli attori recitavano in modo abominevole e sciocco. Di qui la morale: non si devono scriver commedie»13. E all’editore Suvòrin, lo stesso giorno: «Non scriverò né farò mai piú rappresentare commedie»14. E il 20 novembre a Nemiròvič-Dànčenko: «Il teatro spirava malànimo, l’aria era satura d’odio, e – secondo le leggi della fisica – volai via da Pietroburgo come una bomba»15.
Quella notte la disperazione lo aveva sospinto a vagar senza mèta nel freddo di Pietroburgo: esausto, con gli occhi annebbiati, come un automa. Questo schianto, questa ferita concorsero a rincrudire la sua malattia.
Il crollo di Čàjka all’Aleksandrinskij mostrò che le vecchie scene erariali non erano acconce ad esprimere il tenue lirismo di Čechov. Com’era invece diversa la messinscena curat...