La vostra anima è un paesaggio squisito
che maschere e bergamaschi vanno incantando
suonando il liuto e danzando, quasi tristi
nei fantastici travestimenti.
Pur cantando in tono minore
l’amore vittorioso e la fortuna
della felicità sembrano increduli;
e il canto si fonde col chiaro di luna,
col calmo chiaro di luna triste e bello
che fa sognar negli alberi gli uccelli,
d’estasi singhiozzare gli zampilli,
gli alti zampilli, agili fra i marmi.
Pierrot, che non è certo Clitandro,
vuota un fiasco senza esitare
e, pratico, addenta un pasticcio.
Cassandro, in fondo al viale,
versa una lacrima misconosciuta
per il nipote diseredato.
Quel birichino di Arlecchino combina
il rapimento di Colombina
e fa quattro piroette.
Colombina sogna, sorpresa
di sentire un palpito nella brezza
e di udire voci nel suo cuore.
L’abate divaga. – E tu, marchese,
ti metti di traverso la parrucca.
– Questo vino di Cipro è squisito
meno, Camargo, della vostra nuca.
– Mia fiamma... Do, mi, sol, la, si.
– Abate, la tua nequizia si svela!
– Ch’io muoia, o mie dame,
se non vi distacco una stella!
– Vorrei essere un cagnolino!
– Baciamo le nostre pastorelle
una a una. – Signori, ebbene?
– Do, mi, sol. – Ehi! buonanotte, o Luna!
Truccata e dipinta come al tempo
delle pastorellerie,
esile tra i fiocchi enormi dei nastri,
ella passa sotto i cupi rami
nel viale dove inverdisce
il muschio delle vecchie panchine,
con mille attuzzi e leziosaggini
che si serbano d’ordinario
ai pappagallini diletti.
È azzurra la sua lunga veste a coda
e il ventaglio che gualcisce
fra le dita affusolate
dai pesanti anelli
è rallegrato da scenette erotiche
cosí vaghe ch’ella sorride,
pur nel pensiero,
a piú d’un particolare.
Il nasino grazioso e la bocca incarnatina,
ell’è bionda, dunque, grassa e divina
d’orgoglio incosciente.
D’altronde piú fina
del neo che ravviva lo splendore
un po’ melenso dell’occhio.
Il cielo cosí pallido e gli alberi cosí gracili
sembran sorridere alle nostre vesti chiare
che vanno ondeggiando leggere
con aria di noncuranza e moti d’ali.
Il dolce vento increspa l’umile vasca
e il chiarore del sole che attenua
l’ombra dei bassi tigli del viale
ci giunge azzurrognolo e morente, con intenzione.
Squisiti ingannatori e vaghe dame civettuole,
cuori teneri, ma liberi da giuramenti,
conversiamo deliziosamente
e gl’innamorati stuzzicano le belle
di cui la mano lievemente
sa talvolta dare uno schiaffo
che si scambia con un bacio
sull’ultima falange del mignolo,
e poiché la cosa è estremamente audace,
si è puniti da uno sguardo assai duro
che contrasta del resto con la smorfia
abbastanza clemente della bocca.
Ecco! Io mi uccido ai vostri piedi!
Ché il mio sconforto è infinito,
e la tigre spaventosa d’Ircania
è un’agnella a paragon di voi.
Sí, o crudele Climene,
questo brando che in molte battaglie
abbatté Scipioni e Ciri
qui finirà la mia vita e la pena!
Ma che bisogno ho di spada
per scendere ai Campi Elisi?
Non ha forse Amore
trapassato il mio cuore
con frecce acuminate
da che i bei lumi
rifulsero per me?
Gli alti tacchi lottavano con le lunghe sottane
cosí che secondo il terreno e il vento
talvolta lampeggiavano caviglie troppo spesso nascoste.
E noi amavamo questo giuoco ingannevole.
Talvolta, anche, il dardo d’un insetto geloso
tormentava il collo delle belle sotto il fogliame,
ed erano subiti lampi di nuche bianche.
Tale festa appagava i nostri giovani occhi folli.
La sera scendeva, una sera ambigua d’autunno:
le belle, appoggiandosi assorte al nostro braccio,
dissero allora parole cosí seducenti, in un soffio,
che l’anima nostra, da allora, trema e stupisce.
Una scimmia in giubba di broccato
trotta e sgambetta davanti a lei
che gualcisce un fazzoletto di trine
nella mano guantata con arte.
Mentre un negretto tutto rosso
regge a braccia tese i lembi
della pesante veste sospesa,
attento che non si muova piega;
la scimmia non distacca gli occhi
dal seno bianco della dama,
opulento tesoro che chiama
il petto nudo di un dio.
Il negretto talvolta solleva,
birbante, piú su del bisogno
il suo sontuoso fardello,
per vedere quel che la notte sogna;
ella va per le scale
e non sembra per ciò piú sensibile
all’insolente omaggio
degli animali suoi famigli.
Ogni conchiglia incastonata
nella grotta dove ci amammo
ha una particolarità.
L’una ha la porpora delle nostre anime
rubata al sangue dei nostri cuori
quando io ardo e tu t’infiammi;
un’altra imita i tuoi languori
e i tuoi pallori allor che, stanca,
me ne vuoi degli occhi miei motteggiatori.
Questa rifà la grazia
del tuo orecchio, e quella
la tua nuca rosea corta e grassa;
ma una, fra le altre, mi turbò.
Fummo vittime, voi ed io,
di reciproci raggiri,
mia dama, per il turbamento
di cui l’Estate ci ferí.
La Primavera aveva, sí, un poco
contribuito, se la memoria
mi aiuta, a imbrogliare il gioco tra noi,
ma l’umore non era sí nero.
In primavera l’aria è sí fresca
che infine le rose in boccio
– Amore, ad arte, sembra schiuderle appena –
hanno fragranze quasi innocenti.
E anche i lillà invano espirano
il loro alito irritante
nell’ardore del sole nuovo:
questo eccitante, al piú, rianima,
tanto lo zefiro spira, beffardo,
e disperde l’afrodisiaco
effluvio, cosí che il cuore
si astiene e anche lo spirito è assente,
ed euforici i cinque sensi
si mettono allora in festa
ma soli, ben soli, e senza
che la crisi monti alla testa.
Fu il tempo sotto chiari cieli
(ve ne sovviene, mia dama?)
di baci superficiali
e di sentimenti a fior d’anima.
Esenti da folli passioni,
pieni di benevolenza amena
come ambedue gioivamo
senza entusiasmo né pena!
Felici istanti! – Ma venne l’Estate:
addio rinfrescanti brezze!
Un vento di greve voluttà
investí l’anima sorpresa....