Moby-Dick (Einaudi)
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Moby-Dick (Einaudi)

o la balena

  1. 680 pagine
  2. Italian
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Moby-Dick (Einaudi)

o la balena

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Da piú di un secolo e mezzo uno spettro si aggira nelle acque extraterritoriali della letteratura: Moby Dick. Coalizzati in una sacra caccia, da allora non facciamo che braccarlo, per sottometterlo alle nostre interpretazioni, e questa caccia maniacale e consapevole, che è anzitutto una caccia a noi stessi, ci condanna. Protagonisti per noi dell'impresa: Ishmael, come l'esule del racconto veterotestamentario; Ahab, lo sciamano che ha viaggiato in altri regni restandone sfregiato e mutilato, non soltanto fuori, ma che da quel contromondo torna da iniziato: iniziato senza setta, mistico senza religione; il Pequod, una nave di pazzi governata da un pazzo furioso: la riprova è che come in ogni manicomio c'è chi parla lo shakespeariano; una ciurma d'ogni colore, razza e fede, dai quaccheri ai cannibali agli adoratori del fuoco; Moby Dick, Leviatano su misura per moderni, inafferrabile; e l'oceano mondo. Con questi elementi primitivi Melville compose in una stagione di creatività febbrile quello che è un romanzo d'avventura e un trattato gnostico, un saggio enciclopedico e una cosmogonia pagana, una fiaba mostruosa e un'allegoria intollerabile, un'epopea o una forma totalmente nuova: ma - scientifico, religioso, filosofico o artistico l'intento - sempre di netto timbro eretico. S'inizia cosí a leggere, come Sinbad sull'isolotto si appresta a mangiare e accende un fuoco quando, a un tratto, il dorso dell'animale (che altro non era) s'inabissa portando tutto e tutti appresso a sé.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420898
Argomento
Literature
Categoria
Classics

1.

Morgane

Chiamatemi Ishmael. Qualche anno fa – non mette conto precisare quando – a corto o meglio a secco di quattrini e senza niente di speciale a trattenermi sulla terraferma, pensai di darmi per un po’ alla navigazione e di veder la parte acquorea del mondo. Un modo come un altro per mettere in fuga lo sconforto e regolare la circolazione. Quando la bocca prende una piega amara; quando l’anima s’intride di uggia novembrina; quando mi sorprendo a sostar senza volerlo davanti ai depositi di bare o mi accodo al primo funerale che incontro; specie quando mi lascio prendere a tal segno dallo scoramento che giusto una solida tempra morale m’impedisce di scendere in strada a bella posta per far saltare metodicamente il cappello dalla testa dei passanti, vuol dire che ormai è suonata l’ora di mettermi in mare. Supplisco cosí a pistola e pallottola. Con filosofico panache Catone si getta sulla spada; io invece piglio e m’imbarco. C’è poco da stupirsi. Non esiste quasi uomo che, in una certa qual misura, non nutra prima o poi verso l’oceano sentimenti tutt’altro che dissimili dai miei, solo che non lo sa.
Insomma c’è questa vostra città, l’isola dei Manhatto, cinta da moli come quelle dell’oceano Indiano da scogliere coralline: il commercio la circuisce con la sua risacca. Le strade a dritta e a manca portano all’acqua. A una estremità la Battery, dove l’augusto muraglione è battuto dalle onde e refrigerato dalle brezze, invisibili da terra fino a qualche ora prima. Guardate le orde intente a rimirare l’acqua.
Andate a zonzo per la città in un trasognato dí di festa: da Corlears Hook a Coenties Slip e di là, per Whitehall, in direzione nord. Che cosa vedete? Postati come sentinelle mute tutt’intorno all’abitato stanno i mortali a mille a mille persi in fantasie oceaniche. Chi appoggiato a un palo; chi seduto in fondo a un pontile; chi l’occhio puntato oltre le murate di navigli provenienti dalla Cina; chi a coffa tra il sartiame, quasi per meglio spingere lo sguardo verso il mare. Ma si tratta pur sempre di marinai d’acqua dolce; segregati nei giorni feriali tra canniccio e intonaco: avvinti al banco, inchiodati allo scanno, ribaditi allo scrittoio. Come si spiega questo fatto? Non esistono piú prati verdi? Che cosa ci fanno qui costoro?
Ma guardate! ecco arrivare altre compagini che tirano diritto verso l’acqua intenzionate, si direbbe, a fare un tuffo. Strano! Solo una volta giunte al limite estremo della terra si riterranno soddisfatte; non basterà poltrire all’ombra a ridosso di quei magazzini. Macché. Vorranno avvicinarsi all’acqua fin quasi a cascarci dentro. E una volta lí, ristanno: miglia – che dico – leghe di persone. Accorrono dall’entroterra, tutte, da vicoli e viuzze, strade e viali – da nord, est, sud, ovest. Il punto d’incontro sempre uno resta. Scusate, ma è la virtú magnetica racchiusa negli aghi delle bussole di tutte quelle navi a calamitarle lí sul pizzo?
Daccapo. Vi trovate, mettiamo, in campagna; su qualche altopiano lacustre. Qualunque sentiero o quasi voi scegliate vi menerà, c’è da scommetterci, giú a valle presso un tonfano. La cosa ha un che di magico. Il piú svagato degli uomini, assorto fino in fondo nelle sue fantasie: fatelo alzare in piedi, fategli muovere le gambe, e lui vi guiderà immancabilmente all’acqua, se acqua c’è in tutta la contrada. Dovesse capitarvi di patir la sete nel gran deserto americano, tentate pure l’esperimento, a patto che la vostra carovana disponga di un metafisico di ruolo. Già, meditazione e acqua, come tutti sanno, sono unite per sempre in matrimonio.
O prendiamo un artista. Desidera dipingere per voi il piú vago, umbratile, sereno, incantevole scorcio di paesaggio romantico di tutta la vallata del Saco. A quale elemento precipuo egli farà ricorso? Là abbiamo gli alberi, ciascuno con il tronco vuoto, quasi contenesse un eremita e un crocifisso; qui riposa il prato, lí gli armenti; e da quel casolare sullo sfondo s’alza un fumacchio torpido. Un cammino tortuoso serpe e s’addentra in selve remote e va a toccare la congerie dei contrafforti di montagne intrise del ceruleo dei pendii. Ma per quanto estatico il quadro, per quanto quel pino lasci spiovere sospiri come foglie sulla testa di quel pastore, sarebbe tutto inutile se l’occhio del pastore non fissasse il corso d’acqua magico che ha davanti a sé. Recatevi nelle praterie a giugno, quando per miglia e miglia si arranca sprofondati fino alle ginocchia in mezzo ai gigli tigrati – manca una grazia, una soltanto: quale? L’acqua – non c’è una goccia d’acqua lí! Se il Niagara fosse solo una cateratta di sabbia, fareste le vostre brave mille miglia per vederlo? Perché il povero poeta del Tennessee, al momento di ricevere inopinatamente due pugni di monete d’argento, si era posto il dilemma se comprare una giubba, e ne aveva un disperato bisogno, o investire il denaro in un viaggio a piedi alla spiaggia di Rockaway? Perché quasi ogni ragazzo sano e robusto dotato di un’anima robusta e sana smanierà prima o poi di prendere il largo? Perché voi stessi, al primo viaggio come passeggeri, avete avvertito una vibrazione mistica allorché vi hanno informato che per voi e la vostra nave la terra non era piú in vista? Perché gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro? Perché i Greci gli assegnarono un dio a parte, fratello peraltro di Giove? Di certo tutto ciò non è privo di significato. E piú profondo ancora è il significato della storia di Narciso: non riuscendo ad afferrar l’immagine soave, tormentosa che scorgeva nella fonte, si tuffò e morí annegato. Ma quella medesima immagine noi stessi la scorgiamo in ogni fiume e in ogni oceano. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita: e questa è la chiave di tutto.
Ora, quando dico che sono aduso a mettermi in mare non appena lo sguardo si appanna e i polmoni reclamano attenzione, non vorrei far credere che m’imbarco come passeggero, non sia mai. Imbarcarsi come passeggero richiede giocoforza una scarsella e una scarsella, senza niente dentro, è al piú un pezzo di stoffa. Per giunta i passeggeri soffrono il mal di mare – attaccano briga – di notte non dormono – in generale non è che si divertano poi molto; no, io non mi sono mai imbarcato come passeggero; men che mai come commodoro o capitano o cuoco, pur essendo un mezzo lupo di mare. Cedo lustri e onorificenze di siffatte cariche a chi se ne compiace. Da parte mia ho in spregio tutti gli onorevoli e rispettabili tormenti, triboli e travagli, di qualsivoglia genere. Aver cura di me già basta e avanza, senza dovermi curare di battelli, velieri, brigantini, golette e compagnia. Quanto a ingaggiarmi come cuoco – pur ammettendo che c’è da andarne fieri, dato che a bordo il cuoco è una specie di ufficiale – non so perché non mi ci vedo a grigliar polli; anche se una volta cotto, oculatamente unto di burro e ponderatamente spolverato di sale e pepe, nessuno parlerà di un pollo alla griglia con piú rispetto, per non dire reverenza, del sottoscritto. È solo perché quegli idolatri degli antichi Egizi stravedevano per l’ibis alla griglia e l’ippopotamo arrosto che ci è dato ammirar le mummie di certe creature in quei loro giganteschi forni che sono le piramidi.
No, quando vado per mare m’imbarco come marinaio semplice, a prua davanti all’albero di trinchetto, calato nell’alloggio della ciurma, su arriva all’alberetto di controvelaccio. In fatto di angherie non mi lamento: mi tocca saltare da un’antenna all’altra come le cavallette a maggio in mezzo ai prati. Non è facile prenderla bene, all’inizio almeno. È che va a ledere il senso dell’onore, specie se uno discende da una schiatta che ha radici profonde nel paese, i Van Rensselaer, i Randolph o gli Hardicanute. Tanto piú se fino a poco tempo prima di cacciar la mano nella secchia della pece spadroneggiavi nei panni del maestro in qualche scuola di campagna, mettendo in soggezione anche i ragazzi grandi e grossi. Da maestro a marinaio c’è un trapasso netto, vi assicuro, e far buon viso a cattivo gioco richiederà un potente decotto di Seneca e degli Stoici. Ma col tempo anche questo perde peso.
Cosa volete che conti se un vecchiaccio burbero di capitano mi comanda di ramazza sui ponti? A cosa si riduce un tale affronto soppesato, per dire, sulla bilancia del Nuovo Testamento? Credete che l’arcangelo Gabriele mi riterrà da meno perché, nella fattispecie, obbedisco con solerzia e rispetto al burbero vecchiaccio? Chi non è schiavo? Avanti, rispondete. E allora, ai vecchi capitani angariarmi come piú gli aggrada, pestarmi e malmenarmi: a me resta la soddisfazione di sapere che va tutto bene, che anche gli altri, sul piano fisico o su quello metafisico, se non li trattano cosí, poco ci manca; la rotazione del pestaggio universale è garantita, e a noi dell’equipaggio non resta che scambiarci pacche sulle spalle, e abbozzare.
Ribadisco: se m’imbarco è sempre come marinaio, visto che si fanno un dovere di pagarmi per il disturbo; non mi risulta invece che per i passeggeri sborsino un centesimo che è uno. Anzi, tocca ai passeggeri sborsare. Tra chi paga e chi si fa pagare la differenza è a dir poco abissale. Pagare è forse l’atto piú increscioso che i due ladri dell’orto ci abbiano lasciato in retaggio da espiare. Mentre farsi pagare… niente regge al confronto. In verità, mirabile è lo zelo compíto che si mette nel ricevere denaro, convinti come siamo che il denaro sia alla radice di tutti i mali terreni e che in nessun caso una persona danarosa possa varcar la soglia del paradiso. Ah! con che gioia ci consegniamo alla perdizione!
Infine, m’imbarco sempre e solo come marinaio per via dell’esercizio fisico, che tempra, e dell’aria pura che si respira sul castello del ponte di prua. E siccome a questo mondo i venti di prua prevalgono di molto su quelli di poppa (sempre che non si violi la massima pitagorica), il piú delle volte il commodoro sul cassero riceve l’aria di seconda mano dai marinai a castello. Crede di respirarla lui per primo; ma cosí non è. Non diversamente, è il popolo a guidare chi lo guida, e questo proprio mentre chi lo guida non ne ha il minimo sospetto. Ma come mai, dopo aver sentito a piú riprese l’odor del mare arruolandomi nella marina mercantile, mi fossi messo in testa di partecipare a una spedizione baleniera: a ciò potrà risponder meglio di chiunque l’invisibile sbirro delle Parche che mi tiene sotto stretta sorveglianza e in segreto mi pedina e m’influenza in modo inesplicabile. E questa mia spedizione baleniera rientrava bensí nel grandioso programma steso dalla Provvidenza tanto tempo addietro. S’inseriva come breve interludio e assolo tra esecuzioni di maggior respiro. Secondo me quella sezione della locandina doveva presentarsi cosí:
Grande campagna elettorale per l’elezione del presidente degli Stati Uniti
UN CERTO ISHMAEL VA A CACCIA DI BALENE
CRUENTA BATTAGLIA IN AFGHANISTAN
Pur ignaro del perché le Parche, da direttori di scena quali sono, mi avessero affibbiato questa particina indegna in una spedizione baleniera, mentre altri venivano presi per parti stupende in sublimi tragedie, per parti brevi e facili in commedie raffinate, per parti allegre in farse, pur ignaro del perché, ecco che ora, nel riportare alla mente ogni circostanza, mi sembra di leggere piú a fondo nelle cause e nei moventi che, addotti ad arte con i pretesti piú disparati, m’indussero a calarmi nel ruolo a me affidato, illudendomi altresí con la lusinga che si trattasse di una scelta effettuata con criterio e di mia libera equanime elezione.
A spiccare soverchiante tra i motivi è l’idea stessa della grande balena. Un mostro cosí portentoso e misterioso stuzzicava tutta la mia curiosità. Poi i mari lontani e burrascosi ove sguazzava la sua stazza insulare; i rischi nefandi, irriferibili, rappresentati dalla balena; questi, piú il corteggio di mirabilia, di mille atmosfere patagoniche, concorsero a instradare il desiderio. Altri forse non avrebbe tratto stimolo da certe cose; io invece sono pungolato senza tregua dalla smania per le cose remote. Amo far rotta per mari proibiti e approdare a barbari lidi. Non ignaro del bene, una canaglia la riconosco a colpo d’occhio e – avendone licenza – sono anche disposto a socializzare, giacché conviene mantenere rapporti amichevoli con chiunque abbia a dividere con noi il domicilio.
In ragione di tutte queste cose accolsi perciò di buon grado la spedizione a caccia di balene; le grandi porte della chiusa che davano sul mondo delle meraviglie si spalancarono e nel ribollio di fisime che m’instradavano al mio intento, in fondo all’anima fluttuavano a due a due cortei infiniti del cetaceo e, posto al centro, unico immane fantasma incappucciato, un monte di neve nell’aria.

2.

La sacca da viaggio

Ficcai due o tre camicie nella vecchia sacca da viaggio, la schiaffai sottobraccio e partii per Capo Horn e il Pacifico. Lasciata la buona vecchia città di Manhatto, giunsi a tempo debito a New Bedford. Grande fu la delusione nell’apprendere che il piccolo postale per Nantucket era già salpato e che prima di lunedí non ci sarebbe stato modo di raggiungerla.
Visto che i giovani candidati ai patimenti e alle punizioni della caccia alla balena per lo piú si ferman proprio a New Bedford, per poi da lí imbarcarsi alla ventura, tanto vale riferire che, da parte mia, avevo tutt’altro per la testa. Ero infatti intenzionato a prendere il mare solo su un legno di Nantucket: tutto quanto riguardasse l’antica e rinomata isola aveva un che di bello e turbolento che mi mandava in visibilio. E poi, pur se di recente New Bedford ha finito pian piano per monopolizzare il commercio baleniero, ormai sopravanzando di parecchio la povera vecchia Nantucket, nondimeno Nantucket resta il grande originale – la Tiro di questa Cartagine – il luogo ove finí spiaggiata la prima balena americana morta. Quei balenieri indigeni che sono i pellerossa non mossero forse da Nantucket per le prime sortite in canoa a caccia del Leviatano? Non prese il largo sempre da Nantucket quella prima avventurosa navicella, carica almeno in parte di ciottoli importati – corre voce – da scagliare alle balene per scoprire quand’erano abbastanza vicine per una temeraria fiocinata dal bompresso?
Con una notte, un giorno e una seconda notte da trascorrere a New Bedford prima di potermi imbarcare per la mia destinazione, dove mangiare e dormire nel frattempo diventava un grattacapo. Meglio non fidarsi della notte, buia e lugubre qual era, diaccia e minacciosa. Non conoscevo nessuno del posto. Con inquieti rampini avevo scandagliato la saccoccia rinvenendo solo qualche moneta d’argento. Insomma Ishmael, dovunque andrai, mi dissi, fermo al centro di una strada desolata, sacca in spalla, a commisurare le tenebre a nord con l’oscurità a sud – dovunque nella tua saggezza tu decida di alloggiare per la notte, caro il mio Ishmael, vedi d’informarti prima sul prezzo e non fare tanto lo schifiltoso.
Battevo le strade con passo esitante e transitai dinanzi all’insegna dei Ramponi incrociati, ma aveva l’aria troppo cara e godereccia. Piú in là, dalle finestre accese di rosso della Locanda del pescespada scaturivano raggi cosí ardenti che sembravano aver sciolto la crosta di neve e ghiaccio di fronte all’edificio; tutt’intorno invece la gelata era rappresa in dieci pollici di lastricato asfaltico, piuttosto seccante qualora, con la suola degli stivali ridotta in condizioni disastrose a furia di sfruttarli, il piede urtava contro gli spunzoni. Troppo costoso e godereccio, pensai ancora una volta, fermandomi un istante a osservare lo sfolgorio profuso per la strada e ad ascoltare il tintinnio dei bicchieri all’interno. Dài, muoviti, Ishmael, dissi alla fine; non senti? Spostati dalla soglia; i tuoi stivali rabberciati ostruiscono il passaggio. E ripresi il cammino. Ora seguivo per istinto le strade che mi portavano all’acqua: lí avrei senz’altro trovato le locande piú a buon mercato, se non le piú festose.
Che strade tetre! Sui due lati, anziché case, blocchi di nerume, con un cero qua e là, come un cero che ondeggi in una tomba. A quell’ora di notte, l’ultimo giorno della settimana, la zona risultava pressoché deserta. Di lí a poco però incontrai una luce fumigante da un edificio basso e largo, l’uscio aperto invogliava a entrare. Aveva un’aria dimessa, quasi fosse destinato a uso pubblico; entrando, per prima cosa incespicai in un ceneraio piazzato nell’atrio. Ah! pensai, ah, mentre soffocavo quasi per il pulviscolo sollevato, queste ceneri provengono dalla città distrutta di Gomorra? E I ramponi incrociati e Il pescespada?… questo allora non può che essere all’insegna della Trappola. Comunque mi ripresi e sentendo qualcuno dentro che si spolmonava, spinsi e aprii una seconda porta interna.
Sembrava una seduta del gran Parlamento Nero in quel di Tofet. Cento visi neri si volsero sugli scranni per sbirciare; e da un pulpito piú in là un nero Angelo del Giudizio sbatacchiava un libro. Era una chiesa di negri e, argomento del predicatore, la nerezza delle tenebre e i pianti e i gemiti e i digrignamenti di laggiú. Ah, Ishmael, bofonchiai arretrando, pessimo ricevimento all’insegna della Trappola!
Proseguendo finii per arrivare a un fioco lume pendulo, non lontano dal molo, e nell’aria intesi uno sconsolato cigolio; alzando gli occhi scorsi oscillante sopra un portone un’insegna dove, dipinto in bianco, era rappresentato alla buona uno spruzzo alto e diritto di spuma nebulosa, a sovrastare le parole: Allo sfiatatoio: Peter Coffin.
Coffin?… Sfiatatoio?… Per essere sinistro lo è, pensai, dato il frangente. Ma a Nantucket il nome, dicono, è comune e questo Peter da lí sarà emigrato. Quel lume cosí fioco, quel posto, per l’ora, abbastanza tranquillo, la stessa sgangherata casupola di legno che sembrava presa e trasportata lí di peso dalle macerie di un quartiere andato a fuoco, e quell’insegna oscillante dal cigolio foriero di miseria, mi fecero credere di aver trovato il posto giusto per un alloggio a buon mercato e per il miglior caffè di ceci.
Strambo era il posto: una vecchia casa con fastigio, paralizzata su un fianco se cosí si può dire e mestamente sghemba, a una brusca svolta esposta ai venti, dove il turbinoso Euroclidone si sgolava piú di quanto non avesse fatto intorno allo scafo sballottato del povero Paolo. Peraltro Euroclidone è uno zefiro oltremodo grato a chi se ne sta al chiuso, con i piedi beatamente a rosolare sulla mensola del camino in attesa di andare a letto. «Nel giudicar del vento turbinoso nomato Euroclidone», dice un antico scrittore, delle cui opere io posseggo l’unica copia ancora esistente, «mirabil differenza fa guatarlo da dietro ’l vetro d’una finestra, con il gelo tutto all’esterno, o osservarlo da quella finestra priva di telaio, con su amendue le bande ’l gelo, che qual unico vetraio ha l’inesausta Morte». Altroché se non è vero, pensai nel rammentare questo brano: voi ragionate bene, vecchi caratteri gotici. Sí, questi occhi son finestre, e questo mio corpo è la casa. Peccato che non abbiano tappato crepe e fessure e ficcato qua e là un po’ di garza. Ma è troppo tardi ormai per apportare migliorie. L’universo è compiuto; posta è l’ultima pietra e i resti trasportati via un milione di anni fa. E quel poveraccio di un Lazzaro, lí che batte i denti contro il cordolo che gli fa da guanciale e scuote i cenci a forza di brividi, potrebbe turarsi le or...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Moby Dick
  3. Etimologia
  4. Passi scelti
  5. 1. Morgane
  6. 2. La sacca da viaggio
  7. 3. Allo sfiatatoio
  8. 4. Il copriletto
  9. 5. Colazione
  10. 6. La strada
  11. 7. La cappella
  12. 8. Il pulpito
  13. 9. Il sermone
  14. 10. Un amico del cuore
  15. 11. Camicia da notte
  16. 12. Biografico
  17. 13. La carriola
  18. 14. Nantucket
  19. 15. Zuppa di pesce
  20. 16. La nave
  21. 17. Il Ramadan
  22. 18. Il suo segno
  23. 19. Il profeta
  24. 20. Gran trambusto
  25. 21. L’imbarco
  26. 22. Buon Natale
  27. 23. La costa sottovento
  28. 24. L’avvocato difensore
  29. 25. Poscritto
  30. 26. Cavalieri e scudieri
  31. 27. Cavalieri e scudieri
  32. 28. Ahab
  33. 29. Entra Ahab; Stubb a lui
  34. 30. La pipa
  35. 31. La regina Mab
  36. 32. Cetologia
  37. 33. Lo Specksynder
  38. 34. Il tavolo della cabina
  39. 35. Il colombiere
  40. 36. Il cassero
  41. 37. Tramonto
  42. 38. Imbrunire
  43. 39. Primo quarto di notte
  44. 40. Mezzanotte, castello di prua
  45. 41. Moby Dick
  46. 42. Il bianco della balena
  47. 43. Ascolta!
  48. 44. La carta
  49. 45. La deposizione giurata
  50. 46. Congetture
  51. 47. Il pagliettaio
  52. 48. La prima ammainata
  53. 49. La iena
  54. 50. La lancia e l’equipaggio di Ahab: Fedallah
  55. 51. Il getto fantasma
  56. 52. L’Albatro
  57. 53. Il Gam
  58. 54. La storia del Town-Ho
  59. 55. Delle immagini mostruose di balene
  60. 56. Delle immagini meno erronee di balene e delle immagini veritiere di scene di caccia alla balena
  61. 57. Delle balene su tela, su denti, su legno, su lamiera, su pietra, su montagne, su stelle
  62. 58. Brit
  63. 59. Calamaro
  64. 60. La lenza
  65. 61. Stubb uccide una balena
  66. 62. Il lancio
  67. 63. Il forcaccio
  68. 64. La cena di Stubb
  69. 65. Piatti a base di balena
  70. 66. Il massacro degli squali
  71. 67. Squartamento
  72. 68. La coltre
  73. 69. Il funerale
  74. 70. La sfinge
  75. 71. La storia del Jeroboam
  76. 72. Il cavo da scimmia
  77. 73. Stubb e Flask uccidono una Balena Franca e poi ci ragionano sopra
  78. 74. La testa del Capodoglio: esame comparato
  79. 75. La testa della Balena Franca: esame comparato
  80. 76. L’ariete
  81. 77. La grande Botte di Heidelberg
  82. 78. Cisterna e buglioli
  83. 79. La prateria
  84. 80. Il gheriglio
  85. 81. Il Pequod incontra la Vergine
  86. 82. L’onore e la gloria della baleneria
  87. 83. Giona sotto il profilo storico
  88. 84. Il tiro con l’asta
  89. 85. La fontana
  90. 86. La coda
  91. 87. La Grande Armada
  92. 88. Banchi e maestri
  93. 89. Pesce preso e pesce libero
  94. 90. Testa o coda
  95. 91. Il Pequod incontra il Bocciolo di rosa
  96. 92. Ambra grigia
  97. 93. Il naufrago
  98. 94. Una stretta di mano
  99. 95. La tonaca
  100. 96. La raffineria
  101. 97. La lampada
  102. 98. Stivaggio e sgombero
  103. 99. Il doblone
  104. 100. Gamba e braccio. Il Pequod di Nantucket incontra il Samuel Enderby di Londra
  105. 101. La caraffa
  106. 102. Una pergola nelle Arsacidi
  107. 103. Misure dello scheletro della balena
  108. 104. La balena fossile
  109. 105. La balena va rimpicciolendo? Si estinguerà?
  110. 106. La gamba di Ahab
  111. 107. Il maestro d’ascia
  112. 108. Ahab e il maestro d’ascia
  113. 109. Ahab e Starbuck in cabina
  114. 110. Queequeg nella sua bara
  115. 111. Il Pacifico
  116. 112. Il fabbro
  117. 113. La forgia
  118. 114. L’indoratura
  119. 115. Il Pequod incontra lo Scapolo
  120. 116. La balena morente
  121. 117. La guardia alla balena
  122. 118. Il quadrante
  123. 119. Le candele
  124. 120. Il ponte verso la fine del primo quarto di notte
  125. 121. Mezzanotte. Le murate del castello di prua
  126. 122. Mezzanotte arriva. Tuoni e fulmini
  127. 123. Il moschetto
  128. 124. L’ago
  129. 125. Il solcometro e la sagola
  130. 126. Il gavitello di salvataggio
  131. 127. Il ponte
  132. 128. Il Pequod incontra la Rachele
  133. 129. La cabina
  134. 130. Il cappello
  135. 131. Il Pequod incontra la Delizia
  136. 132. La sinfonia
  137. 133. La caccia: primo giorno
  138. 134. La caccia: secondo giorno
  139. 135. La caccia: terzo giorno
  140. Epilogo
  141. Il libro
  142. L’autore
  143. Dello stesso autore
  144. Copyright